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    La speranza “sorella più piccola”
    Gianfranco Ravasi

    La speranza non è né inerzia, né impazienza. È invece fiducia e condivisione dell'azione lenta e nascosta di Dio che conduce la storia alla meta simboleggiata dalla mietitura, nella quale grano e zizzania saranno separati e vagliati per quello che sono

    “E’ sperare la cosa difficile
    a voce bassa e vergognosamente.
    E la cosa facile è disperare/ ed è la grande tentazione”.
    Così, nel poema II portico del mistero della seconda virtù (1911), Charles Péguy celebrava questa “sorella più piccola” della fede e della carità, seconda virtù teologale, dono divino da coltivare con pazienza e fatica. Non per nulla, accanto al greco elpis che la designa, S. Paolo userà per descriverla anche il termine hypomonè, “costanza”, letteralmente un “rimanere sotto” un peso da reggere, un restare sotto un cielo oscuro con la certezza che giungerà il tempo della sosta e della luce. È per questo che ai cristiani di Tessalonica l’Apostolo raccomanderà “l’impegno nella fede, l’operosità nella carità e la costanza nella speranza” (1Tess 1,3).
    Il credente, infatti, conosce l'amarezza dell'esistenza e le contraddizioni della storia perché la religione biblica non lo invita a decollare dalla realtà verso cieli mitici e mistici, bensì a camminare per le strade della quotidianità. Anche sulle sue labbra affiorano le domande dei Salmisti:
    “Perché, o Signore?... Fino a quando, o Signore, te ne starai a guardare?”. O la confessione di Giobbe: “I miei giorni scorrono veloci come una spola, svaniscono senza un filo di speranza... La mia speranza dov’è mai nascosta? Qualcuno ha intravisto la mia felicità?” (7,6; 17,15). È proprio in questo orizzonte concreto e aspro che deve scattare l’impegno: ritrovare la speranza anche quando si procede in mezzo al trionfo dell’ingiustizia. È quello che ripetono i Salmisti: “Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui; non irritarti per chi ha successo, per l’uomo che trama insidie... Io spero nella tua parola” (37,7; 119,81). Due sono, quindi, le componenti che reggono questa virtù. C’è innanzitutto la certezza che la parola ultima sarà quella di Dio che giudicherà questa sghemba e scandalosa storia umana. Emblematica è la parabola del grano e della zizzania (Matteo 13,24-30). La scena del mondo è comparata a quella di un campo ove grano ed erbacce crescono insieme: bene e male si fronteggiano e il male sembra ben più vigoroso. Si ha, allora, la grande tentazione della rassegnazione, dello scoraggiamento o, al contrario, quella della reazione rabbiosa e violenta. La speranza non è né inerzia, né impazienza. Non è assenteismo dimissionario, né irruzione veemente che, anziché salvare il bene, allarga solo le ferite. È invece fiducia e condivisione dell’azione lenta e nascosta di Dio che conduce la storia alla meta simboleggiata dalla mietitura, nella quale grano e zizzania saranno separati e vagliati per quello che sono.
    Ecco, allora, a questo punto, l’altro aspetto, quello dell'impegno umano nella resistenza al male, nella fedeltà al bene, nell’attesa operosa. È ciò che un sapiente biblico, forse di Alessandria d'Egitto, suggeriva: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio... Anche se agli occhi degli uomini subiscono prove, la loro speranza è piena di immortalità” (Sapienza 3,1.4). Si costruisce con pazienza il regno di Dio in mezzo alle prove, tenendo sempre alta la fiaccola della speranza perché ciò che attende l’umanità e l’essere intero non è il baratro del nulla ma è quella città che l’Apocalisse descrive a suggello della sua realistica e severa lettura della storia umana: la Gerusalemme nuova e perfetta ove Dio passerà a “tergere ogni lacrima dagli occhi: non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (21, 4).
    Il filosofo Ernst Bloch, autore della famosa opera Il principio della speranza (1954-59), suggestivamente ricordava che “finché c’è fede, c’è speranza”, al contrario del motto tradizionale “finché c’è vita, c’è speranza”. L'olio della fede alimenta la lucerna della speranza e ci spinge a trascendere il male, a “rimanere sotto” (hypomonè) il giogo delle prove con fedeltà, a proseguire verso quell’orizzonte di luce che ancora è lontano, ma che è certo e preparato da Dio stesso. È per questo che S. Pietro ripete ai cristiani, oggi come allora, il suo appello: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pietro 3,15).


    Uomini e donne della speranza
    Paola Ricci Sindoni

    Dire laicità significa condividere con tutti l'ansia premurosa per il presente e anche la passione per quanto abbiamo davanti a noi

    “L’uomo non va capito tanto dal suo passato, quanto dal futuro che egli sogna”, sosteneva qualche anno fa il teologo Ladislaus Boros. Questo non certo perché le ferite del passato e le delusioni del presente debbano esporre l’uomo a una irreale fuga in avanti, ma a motivo della speranza che può e deve diventare una categoria essenziale dell'identità del laico credente.
    Dire laicità significa predicare l'amore per il mondo e condividere con tutti l'ansia premurosa per il presente e anche la passione per quanto abbiamo davanti a noi. Non si tratta certo di immaginare idealmente o razionalmente un nuovo progetto di vita, in grado di neutralizzare le inquietudini e le crisi che attraversano ormai le fibre nascoste dell’essere umano nel mondo, quanto individuare nell’uomo vivente la dimensione del suo reale trascendimento. Questo movimento non è altro “che la capacità che hanno gli esseri di uscire da sé, oltrepassando i propri stessi limiti, lasciando l’impronta di un altro essere, producendo un effetto, agendo oltre se stessi, come se l’essere di ogni cosa terminasse in un’altra” (Maria Zambrano). Esiste, insomma, sul fondo di ogni essere umano un’ansia di trascendenza, che è pura fidatezza nella capacità rivelativa dell’incontro, nella possibilità estrema di intercettare l’alterità, con cui ci si apre con slancio alla compiutezza di ciò che l’uomo vuole essere.
    “Il doversi creare il proprio essere si manifesta precisamente con ciò che chiamiamo speranza”: è sempre la filosofa spagnola Maria Zambrano che parla.
    L’essere umano, al contempo solitario e mancante, ha bisogno di una realtà intera in cui vivere, di una terra in cui crescere e dimorare, di un luogo che sia tanto ospitale da condensare la sua totale coscienza temporale. Questa appare, infatti, sempre esposta alla drammatica alternativa di doversi irrigidire in un presente vuoto e assolutizzato, in un passato sterilmente assunto, oppure in un futuro, dato come puro non-essere.
    La speranza, in altri termini, non è soltanto per l’uomo la possibilità di realizzare tante opzioni nel presente, ma l’orizzonte aperto verso quell’ulteriorità di “Essere” che preme per un pieno compimento di sé. È anche garanzia di un legame rinsaldato nell’incontro con gli altri uomini, quello che sempre si compie nel presente, nel tempo cioè divenuto luogo originario della presenza dell’Altro.
    Un modo per dire che la speranza non è tensione autentica verso un futuro amato e cercato, se non si fa terra presente dell’incontro, luogo che preme, oggi, ora, perché ciò che sta oltre, divenga sogno credibile. Certo, questa non è ancora speranza tematizzata, ma solo innata tensione dell’anima che spinge per ritrovare nel presente il terreno su cui radicare l’attesa, “speranza primordiale”, può essere detta, quella che consente di muovere i primi passi verso il futuro.
    La speranza di un futuro migliore è indistruttibilmente fondata nell’umana aspirazione alla felicità, che può rivestire i panni, a volte, dei segni poco appariscenti, ma attraverso i quali può succedere di scoprire i riflessi di una dignità eterna. Ogni credente sa che le sue attese, sempre più grandi delle sue possibilità, possono forzare la realtà e spingerla verso quella sorgente originaria, ancora in parte nascosta. Tale fonte primordiale è indicata in modo grandioso e suggestivo in quel principio di comprensione cristiana dell’esistenza, che Paolo ha così espresso: “Ciò che nessun occhio ha visto, e che nessun orecchio ha udito, e ciò che in nessun cuore umano è emerso, Dio lo ha preparato per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).
    Il Maestro di Nazareth si autopresenta come il “compimento”, il perfezionamento di tutte le promesse, la realizzazione della Speranza, madre di tutte le speranze. Egli è colui che non “passa”; egli resta: “Io resto con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Tutte le promesse hanno in lui il loro adempimento: “Ecco io vi mando la promessa di mio Padre” (Lc 24,49). Ogni anelito dell’uomo sembra, anche inconsapevolmente, puntare su di Lui; ogni slancio impaziente verso il compiersi dell'attesa, che trova espressione nel suo personificare la speranza che implora: “Vieni presto” (Ap 22,17). Una speranza così non delude (Rm 5,5), anzi si pone come dinamica positiva contro le inevitabili ricadute nel dolore e nella disperazione: “Noi sappiamo che il Cristo, una volta risorto da morte, non muore più. La morte non ha potere su di lui(...). Anche voi dovete pensare di voi la stessa cosa” (Rm 6, 9-11). In Gesù “tutti i conti tornano” (L. Boros). Egli realizza pienamente e, quindi, assolutamente comprende la vita umana: “Egli è il giudice dei pensieri e dei sentimenti del cuore: nessuna creatura è nascosta davanti a lui; tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto” (Eb 4,12-13). La salvezza, già realizzata in Gesù Cristo, attende di compiersi in ciascun uomo, che si pone sulla terra dell’incontro con Lui. Si ha a che fare qui non con una attesa indeterminata, ma con una speranza piena e rivolta a un contenuto di pienezza. Paolo può dire al riguardo: “Gioite nella speranza” (Rm 12,12), anche quando si è travolti dal dolore e dalla delusione.
    Senza un pensiero forte sul senso dell’alleanza, capace di istituire l’assolutezza della speranza, non sarebbe comprensibile l’esperienza ebraico-cristiana della delusione e della sofferenza. Questo non significa certo che la lunga pazienza dello sperare annulli d’incanto l’ineliminabile presenza del male nel mondo, là dove il rischio del fallimento è sempre in agguato. E tutto ciò deve diventare carne e sangue del laico credente, aperto alle attese del mondo senza facili ottimismi, ma anche senza consolanti certezze.
    Non è più tempo, anche all’interno della vita ecclesiale, di facili fughe in avanti, destinate a lasciare inevase le grandi questioni dell’umanità che pure ci appartengono e ci accompagnano. Né è più possibile convivere con progetti di piccolo calibro, quelli che ci rassicurano dentro le pareti chiuse dello spazio privato o della propria comunità di appartenenza. La nostra coscienza di credenti, uomini e donne che vivono la fedeltà alla loro storia, ci conduce sempre al di là, dove la speranza indica, senza fragore ma con urgenza, che è possibile e necessario dare compimento alla nostra apertura verso l’Altro: Altro che è insieme il mio prossimo, vicino e lontano, oltre che il segno di una Trascendenza creduta e amata.


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