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    «Non desiderare...»

    Il nono e il decimo comandamento

    Gianfranco Ravasi

    Identico è l'imperativo che regge gli ultimi due comandamenti, ritmato sul verbo "desiderare": è per questo che noi optiamo per un'unica trattazione. Fin dagli inizi del nostro percorso all'interno del Decalogo abbiamo segnalato la presenza nella Bibbia di due varianti dello stesso testo, l'una nel libro dell'Esodo e l'altra nel libro del Deuteronomio. Nel nostro caso la comparazione tra queste due formulazioni può risultare significativa. In Esodo 20,17 ci imbattiamo in due distinti comandamenti, appunto il nono e il decimo della serie: «Non desiderare la casa del tuo prossimo! Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo!».
    Se, invece, esaminiamo l'equivalente del Deuteronomio (5,21), ci imbattiamo in questa sequenza: «Non desiderare la moglie del tuo prossimo! Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo!». A prima vista avremmo una variante suggestiva: nella sequenza degli oggetti del desiderio, il Deuteronomio - comportandosi più rispettosamente nei confronti della dignità della persona - pone la donna al primo posto e solo successivamente la casa e le altre realtà. Tuttavia anche la formula più antica, quella dell'Esodo, è meno lontana di quanto a prima vista sembri dalla stessa concezione. Infatti si direbbe: «Non desiderare la casa del tuo prossimo», cioè la sua famiglia che poi, nel comandamento successivo, sarebbe specificata nei suoi soggetti e nei beni: moglie, schiavi, animali, terreni o cose.
    A questo punto la nostra attenzione deve concentrarsi proprio sul verbo fondamentale "desiderare", in ebraico hamad (in realtà, il passo del Deuteronomio ne usa un altro per il "desiderio" della donna, ma in pratica essi sono sinonimi). In un saggio importante, apparso già nel 1927, sul Decalogo, lo studioso tedesco Johannes Herrmann puntualizzava che «hamad non significa un 'desiderare' nel senso di un semplice volere o augurarsi, ma include tutte le macchinazioni che portano a impossessarsi di quanto è desiderato». Detto in altri termini, non siamo in presenza della condanna di un vago desiderio o di un'attrazione istintiva, bensì di un vero e proprio progetto tendente alla conquista di una meta prefissata, come si fa capire nel giudizio su chi si lascia catturare dall'idolatria della ricchezza: «Non desiderare l'argento e l'oro che sono negli idoli e non prenderteli, perché non divengano un laccio per te!» (Deuteronomio 7,25).
    Non hanno, allora, molto senso certe ironie che hanno bollato questi due comandamenti come impossibili. Pensiamo solo ai film dal titolo Non desiderare la donna d'altri, quelli di Garson Canin del 1940, con Charles Laughton e Carole Lombard, e di Vincent J. Donehue del 1959. con Montgomery Clift e Myrna Loy. Diverso è il caso del regista polacco Krzystof Kieslowski che a suo tempo evocammo per i dieci film dedicati ai vari comandamenti. Nel caso del nono (1988). egli mette in scena il tormento di un ragazzo, ancora ignaro dei segreti della sessualità, innamorato a distanza di una bella e disinibita trentenne. La spia, la segue, la ossessiona e alla fine compie un passo falso che renderà triste e drammatico l'esito finale.
    Nella luce genuina del precetto decalogico si muove anche Gesù quando nel Discorso della Montagna, la "Magna Charta" del cristianesimo, coglie in profondità lo spirito del nono comandamento e lo conduce al suo valore radicale: «lo vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Matteo 5,28). Gesù non è così irrealistico e puritano da bollare irrimediabilmente una reazione primordiale, un'attrattiva spontanea ma, come sottolinea il rimando al "cuore", cioè secondo il linguaggio biblico alla coscienza, egli punta al "desiderio" nel senso di macchinazione, progettazione, decisione intima e profonda. Cristo è, perciò, pronto a perdonare l'adultera che in un momento di debolezza può aver peccato; ma condanna chi, dopo aver tentato in tutti i modi di irretire nei suoi desideri la moglie del suo prossimo, alla fine paradossalmente non ci riesce. Eppure egli ha consumato l'adulterio nel suo "cuore".
    Decisiva è, quindi, la volontà, la scelta morale; l'azione aggiungerà gravità, ma la radice del peccato è proprio in quel hamad, in quel "desiderare" fondamentale, coerente e cosciente. In questa prospettiva è da leggere quanto scrive S. Paolo riguardo alla funzione della Legge sinaitica che risveglia il senso del peccato e la sua subdola forza: «Che diremo dunque? Che la Legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la Legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare!» (Romani 7,7). Dopo aver puntualizzato il senso genuino di questi due ultimi comandamenti, vorremmo scavare nella loro portata permanentemente valida. Faremo, perciò, tre altre considerazioni.
    La prima riguarda un elemento positivo, quello del desiderio in sé assunto. Al contrario di quanto ci ha abituati una certa predicazione ascetico-puritana, la Bibbia non propone un modello buddhista di cancellazione di ogni desiderio come sorgente dell'esperienza del dolore. Si pensi solo all'attesa quasi spasmodica dei patriarchi (ma non solo) per avere un figlio che continui il proprio nome oppure alla tensione verso la conquista di una terra in cui vivere in libertà, un desiderio quest'ultimo che pervaderà tutto Israele nell'epoca dell'esodo dall'Egitto. Anzi, anche una volta conquistati questi beni, essi diverranno la sorgente di un desiderio ulteriore che conduce verso l'eternità e l'infinito (la terra promessa diventa segno dell'eterna comunione con Dio), attuando così l'implicita assonanza insita tra "desiderio" e de sideribus, cioè qualcosa che ci proviene dalle stelle, dall'immensità senza limiti.
    Nel suo Zibaldone Leopardi acutamente annotava: «Diciamo male che il tal desiderio è stato soddisfatto. Non si- soddisfano i desideri, conseguito che abbiamo l'oggetto, ma si spengono, cioè si perdono ed abbandonano per la certezza di non poterli mai soddisfare». Il pessimismo di questa osservazione non cancella il dato indiscutibile che l'uomo non è mai soddisfatto perché il suo desiderio è sempre spia di un Oltre infinito. È così che nel Salterio si ripete: «Signore, davanti a te è ogni mio desiderio... Mio Dio, questo io desidero: la tua Legge è nel profondo del mio cuore... lo desidero la tua salvezza... Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio... Di te ha sete l'anima mia, a te anela la mia carne» (Salmi 38,10; 119,174; 40,9; 42,1; 63,2). Anzi, si ribadisce a più riprese che il Signore esaudisce i desideri del cuore giusto (Salmi 9,38; 21,3; 37,4; Proverbi 10,24).
    A questa considerazione che presenta «il desiderio come albero di vita» (Proverbi 13,12) ne associamo per antitesi una seconda che si muove nello spirito dei nostri due comandamenti. Accanto al "ben desiderare", che è poi un "desiderare il bene", c'è però la bramosia, la concupiscenza, l'ingordigia che è poi un "desiderare il male". Emblematico è il racconto del libro biblico dei Numeri sul dono delle quaglie (11,31-35) che ha al centro il pittoresco ritratto dell'ingordo che accumula e alla fine prova nausea: «Avevano ancora la carne fra i denti e non l'avevano ancora masticata, quando lo sdegno del Signore si accese contro il popolo...» (versetto 33). Il monito di Dio era stato folgorante: «Mangerete carne non per uno, due, cinque, dieci o venti giorni ma per un mese intero finché vi esca dalle narici e vi venga a nausea» (Numeri 11,19-20). Il luogo dove è collocato questo episodio di desiderio frenetico e incontrollato sarà significativamente denominato in ebraico Qi-brot-Taava', "sepolcri della bramosia", perché —commenta la Bibbia — «qui fu sepolta la gente che si era lasciata dominare dall'ingordigia» (Numeri 11,34).
    Le varianti di questo "desiderare" viziato e vizioso sono molteplici e si chiamano concupiscenza, sensualità, avidità, sregolatezza, libidine, invidia e così via. Perché il cuore non resti impigliato nelle sue reti deve anche affidarsi alla grazia divina, come suggerisce questa invocazione del Siracide, sapiente biblico del II sec. a.C.: «Signore, padre e padrone della mia vita, non abbandonarmi al volere dei miei vizi, non lasciarmi cadere a causa loro. Chi applicherà la frusta ai miei pensieri, al mio cuore la disciplina della sapienza? Signore, padre e Dio della mia vita, non mettermi in balìa di sguardi sfrontati e allontana da me la concupiscenza. Sensualità e libidine non s'impadroniscano di me; a desideri vergognosi non mi abbandonare!» (23,1-2. 4-6).
    Eccoci, infine, alla terza e ultima considerazione che riserviamo agli oggetti del desiderio. Il nono e il decimo comandamenti sono paralleli al sesto e al settimo ("Non commettere adulterio!" e "Non rubare!"). Si ribadisce, dunque, attraverso il simbolo della "casa" il diritto di proprietà di una persona e di una famiglia, visto come tutela della dignità personale e sociale. È facile registrare nel-la Bibbia la denuncia più severa contro quanti, come il re Acab e sua moglie Gezabele nei confronti del contadino Nabot (1 Re 21), alienano con la violenza o l'inganno lo spazio vitale degli altri. «Guai a voi — ammonisce il profeta Isaia — che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio...» (5,8). Michea gli fa eco: «Sono avidi di campi e li usurpano, di case e se le prendono» (2,2). Il libro della Legge ha questa maledizione: «Maledetto chi sposta i confini del suo prossimo» (Deuteronomio 27,17).
    Il Catechismo della Chiesa Cattolica così commenta questo precetto: «Esso proibisce la cupidigia dei beni altrui, che è la radice del furto, della rapina e della frode... Proibisce l'avidità e il desiderio di appropriarsi senza misura dei beni terreni; vieta la cupidigia sregolata, generata dalla smodata brama delle ricchezze e del potere in esse insito. Proibisce anche il desiderio di commettere un'ingiustizia, con la quale si danneggerebbe il prossimo nei suoi beni temporali... Il decimo comandamento esige che si bandisca dal cuore umano l'invidia che può condurre ai peggiori misfatti» (nn. 2534; 2536; 2538). Dovrebbe valere anche nei nostri giorni, che spesso esaltano la ricchezza ostentata e sfacciata come fonte di successo politico e sociale, il monito del Salmista: «Non confidate nella violenza, non illudetevi della rapina; alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore!» (Salmo 62,11).
    L'altra componente del cattivo desiderio è "la donna del tuo prossimo". Si riprende, dunque, da un'altra angolatura - quella appunto del "desiderio-macchinazione" che precede, genera e supera l'atto concreto - il sesto comandamento che già proibiva l'adulterio. Si condannano, così, Davide e la sua cieca passione per Betsabea che lo conduce fino all'assassinio (2 Samuele 11) o quella morbosa di suo figlio Assalonne per la sorellastra Tamar (2 Sarnuele 13,1-20) o ancora l'eccitazione delusa, che sfocia anch'essa in un tentativo di delitto, dei due vecchi perversi nei confronti di Susanna (Daniele 13). Giobbe poteva, invece, dichiarare senza esitazione di «avere stretto con, gli occhi un patto: non fissare neppure una vergine» (31,1). E il citato Siracide ammoniva il suo discepolo: «Distogli gli occhi da una donna bella, non fissare una bellezza che non ti appartiene» (9,8). E ancora: «Non seguire le passioni, poni un freno ai tuoi desideri!» (18,30).
    È, quindi, condannata dal Decalogo la "concupiscenza" nel senso popolare del termine, ma anche in quello più profondo ed etimologico che rimanda a “ogni forma veemente di desiderio umano». La teologia cristiana ha dato a questa parola il significato specifico di moto dell'appetito sensibile che si oppone-ai dettami della ragione umana. Essa ingenera disordine nelle facoltà morali dell'uomo» (così il Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2515). In questa linea dobbiamo dire che il nono comandamento non si limita a proteggere l'istituto matrimoniale ma va ben oltre e colpisce il cuore di una mentalità diffusa ai nostri giorni. Esso non condanna solo i tentativi di impadronirsi dell'amore della donna di un altro ma anche ogni atteggiamento che riduca la donna a mero "oggetto" del desiderio, a un giocattolo. E in questo la televisione, il cinema, la pubblicità, i giornali possono diventare un infame strumento di perversione morale. Viene così bollato il terribile desiderio di possedere l'altro, riducendolo a proprio dominio e, in casi tragici che sono ben noti a tutti, fino alla schiavitù.
    Molti testi letterari del Novecento sono la testimonianza di questa volontà perversa e sadica di impossessarsi dell'altra persona fino a torturarla interiormente (e talora anche fisicamente) strappandola ai suoi affetti, alla sua libertà: solo per fare un paio di esempi, pensiamo alla Xavière del romanzo L'invitata (ed. Mondadori) di Simone de Beauvoir (1943) o alla Cecilia della Noia di Alberto Moravia (Bompiani 1960). Purtroppo, come si legge nella Lettera di S. Giacomo: «Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quando è consumato, produce la morte» (1,14-15). È, infatti, «dal cuore che provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni», come notava Gesù (Matteo 15,19). È per questo che egli ha fatto risuonare con forza sulla vetta del Monte delle Beatitudini questa proclamazione: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio!» (Matteo 5,8).


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