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    La bellezza di una vita buona e bella dietro a Gesù


    La bellezza di una vita

    buona e bella

    dietro a Gesù

    Lisa Cremaschi

    Introduzione

    E Dio vide che ciò che aveva fatto era cosa bella/buona” (Gen 1,4.ecc.). Due capitoli più tardi, al c. 3, la donna vide che l’albero era bello/buono da mangiare e desiderabile ai suoi occhi (cf.
    Gen 3,6). È possibile armonizzare queste due forme di bellezza? Qual è la bellezza quale Dio la contempla, la bellezza che Dio vuole vedere in noi e tra di noi? E quale invece la bellezza che seduce, stordisce fino a impossessarsi di chi la vede trasformando il bello/buono in un bello/buono soltanto per sé, egoistico … E ancora, dove e come troviamo la bellezza? Abbiamo il diritto in un mondo così brutto, in un mondo di violenze, in un mondo attraversato da barbarie, di sfruttamento del creato, di relazioni personali disastrate, di cercare il bello, di goderne? E noi cristiani quale bellezza perseguiamo? Le nostre chiese, le nostre liturgie, le nostre vite lasciano trasparire qualcosa della bellezza di Dio? Dove e come ciascuno di noi, nel suo piccolo, trova e coltiva spazi di bellezza? Come reagiamo alla domanda angosciata che nel romanzo di Dostoevskij, L’idiota [1], l’adolescente Ippolit, un ragazzo molto malato, rivolge al principe Myškin: “È vero, principe, che voi avete detto che la bellezza salverà il mondo?”. Quali reazioni suscitano in noi queste parole? L’essere umano, secondo l’antropologia dei padri della chiesa d’oriente, aspira naturalmente alla bellezza; ogni sprazzo di bellezza è riflesso di Colui che l’ha creata e che è la Bellezza ultima, Dio stesso. Se da un lato la tradizione patristica applica a Gesù la profezia del servo sofferente di Is 52,2 (LXX): “L’abbiamo visto senza splendore né bellezza”, d’altro lato legge in chiave cristologica il salmo 44,3: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo” e l’esclamazione della sposa del Cantico: “Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso!” (Ct 1,16), e contempla la bellezza di Gesù, la luce che emana da lui e che si riversa su chi lo segue. La vita del cristiano è una vita bella, buona e bella, anche quando, dietro a Gesù attraversa la passione e la morte. Già ora, in questo mondo, il credente riflette sul suo volto la gloria del Cristo risorto, già ora, nello sfiguramento del mondo il cristiano è chiamato ad accogliere nella sua persona la Trasfigurazione operata da Dio; in altri termini a lasciarsi “lavorare” dal Bello (da quello vero!) fino a trasformare la propria esistenza in una vita bella.
    Ripetutamente troviamo nella tradizione patristica parole di rimprovero nei confronti di chi riduce la fede cristiana a un certo numero di opere da compiere, di pratiche ascetiche o liturgiche senza che vi sia conversione, metánoia, cioè mutamento del noûs, del “pensare profondo”, di quei pensieri ultimi che governano l’esistere, che guidano le scelte, che orientano la vita. Molti, ricorda un monaco del V secolo, lo Pseudo-Macario, riducono la loro fede ad atti religiosi [2] , “sono scrupolosi nelle cose esteriori”, [3] fanno discorsi spirituali “senza aver gustato ciò che dicono” [4] , “rivestono le sembianze di monaci o di cristiani”,[5], ma in realtà differiscono dal mondo solo in apparenza perché non si sono piegati sul proprio cuore “per vedere i mali che li tengono prigionieri”[6].
    La via filocalica, cioè di amore per il bello, inizia con il rientrare in se stessi, con un movimento verso il centro della persona, verso il cuore inteso in senso biblico, come centro dell’essere, delle scelte, della vita. Adamo ed Eva, sedotti dalla bellezza e dalla bontà del frutto e spinti da un desiderio egoistico (la philautía), pensano soltanto a prendere, ad accaparrare invece di ricevere e accogliere il dono; si sono appropriati di un cibo al di fuori di una dimensione di rendimento di grazie; ora, di questo cibo tutti abbiamo mangiato e tutti dobbiamo re-imparare un atteggiamento contemplativo, eucaristico sulle cose e sul mondo, che apre alla condivisione con tutti gli esseri umani, riconosciuti figli e figlie dell’unico Padre.

    La creazione del mondo: cosa buona/bella

    Quando ci avviciniamo a un testo lo facciamo guidati da interrogativi, domande che cercano una risposta. Spesso non troviamo risposta alle nostre domande molto semplicemente perché abbiamo indirizzato male le nostre domande. Le prime pagine del libro della Genesi sono state lette molto frequentemente per trovare una spiegazione scientifica circa l’origine del mondo, o una cronaca fedele dei primordi dell’umanità. Attraverso alterne vicissitudini, queste pagine sono state lette quale fedele trascrizione di un’attività creatrice snodatasi in sei giorni, o sono state forzate per cercare un accordo con i dati della scienza, e allora, ad esempio, si è cercato di spiegare che i sei giorni in realtà vogliono indicare sei epoche successive ... Oggi si comincia a disfarsi, sia pure con fatica, di questi occhiali sbagliati con i quali abbiamo accostato Genesi 1-11 e che hanno portato a gravi fraintendimenti, e si comincia a leggere il testo per quello che è, un’opera teologica, e non un testo scientifico o storico. Il “prima”, le origini di cui si parla in queste pagine non hanno nulla a che vedere con le spiegazioni che la paleontologia o la preistoria sono in grado di offrirci sulle origini dell’uomo e del mondo; l’intento di queste pagine è un altro. Esse vogliono descrivere ciò che sta alle radici del nostro essere, della nostra vita di uomini e di donne, e del mondo, ieri, oggi, sempre. Descrivendo le origini di Adamo e di Eva, le origini della creazione, non si riferiscono a un “prima” in senso cronologico, ma a ciò che è prima di tutto, in fondo al nostro essere, la nostra verità più profonda. Chi sono io, che cosa si muove nel profondo del mio cuore, qual è il mio rapporto con Dio, quale il mio rapporto con gli altri. Il problema della creazione, della vita è oggi, in me, in ciascuno di noi. Ora, oggi, l’uomo cerca di sfuggire al nulla, alla morte, all’insicurezza di un mondo minacciato. Il peccato originale non è tanto il primo peccato in senso cronologico, compiuto dal primo uomo e del quale per ereditarietà portiamo le conseguenze, ma è il peccato che ogni uomo non smette di compiere, ora, oggi, preferendo se stesso a Dio, e che diventa origine di ogni altro peccato, fonte, principio di ogni altro peccato.
    Queste pagine ci dicono dunque chi siamo. La Bibbia fa da specchio a chi la legge, ci mostra le profondità del nostro cuore, la nostra identità di creature chiamate alla comunione con il Creatore, con gli uomini tutti, con la creazione, una comunione costantemente minacciata nella quale emerge la fedeltà di Dio che per amore ha creato l’uomo, per amore perdona i suoi tradimenti.
    Queste prime pagine della Bibbia non sono le prime quanto a composizione. Prima di Gen 1-11 sono nati i testi relativi ad Abramo, ai patriarchi, all’esodo dall’Egitto, alla traversata del deserto e alla conquista della terra promessa. Il popolo di Israele ha conosciuto prima la presenza di Dio nella storia, lo ha conosciuto come il Goel, il liberatore; più tardi Israele ha compreso che il Dio che lo ha salvato dall’Egitto è il Dio che ha creato il mondo intero. La chiesa fa leggere questa pagina di Gen 1 intercalandola con il canto dell’Alleluja durante la veglia pasquale invitandoci a cogliere il legame profondo della creazione con la storia della salvezza, con l’evento pasquale, che fa memoria dell’esodo dall’Egitto e profetizza l’esodo definitivo di tutta l’umanità, la trasfigurazione di questa terra e di questo cielo in terra nuova e cieli nuovi.
    Troviamo due racconti della creazione. Il primo è detto sacerdotale e risale alla metà del VI secolo, quando il popolo di Israele era esiliato a Babilonia. Vuole affermare la bontà, la positività della creazione e l’autore si serve a questo scopo di uno stile liturgico, imprime al racconto un 4 andamento innico. La formula ki tob = è cosa bella e buona, che ritorna sei volte in Gen 1, la troviamo frequentemente nei salmi di lode. Si veda, ad esempio, il Sal 100,5: “Perché buono è il Signore, eterna la sua misericordia” e il Sal 106,1: “Celebrate il Signore, perché è buono; eterna è la sua misericordia”; ecc. La Bibbia si apre con un inno di lode a Dio; il creato è testimonianza del suo amore, della sua fedeltà. L’uomo si unisce al canto di lode che sale dalla creazione intera. Il racconto è articolato intorno alla struttura della settimana. Per sei giorni Dio lavora, il settimo si riposa. Il senso dell’ordine dato al popolo di Israele di riposare nel giorno di sabato è anzitutto quello di fare memoria della creazione; Dio è il signore della vita, è lui la fonte della vita, non noi, non il nostro lavoro, non le opere delle nostre mani. Giorno di riposo come giorno di contemplazione del bello, di ogni cosa bella che siamo chiamati a custodire, ricordando che siamo in cammino, in attesa del Regno. Possiamo porre dei segni, segni di bellezza, segni di vita buona e bella nonostante tutto.
    Per dieci volte torna la formula: “Dio disse”. Sul Sinai dieci parole (il Decalogo) hanno creato Israele come popolo. C’è un’alleanza di Dio con il popolo di Israele, ma qui c’è un’alleanza di Dio con l’intera creazione, creata bella e buona. In contrasto con certe correnti della cultura greca che manifestavano disprezzo per la materia e per il corpo, la Bibbia canta la bellezza del creato, la bellezza del corpo. Sono dimensioni che a volte, purtroppo, sono state dimenticate, rinnegate, tradite da noi cristiani.
    Quando Dio cominciò a creare cielo e terra, la terra era informe e deserta. Il verbo qui utilizzato in ebraico bara’ nell’AT ha sempre per soggetto Dio e indica una meraviglia operata da Dio dentro la storia. Ora il riferire questo verbo alla creazione, e in particolare alla creazione dell’uomo, indica che la creazione è opera meravigliosa di Dio. Non viene detto che Dio crea dal nulla. In che cosa consiste la creazione? Nel passaggio dal caos, dalla terra informe e deserta, ricoperta da tenebre oscure, all’universo, a un creato ordinato verso un unico fine, Dio. Con la creazione Dio dice di no al caos, no alla tenebra, all’oscurità. Ma troviamo riflessa in queste parole la nostra esperienza umana, umanissima di de-creazione; quando perdiamo il senso della nostra vita, quando siamo nell’angoscia, la nostra vita diventa informe e deserta. La de-creazione, il movimento inverso a quello voluto da Dio resta una possibilità; rifiutando lo spirito di Dio, possiamo trascinare la nostra vita nel caos, la creazione nel caos.
    Nel sesto giorno Dio crea due opere: gli animali terrestri che non devono essere divinizzati come avveniva in culture circostanti e, infine, l’essere umano. La creazione dell’uomo è l’ultima opera di Dio, e se delle opere precedenti si annota “e vide che era cosa bella/buona”, l’uomo è cosa “molto bella/buona” (Gen 1,31). Essa è introdotta da una formula solenne: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, come nostra somiglianza”. Perché viene usato il plurale? Non si tratta certamente 5 di un plurale maiestatico perché questa forma non esiste in ebraico. Forse Dio parla con gli angeli, come affermano alcuni rabbini?[7] Forse potremmo leggere questo plurale “facciamo” in un altro modo. Dio si rivolge all’uomo e a lui dice: “Facciamo ...”. Diventare uomini e donne è un’opera che si realizza in collaborazione con Dio. Dio chiede la nostra partecipazione, il nostro assenso. Perché la nostra vita sia bella e buona occorre la nostra collaborazione. Abbiamo sempre la tragica possibilità di rifiutarci di collaborare all’opera di Dio, di sottrarci alla bellezza della vita umana.
    Il secondo racconto della creazione dell’uomo (cf. Gen 2,4b-24) si apre con la scena di cielo e terra, che già sono stati creati da Dio e dei quali non è stata descritta la creazione. Il cielo e la terra non sono ancora abitati; è una scena di grande desolazione: una steppa arida, deserta, priva di vita che evoca l’entroterra palestinese, un luogo deserto. Vengono date due motivazioni a questa sterilità della terra: 1) Il Signore non aveva ancora fatto piovere sulla terra. La pioggia è qui vista come dono, benedizione di Dio. La pioggia è possibilità di lavorare la terra e di godere dei suoi frutti, e dunque possibilità di vita. 2) Nessuno lavorava la terra. La terra per dare frutto ha bisogno del lavoro dell’uomo. La creazione senza qualcuno che la custodisca e la lavori è incompiuta. Il mondo ha bisogno dell’uomo e l’uomo del mondo. Il mondo preesistente all’uomo dovrà diventare mondo per l’uomo, un mondo in cui l’uomo possa vivere. Il lavoro è a servizio della vita e non viceversa.
    All’opera di Dio che fa discendere l’acqua dall’alto mediante la pioggia risponde l’opera dell’uomo che incanala quest’acqua perché il dono di Dio non vada sprecato.
    In questa steppa arida, Dio, come abile vasaio, plasma l’uomo, che è polvere dal suolo.
    L’uomo, l’adam, proviene dalla terra, l’adamah. Il verbo qui adoperato jatzar ricorre frequentemente nella Scrittura per definire l’azione di Dio. Lo ritroviamo, ad esempio, nel racconto della vocazione di Geremia: “Prima di plasmarti nel grembo materno, ti conoscevo” (Ger 1,5) e nel Sal 33,5 il salmista confessa che il Signore sa che cosa vi è nel cuore degli uomini, perché “è lui che ha plasmato il loro cuore”. L’uomo è plasmato da Dio, non si è dato la vita da se stesso, non è padrone della propria vita, ha ricevuto l’esistenza da Dio. A chi dimentica l’origine della propria esistenza il profeta Isaia dice: “Un oggetto può dire del suo autore: Non mi ha fatto lui? E un vaso può dire del vasaio: Non capisce?” (Is 29,16). L’uomo è tratto dalla terra: “polvere sei e polvere ritornerai” (Gen 3,19). La sua vita è segnata dalla finitezza, dal limite. Afferma il Sal 103,14: “Egli sa come siamo plasmati; si ricorda che noi siamo polvere”.
    Troviamo in altri passi della Scrittura quest’immagine di Dio che plasma. Dice il Sal 119,73: “Le tue mani mi hanno fatto e plasmato”, e il sal 139 ai vv. 13-15 canta: “Sei tu che creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio, sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo. Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra”.
    Che cosa significa tutto questo per noi oggi? Chi sono io? Da dove vengo? Certamente nella vita di ciascuno converge un’eredità genetica, psicologica, i condizionamenti sociali che hanno influito sulla crescita, sul modo di pensare la vita e il rapporto con gli altri. La mia vita è frutto dell’incontro di un uomo e di una donna, è una vicenda segnata da un amore più o meno riuscito, segnata anche da ferite, da mancanze. Possiamo descrivere, rintracciare molti dei fattori che hanno contribuito al formarsi della nostra umana vicenda, eppure tutto questo non spiega il mistero della vita, il “da dove”, il “perché?” del mio essere ora, qui in questo mondo, in questo corpo, in questa storia.
    Vi parlerò con parole ispirate al libretto di Romano Guardini Accettare se stessi. Lo sguardo di fede ci porta a leggere la vita come dono: io sono stato dato a me stesso. Al principio della mia esistenza sta un’iniziativa, un Qualcuno, che ha dato me a me stesso. Mi ricevo dal Signore, Dio mi ha affidato a me stesso. La mia vita è dono e compito. Ho il dovere di essere quello che sono, di essere io. Nessuno può realizzare al mio posto il compito che mi è affidato. Non posso dimissionare da ciò che sono, fuggire da me stesso rifugiandomi nella fantasia e sognando di essere qualcos’altro rispetto a ciò che sono. Mi è chiesto il coraggio di accettarmi così come sono, di non sottrarmi al compito di esistere, acconsentire a stare nei limiti che mi sono tracciati; in altri termini a rispondere “Amen” al dono della vita. Dio mi ha voluto, proprio me, mi ha pensato, mi ha plasmato, mi ha inviato dentro questa storia, mi ha dato qualcosa di sé: il suo soffio di vita. E dentro le vicende della mia esistenza sono inviato a narrare in un modo che sarà solo mio l’amore del Signore, quell’amore infinito, insondabile di cui ciascuno, a suo modo, è chiamato a diventare pura trasparenza, fedele narrazione.
    Ma Dio giudica negativa la solitudine dell’uomo. “Non è cosa buona che l’uomo sia solo” (Gen 2,18). Dio plasma dal suolo ogni sorta di animali e li conduce all’uomo perché li conosca e imponga loro il nome, ma tra gli animali non trova un aiuto per l’uomo, allora crea la donna. Il racconto intende rivelare chi è la donna, non tanto da dove essa proviene. Il senso del racconto è che l’uomo è davvero tale quando ha di fronte a sé un corrispondente, un altro da sé, e la grande e 7 fondamentale alterità per l’uomo è costituita dalla donna e viceversa. Al v. 18 il testo ebraico presenta difficoltà di traduzione. Già la traduzione greca dei LXX presenta due traduzioni diverse: “un aiuto di fronte a lui” (Gen 2,18); “un aiuto simile a lui” (Gen 2,20). Sono diverse le traduzioni possibili: “un sostegno di fronte a lui”, “qualcuno come lui che lo aiuti”, “aiuto a lui corrispondente”. Ma si può anche tradurre “un aiuto per lui contro di lui” come fa la tradizione ebraica che dice: “Se l’uomo lo merita, essa è un aiuto, altrimenti è contro di lui” (Gen. Rabbah).
    Che cosa ci vuol dire questa interpretazione? Che l’alterità uomo-donna comporta una conflittualità, una differenza che genera tensione. Uomo e donna sono fatti l’uno per l’altro, ma al tempo stesso sono un problema l’uno per l’altro. Uomo e donna sono differenti; trovano l’unità nella sottomissione reciproca. I rabbini affermano che davanti all’uomo passano in corteo gli animali che si accoppiano sotto i suoi occhi, ma questo genere di unione non basta all’uomo, non è un tipo di relazione che può colmare il suo isolamento. L’unione tra uomo e donna è qualcosa di più dell’accoppiamento sessuale. Dio separa per unire, separa in vista di una comunione; crea la donna da un lato dell’adam (non da una costola). La donna è la ishshah tratta dall’ish; uomo e donna sono risultato di una separazione dei lati, che rende possibile il faccia a faccia. Ma la donna è creata mentre l’adam dorme; dorme, dunque non ha visto nulla, non può narrare il come della creazione.
    Resta il mistero anche nella relazione più intensa, mistero che solo rende possibile la comunione vera, che non si deve trasformare in un divorare l’altro pretendendo di conoscerlo. L’uomo cresce e matura nella sua capacità di relazione, relazione non solo con la terra coltivata e lavorata, con gli animali conosciuti e rispettati nel loro ordine, ma soprattutto con la donna, il simile - diverso da sé, l’altro. Per la prima volta l’uomo parla, è capace di dialogo, di comunicazione con l’altro. Uomo e donna tenderanno a essere una carne sola, ma la condizione prima perché questa comunione si realizzi è l’abbandono del padre e della madre, è l’uscire dalla propria casa, dalla certezza e dalla sicurezza della propria casa, non rimanere soltanto figlio o figlia, ma accedere a quello di uomo e donna maturi che affrontano il rischio del dialogo, l’avventura dell’incontro.
    Alla fine di Gen 2 si dice: “Perciò l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre, aderirà alla sua donna e saranno una carne unica. I due, Adamo ed Eva, erano nudi e non ne provavano vergogna” (2,24-25). L’antropologia cristiana è stata sovente influenzata da quella ellenistica che contrapponeva lo spirito al corpo e a tutto ciò che è materia. Questa non è l’antropologia biblica. Il corpo non è un carcere, una prigione da cui ci dobbiamo liberare o che addirittura dobbiamo uccidere, come si è giunti a dire in passato. Papa Giovanni Paolo II in una sua catechesi sull’amore umano ha affermato: “Il Creatore ha assegnato come compito all’uomo il corpo”.[8] Il mio corpo sono io. Un padre della chiesa del III secolo, Tertulliano, afferma che “la carne è cardine della salvezza”. [9] Il cammino di Dio e il cammino dell’uomo dalla creazione in poi tende all’incarnazione.
    Avere un corpo è cosa bella.
    In Gen 3,7 ritorna lo stesso tema della nudità, ma questa volta Adamo ed Eva provano vergogna l’uno dell’altro, sono in una situazione di disagio l’uno verso l’altro. Dopo quanto è accaduto, dopo quella pretesa di rendersi uguali a Dio, si ritrovano a vergognarsi della loro situazione, nell’incapacità di guardarsi in volto, cioè nell’incapacità di una relazione piena, vera, non conflittuale, armoniosa. Il peccato fa sì che l’uomo perda la capacità di accogliere l’altro; l’uomo non sa accogliere la donna e la donna l’uomo, perché non hanno saputo accogliere Dio. È apparso il serpente, figura del male, strisciante. C’è, ma non si sa dove viene, sembra precedere l’uomo, attenderlo al varco, intromettersi in tutto quello che fa. È una verità di cui ciascuno di noi fa esperienza. Il serpente stravolge le parole che Dio ha detto. Dio non è più colui che dona, ma colui che vieta, è il nemico che impedisce la mia realizzazione. Il Padre è trasformato in padrone. Il serpente, invece, offre l’eternità (“Non morirete affatto”), l’onniscienza (“Si aprirebbero i vostri occhi”), la divinizzazione (“Diventereste come Dio”). Sono le componenti di ogni nostro peccato.
    Ma Dio non rinuncia al suo desiderio di comunione con l’uomo. Lo cerca: “Adamo dove sei?”. Non si arrende davanti al peccato. Adamo continua a nascondersi a se stesso e a Dio. Scarica la responsabilità sulla donna, la donna incolpa il serpente ... è il terribile meccanismo di autogiustificazione che impedisce l’assunzione piena della nostra responsabilità. Il serpente viene maledetto, ma allo stesso tempo viene già data una speranza nella resurrezione. All’interno della discendenza della donna ci sarà uno che gli schiaccerà il capo (LXX). [La Vulgata: “essa”, cioè Maria]. Ma per ora il male minaccia l’uomo e la donna. Secondo la comprensione culturale del tempo, l’uomo è colto in rapporto al lavoro e la donna nel suo essere sposa e madre. L’uomo faticherà nel lavoro, la donna nel partorire. E c’è una frattura tra uomo e donna. La donna è attirata dall’uomo, ma questo rapporto è conflittuale. Il desiderio dell’uno verso l’altro è segnato dalla volontà di dominio, dalla diffidenza reciproca. Eppure Dio non abbandona l’essere umano. Non lo lascia solo, continua a mostrare la sua fedeltà. Si piega con amore su di lui e lo riveste con tuniche di pelle, cioè si vuole dire che Dio copre la loro vergogna, i loro sensi di colpa, il loro peccato. La loro relazione è avvolta da misericordia.
    Il corpo è il luogo della relazione con gli altri, con il creato, con Dio. È ciò che fa di ogni uomo un essere relazionale. È nel contempo ciò che mi separa e mi rinchiude in me stesso e ciò che mi rende capace di relazione con l’altro. La mia pelle è la mia superficie sociale. La nostra storia è registrata sul nostro corpo, sulla nostra psiche. Portiamo in noi le tracce di ciò che abbiamo vissuto nel seno materno, le portiamo non solo sulla nostra psiche, ma anche sul nostro corpo. I nostri atteggiamenti, le posture del nostro corpo sono il frutto di una storia e rivelano chi siamo, che cosa desideriamo, che cosa attendiamo. Anche il corpo parla, anche il corpo è linguaggio e può far trasparire la bellezza o la bruttezza (ovviamente non è una valutazione estetica…).

    Il più bello tra i figli dell’uomo

    C’è un’ambiguità della bellezza. Chi ci salva da questa ambiguità? Chi rende puro il nostro sguardo perché possiamo vedere la creazione bella e buona come la vide Dio, perché possiamo guardare tutto ciò che è bello e buono senza concupiscenza, senza quella voracità che ha contraddistinto lo sguardo di Eva, cioè senza desiderio di accaparramento egoistico, generatore di soprusi e violenze? L’epoca moderna ha finito per separare l’idea di bellezza da quella di bontà.
    Come ricongiungerle? E ancora, nella filosofia antica il fuoco, l’aria, la terra, l’acqua, hanno assunto il ruolo di principio creatore del mondo. Il libro della sapienza riflette sulla seduzione esercitata dalla creazione: “Gli uomini considerano Dio il fuoco, il vento, l’aria leggera, la volta stellata, i luminari ... stupiti della loro bellezza li prendono per Dio “ (Sap 13,3-4), ma continua: “dalla bellezza e dalla grandezza delle creature, per analogia, si conosce il Creatore” (Sap 13,5).
    Tuttavia per chi si lascia vincere dall’incanto della creazione “leggero è il rimprovero” (Sap 13,6).
    Anche la creazione è ferita, bisognosa di redenzione; la sua bellezza è momentanea, frammentaria.
    Ce lo dice Paolo: “Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Rm 8,22). Dalla bellezza della creazione si può risalire al Creatore.
    Per il cristiano però la bellezza non è raccontata soltanto dalla creazione; essa si concentra nel Figlio in Gesù che lascia trasparire nella sua vita la bellezza del Padre e la bellezza della vita umana quale Dio l’aveva sognata. La tradizione cristiana ha dato una lettura cristologica del Salmo 45,3 là dove canta: “Tu sei il più bello tra i figli degli uomini, sulle tue labbra è diffusa la grazia”. È lui il nuovo Adamo, l’uomo bello e buono come Dio l’aveva voluto e pensato. Nella trasfigurazione sul monte Tabor Gesù appare trasfigurato agli occhi dei discepoli e il Padre dichiara: “Ecco, il mio figlio amato. Ascoltatelo” (Lc 9,32). E Gesù cerca di restituire la bellezza a ogni vita che incontra, vite segnate dalla malattia, dal peccato, dal rifiuto degli altri … “È passato sulla terra facendo il bene” (At 10,38). Spesso fa questo di sabato, il giorno in cui Dio si è riposato e ha contemplato la bellezza della creazione. Gesù risana quella bellezza ferita. Molti sono colti da stupore (cf. Lc 5,26), molti lo criticano fino a progettarne la morte. Quando i capi dei sacerdoti e dei farisei chiesero alle guardie perché non avessero obbedito all’ordine di arrestare Gesù, esse risposero: “Mai un uomo ha parlato così!” (Gv 7,46). Bellezza del suo agire, bellezza delle sue parole, capacità di godere della 10 bellezza della creazione – i gigli del campo, il tramonto del sole, il fico che mette le gemme, gli uccelli che il Padre nutre, ecc. –, capacità di godere di rapporti umani belli, dell’amicizia.
    Questa bellezza paradossalmente si irradia dalla croce. È il vangelo di Giovanni, in particolare, a vedere manifestata la bellezza, la gloria di Gesù sulla croce, uno strumento di condanna a morte ignominioso.
    Gesù, secondo Giovanni, dichiara di essere “il bel pastore”. Ha scritto il cardinal Martini nella sua Lettera pastorale Quale bellezza salverà il mondo?: “‘Io sono il pastore bello. Il bel pastore offre la propria vita per le pecore … Io sono il bel pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e dono la mia vita per le pecore’ (Gv 10,11.14-15). La bellezza del Pastore sta nell’amore con cui consegna se stesso alla morte per ciascuna delle sue pecore e stabilisce con ognuna di esse una relazione diretta e personale di intensissimo amore. Questo significa che l’esperienza della sua bellezza si fa lasciandosi amare da Lui, consegnandogli il proprio cuore perché lo inondi della sua presenza”.[10] L’Antico Testamento proibisce di produrre immagini di Dio perché l’immagine di Dio c’è già: l’uomo. Ma l’unica e sola perfetta immagine è Gesù Cristo (cf. Col 1,15). Diventa cristiano chi segue Cristo e si lascia trasformare da lui. “L’uomo è una creatura la cui vocazione è diventare Dio”.[11] La tradizione patristica greca è scandita da questo concetto.
    Ireneo nel suo scritto Contro le eresie parla a più riprese delle mani di Dio, che sono il suo Verbo, Gesù Cristo, e lo Spirito santo; le mani di Dio ci hanno plasmato, sono all’opera anche nella redenzione dell’uomo; sono le mani di Dio che liberano i tre giovinetti dalla fornace, che trasportano Enoch ed Elia nei cieli, che nel corso della storia intervengono per sostenere, soccorrere, incoraggiare. Queste mani si sono “abituate” a custodire e condurre la loro creatura.
    Conclude Ireneo: “Adamo non è mai sfuggito alle Mani di Dio”; Dio veglia sempre su di lui “affinché Adamo diventi secondo l’immagine e somiglianza di Dio”.[12] Come diventare fedeli discepoli del Signore? Restando sotto le Mani di Dio! “Non sei tu che fai Dio è Dio che fa te. Se dunque sei l’opera di Dio, aspetta la mano del tuo Artefice, che fa tutte le cose al tempo opportuno ... Presentagli il tuo cuore morbido e malleabile e conserva la forma che ti ha dato l’Artista, avendo in te l’acqua che viene da lui per non rifiutare, indurendoti, l’impronta delle sue dita ... Se gli affiderai ciò che è tuo, cioè la fede in lui e la sottomissione, riceverai la sua arte e sarai l’opera perfetta di Dio”.[13] Ireneo ha una visione ottimistica della storia di salvezza. Adamo ha peccato perché era come un bambino che non sapeva quello che faceva. Dio è un artista che vuole fare di Adamo, dell’essere umano, un’opera d’arte, ma Adamo si sottrae alla mani di Dio, vuole seguire le proprie vie. Convertirsi è cercare le mani di Dio, ritornare sotto le mani di Dio, mani che oggi noi troviamo nella liturgia, nell’ascolto della Parola, nella preghiera. E queste mani di Dio ci correggono, limano ciò che è di troppo, consolidano ciò che è fragile, confortano, guidano, raddrizzano fino a fare di noi un’opera d’arte, un capolavoro...

    La vostra vita tra i non credenti sia bella

    Nella liturgia della notte di Natale si legge quale seconda lettura della messa un passo della Lettera di Paolo a Tito. Scrive l’Apostolo: “Si è manifestata infatti la grazia di Dio che ci insegna a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo” (Tt 2,11-12). La grazia di Dio è il Cristo stesso che viene a insegnarci a vivere. È difficile vivere, a volte è una gran fatica. Abbiamo bisogno di imparare a vivere. Gesù ci insegna a vivere, ci indica una via dentro la quale stare nella vita e quella via è lui stesso che ha dichiarato “Io sono la via, la verità, la vita” (Gv 14,6).
    È una vita di fede, di fiducia in uno che ci ha amato, che ci ha voluto bene. “Voglio bene a te, proprio a te”. E dunque essere cristiani precede il “fare cose cristiane”. Vivo lasciandomi plasmare dalle mani di Dio che trovo nella Parola e nell’Eucarestia. Sono le quattro perseveranze di At 2,42 – “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nella preghiera” - che alimentano la mia fede, la mia speranza, la mia carità e possono trasformare la mia esistenza in una vita “bella”, una vita che lascia trasparire la bellezza di Dio. Queste perseveranze alimentano la fede/fiducia in Gesù che mi ha mostrato il volto di Dio; la speranza che, nonostante tutto, la mia vita ha un senso, la vita di quelli che amo, la vita di ogni essere umano sulla terra ha un senso (cioè è salvata). La speranza vivente (cf. 1Pt 1,3) deposta nei nostri cuori genera in noi una vita nuova. Occorre, dice Pietro, rendere conto della speranza che è in noi (cf. 1Pt 3,15), ma questo rendere conto non avviene a parole, o meglio, non avviene soltanto attraverso le parole, ma innanzitutto con la vita. Se non abbiamo in noi la speranza, come possiamo renderne conto agli altri? I non credenti vedono nei cristiani uomini e donne che sperano? O siamo affetti da lamentosi cronica dentro e fuori la chiesa? Mi fa pensare il testo di Mt 11,16-19: “A chi posso paragonare questa generazione? È simile a bambini che stanno seduti in piazza e, rivolti ai compagni, gridano: ‘Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non vi siete battuti il petto’. È venuto Giovanni, che non mangia e non beve e dicono: ‘È indemoniato’. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: ‘Ecco, è un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori’”. Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie”.
    A volte ci si mette in un angolo, si guarda la realtà, si guardano gli altri dall’esterno senza sentirsi implicati. Si vede tutto ciò che non va, che spesso si identifica soltanto con ciò che non corrisponde ai propri desideri, alle proprie aspettative. E sorge la critica deresponsabilizzata nella quale una sola cosa è certa: che comunque ciò che “gli altri” fanno non va bene. Non è detto che la critica sia necessariamente errata, a volte coglie nel segno; ciò che è profondamente errato è porsi quali spettatori che giudicano e condannano senza sporcarsi le mani. “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non vi siete battuti il petto” (Mt 11,17). Non si entra nella danza della vita quotidiana accordando il passo su quello del vicino; non si condivide il dolore di chi soffre o piange il proprio peccato, non ci si fa carico di “ciò che non va” … ; è una reazione di insoddisfazione profonda a priori, ben diversa da quel riconoscimento della mancanza che segna ogni vita, di quello scarto tra la realtà e i desideri e i sogni buoni che ci spingono a camminare, a cercare, a impegnarci in vista del Regno. Il non voler entrare nella danza della vita rende incapaci anche di gioire di ciò che vi è di bello e di buono in un capriccioso rifiuto che, alla fin fine, altro non è se non un alibi per non rispondere alla chiamata di Gesù a seguirlo ora, in questo mondo, dentro questa storia ferita e lacerata dal peccato.
    Gesù non ha avuto paura di lasciarsi giudicare “mangione e beone, amico di pubblicani e peccatori”; di molti di costoro è stato amico a tal punto che hanno lasciato tutto per seguirlo e condividere il suo cammino. Si pensi anche a solo a Levi Matteo, redattore di questo passo evangelico. Gesù non ha avuto paura di contaminarsi con donne impure e malati di lebbra. Ha seminato il grano buono del vangelo, semi di compassione, misericordia; sapeva che nel campo accanto al grano cresce anche la zizzania (cf. Mt 13,24-30), sapeva che la sua fedeltà all’amore fino alla fine l’avrebbe condotto alla croce, ma questo non gli ha impedito di gioire, di godere dell’amicizia di Lazzaro, Marta, Maria e tanti altri, di vivere pasti a tavola nella condivisione, in uno spirito di ascolto e rispetto reciproco che anticipavano quell’ultimo pasto prima della sua passione e morte. Gesù ha posto dei segni forti, potenti (in greco: dynámeis): molti non hanno voluto riconoscerli. Gesù pone dei segni forti, potenti, ora in questa nostra realtà a volte così povera, in queste nostre storie collettive e personali ferite e distorte, ma non vogliamo riconoscerli. Affetti da lamentosi cronica diventiamo incapaci di gioire dei segni del Regno che già ora possono rallegrare le nostre vite.
    L’amore ‘brutto’ perché egoistico, idolatrico, è vinto da un amore ‘bello’, gratuito, un amore libero da ogni pretesa di dominio e possesso. È quest’amore che rende la vita bella. A quest’amore cerchiamo di tendere. È quello che ci dice la prima lettera di Pietro: “La vostra vita tra i pagani – i 13 non credenti, diremmo noi -sia bella [non: esemplare; in greco: anastrophén … kalén] ... perché vedano le vostre opere belle/buone e diano gloria a Dio” (1Pt 2,12). La carità è frutto di un cuore puro. Nessuna illusione. Nessun idealismo. Il nostro amore è sempre impuro, così come - almeno in parte - è sempre ipocrita. Siamo in cammino, non siamo ancora nel regno. Ma se riconosciamo l’impurità del nostro amore, la zizzania che cresce in noi accanto al grano buono, se riconosciamo con umiltà che sempre abbiamo anche motivazioni seconde – la ricerca di un vantaggio personale - allora possiamo accogliere la Parola che ci purifica e poco per volta lasciare che ci corregga.
    La carità è intensa, o meglio estesa, larga, è frutto del cuore dilatato di cui parla il salmo 119,32. Le nostre relazioni devono essere profonde, ma larghe; cioè dobbiamo consentire all’altro di essere quello che lui è e non pretendere di trasformarlo a nostro piacimento. Dobbiamo far spazio all’altro, con i suoi giorni neri, i suoi limiti, le sue impazienze. La carità è larga, cioè è pronta ad accogliere tutti, ad aprirsi alla novità. La carità è larga, cioè sa perdonare, non si rinchiude sul passato, sulle piccole ferite che nella vita ci infliggiamo a vicenda, non serba rancore.
    Come è possibile tale carità? È possibile se ci lasciamo creare di nuovo dalla Parola. La Parola ha sempre il potere di creare vita. All’inizio della creazione c’è la Parola; Dio dice una parola e crea. Ogni giorno possiamo essere creati di nuovo dalla Parola. Ogni giorno dovremmo cercare di trovare un momento per metterci in ascolto della parola del Signore, “per rinnovare le forze del nostro cuore”.[14] La Parola ci permette di fare l’esegesi della nostra vita, di comprenderla, di leggerla; ci fa da specchio. Da un lato ci mostra il volto di Cristo in ogni sua pagina, come il velo della Veronica, dall’altro ci fa vedere quello che noi siamo. Vediamo riflesso il volto di Cristo e vediamo riflesso il nostro volto; vedo ciò che sono chiamato ad essere e non sono, vedo il volto di Cristo che mi attrae a sé e lavora il mio cuore trasformandolo a immagine del suo.
    Una vita bella è una vita eucaristica, cioè che riconosce che tutto è dono e sa ringraziare per ogni cosa. Che senso ha partecipare a tante eucarestie e non diventare uomini e donne eucaristici, cioè uomini e donne che non vivono nel regime della pretesa e della prepotenza ma in quello del dono (cf. Col 3,15: “Vivete nell’azione di grazie”)? E allora può essere una vita gioiosa. Scriveva Friedrich Nietzsche nel 1882: “Il furibondo lavoro senza respiro [degli americani] – il vizio peculiare del nuovo mondo – comincia già per contagio a inselvatichire la vecchia Europa e a estendere su di essa una prodigiosa assenza di spiritualità. Ci si vergogna già oggi del riposo, il lungo meditare crea quasi rimorsi di coscienza … L’inclinazione alla gioia si chiama già ‘bisogno di ricreazione’ e comincia a vergognarsi di se stessa. ‘È un dovere verso la nostra salute’ si dice quando si è sorpresi durante una gita in campagna”.[15] Si può essere nella gioia? Sì, perché non siamo noi a salvare il mondo! Siamo collaboratori di Dio e collaboratori della gioia dei fratelli e delle sorelle (cf. 2Cor 1,24). Gioia di condividere un buon pasto, gioia nel fare festa, gioia nel coltivare relazioni di amicizia… Le nostre comunità cristiane sono luoghi di bellezza? In senso materiale – quanto squallore a volte nei luoghi religiosi! – ma soprattutto nei rapporti reciproci. Rapporti belli, sinceri, d’amore vicendevole ( e non solo luoghi in cui si organizza la carità per i poveri, ecc.). Le nostre liturgie sono belle, curate? O sono la ripetizione di formule più o meno biascicate da un funzionario del “religioso”? La chiesa, diceva papa Giovanni, non è un museo, non è una cittadella fortificata, è un giardino e in un giardino ci sono piante vive e tanto più sono diverse tanto più il giardino è bello...
    E siamo chiamati a essere sacerdoti, tutti, in forza del battesimo ricevuto, sacerdoti, cioè mediatori tra Dio e gli uomini, incaricati di annunciare le opere meravigliose di Dio, la sua misericordia per tutti. Tutti dobbiamo far conoscere il Signore mostrando il suo volto, donando il perdono, proclamando con la nostra intera vita che nessuno è escluso dalla misericordia. Nel cuore di Dio c’è posto per tutti. Ma a volte, invece, non diventiamo un ostacolo a questo annuncio? “Vi esorto come stranieri e pellegrini” (1Pt 2,11). I cristiani sono nel mondo, ma non appartengono al mondo. Il cristiano non ha patria su questa terra. In una stagione in cui si rinfocolano i nazionalismi, la chiesa dovrebbe ricordare che il cristiano non ha altra patria se non il regno dei cieli. Dobbiamo vivere in una grande fedeltà alla terra, alla storia, agli uomini, al mondo in cui viviamo, il mondo di oggi, senza inutili rimpianti del passato. Chi ha mai detto che il passato sia stato migliore, più santo, più conforme al vangelo del presente, dei tempi di oggi in cui siamo chiamati a vivere? Oggi siamo chiamati alla santità, nel mondo di oggi siamo chiamati a vivere il vangelo; la nostalgia dei tempi che furono, la pretesa di conservare forme di vivere la fede proprie del passato è un atto di disobbedienza allo Spirito che oggi ci chiama alla santità. E tuttavia anche oggi siamo posti dinanzi a eventi, problemi, situazioni che esigono discernimento. È difficile questo continuo discernimento che ci è chiesto tra un modo di pensare a cui dobbiamo opporre un netto rifiuto, e il rendere il vangelo parlante, profetico per i nostri contemporanei. Quante volte ci adeguiamo al mondo, forse illudendoci in questo modo di conquistare la gente! E quanto poco ci preoccupiamo di non fare da schermo al vangelo, di annunciarlo nella sua semplicità e purezza! Al termine delle Beatitudini nel vangelo di Matteo Gesù dichiara: “Voi siete il sale della terra … voi siete la luce del mondo” (Mt 5,13.16). Non ci viene detto che dobbiamo fare di tutto per essere sale e luce per gli altri, sforzarci per essere di esempio agli altri, magari proclamandolo a gran voce. Il discepolo è sale e luce, se lascia plasmare la sua vita dalla logica delle beatitudini.
    “Voi siete sale e luce” è detto a quelli che si lasciano coinvolgere dalla vita di Gesù, luce del mondo. E allora la luce risplende da sé e risplende con i tempi di Dio che non sono i nostri. Se viviamo davvero nell’amore per il Signore, la nostra vita sarà bella, trasfigurata; dietro al Signore ci sono dei no da dire, la rinuncia all’io egoistico, ma il risultato non è un immiserimento della vita, come spesso è accaduto nella tradizione cristiana. Se uno, come dice Agostino, è innamorato della bellezza spirituale, questa bellezza traspare nel suo modo di essere, nelle sue relazioni, nei luoghi in cui vive, nel suo amore per il creato, per le creature, nella gioia e nella gratitudine per i doni che Dio ha dato all’uomo quando sono impiegati per amare gli altri.
    Ha scritto Carlo Maria Martini nella Lettera pastorale già ricordata: “Non basta deplorare e denunciare le brutture del nostro mondo. Non basta neppure, per la nostra epoca disincantata, parlare di giustizia, di doveri, di bene comune, di programmi pastorali, di esigenze evangeliche.
    Bisogna parlarne con un cuore carico di amore compassionevole, facendo esperienza di quella carità che dona con gioia e suscita entusiasmo; bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio”.[16]


    NOTE

    1 F. Dostoevskij, L’idiota III,6.
    2 Pseudo-Macario, Omelia 33,1, in Spirito e fuoco. Omelie spirituali (collezione II), a cura di L. Cremaschi, Bose 1995, p. 337.
    3 Pseudo-Macario, Omelia 15,48, p. 211.
    4 Ibid. 17,12, p. 231.
    5 Ibid. 38,1, p. 357.
    6 Ibid. 15,48, p. 211.
    7 Questa è un’interpretazione frequente nella tradizione ebraica. In un midrash si racconta che quando Dio “si accinse a creare l’uomo, gli angeli al suo servizio si divisero ... Alcuni dicevano: ‘Si crei’, altri dicevano: ‘Non si crei’. Gli angeli dell’amore e della giustizia volevano che fosse creato; gli angeli della verità e della pace si opponevano. La creazione dell’uomo interroga gli angeli dell’amore, della verità, della pace, della giustizia. Verità e pace si oppongono dicendo che l’uomo le offenderà: “Sarà menzognero”, dice la verità; “Sarà litigioso e farà guerre”, dice la pace. Ma l’amore e la giustizia dicono: “Senza l’uomo chi ci realizzerà?”. Questi angeli stanno ancora discutendo, quando Dio interviene e dice: “Che cosa discutete? L’uomo è già creato!”. Creando l’uomo Dio si è assunto un rischio: che la pace e la verità vengano ferite e offese dall’uomo, ma egli l’ha creato a sua immagine e dunque capace di amore e di giustizia (Gen Rabbah 8,5). Secondo un altro testo (bSanehdrin 38b) gli angeli contestano Dio dicendo: “Quest’uomo che tu vuoi creare è breve di giorni e pieno di inquietudine e giungerà a peccare e se tu non sarai misericordioso con lui, è meglio per lui che non venga al mondo”. Dio risponde: “Forse per nulla sono chiamato paziente e misericordioso?” (Pirqe rabbi Eliezer 11).
    8 Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò, Roma 1987, p. 235.
    9 Tertulliano, La resurrezione dei morti 8,2.
    10 C. M. Martini, Quale bellezza salverà il mondo? Lettera pastorale 1999-2000, Milano 1999, p. 36.
    11 Gregorio di Nazianzo, Discorso 43,48.
    12 Ireneo di Lione, Contro le eresie V,1,3.
    13 Ibid. IV,39,2.
    14 Pseudo Ugo, Sulla regola di Sant’Agostino 4.
    15 F. Nietzsche, La gaia scienza, par. 329.
    16 C. M. Martini, Quale bellezza salverà il mondo? Lettera pastorale anno 1999-2000, Milano 1999, pp. 12-13.


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