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    Il concetto di Dio

    dopo Auschwitz

    Carmine Di Sante

    Dopo Auschwitz niente può essere più come prima: né la storia, né la letteratura, né la filosofia, né la teologia.
    Ma come pensare o ripensare Dio dopo Auschwitz? La risposta può essere solo una: alla luce del suo silenzio ad Auschwitz.
    Il silenzio è il tratto dominante di Auschwitz. Qui tutto si è consumato nell'abisso del silenzio più totale: delle nazioni europee e dei loro capi, degli organismi internazionali e dei loro responsabili, delle istituzioni culturali e dei loro intellettuali, delle chiese e dei loro leaders; ma, soprattutto, nel silenzio dello stesso Dio che, tra tutti i silenzi, è, e resta, il più interrogante, angosciante ed inquietante.
    Ha scritto E. Wiesel: "forse un giorno qualcuno ci spiegherà come è stato possibile Auschwitz a livello umano, ma a livello di Dio resterà sempre il'più inquietante dei misteri".
    Il silenzio di Dio ad Auschwitz è inquietante perché provoca, interroga, tormenta e sconquassa sottraendoci alla quiete dei nostri pensieri, delle nostre filosofie, delle nostre teologie e delle nostre teodicee e costringendoci a ripensare, fin dalle fondamenta, sia la ragione, nelle sue formulazioni teoriche e istituzionali, sia la religione, nelle sue oggettivazioni simboliche e rituali. Il silenzio di Dio è inquietante perché krisis sia del logos, il principio costitutivo della modernità e della laicità, e sia della fede, il principio costitutivo dei credenti.
    Il mio contributo si articolerà intorno a tre punti che, nel loro insieme, vogliono costituire come una ermeneutica del silenzio di Dio ad Auschwitz: un silenzio che parla, un silenzio che giudica e un silenzio che istituisce la responsabilità indeclinabile; un'ermeneutica, comunque, come è facile immaginare, timida, discreta, appena sussurrata, "balbettata", consapevole del mistero impenetrabile di questo silenzio ma anche dell'urgenza di tendere l'orecchio per coglierne eventuali tracce di senso che in esso possono celarsi.

    Il silenzio di Dio come parola

    Di fronte ai sei milioni di ebrei (come pure di fronte agli altri milioni di non ebrei: handicappati, zingari, omosessuali e prigionieri politici) Dio non è intervenuto a salvarli. Egli è rimasto in silenzio, muto e insensibile al loro grido, al loro gemito, alle loro invocazioni e alla loro disperazione.
    Dov'era Dio quando migliaia di bambini bruciavano nelle fosse? Quando i forni crematori funzionavano giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Dov'era quando ad Auschwitz, Birkenau, Dachau, Buna... venivano innalzate le fabbriche della morte? Ma di fronte a questo incontestabile silenzio ecco subito l'interrogazione: come interpretarlo? Come assenza della sua presenza o come modalità di una sua nuova e più radicale presenza? Come negazione della sua voce o come apparizione o rivelazione di una nuova modalità di voce ancora più potente?
    È nota la pagina di 2 Re 19, 11-13 che narra del profeta Elia costretto a fuggire e a rifugiarsi nel deserto dove Dio gli si rivela nella verità per la prima volta: "Gli fu detto: 'esci e fermati sul monte alla presenza del Signore. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu la voce del silenzio sottile. Come l'udì, Elia si copri il volto con il mantello... Ed ecco sentì la voce [di Dio]".
    Stando al suono letterale del testo, Dio si rivela al profeta nella voce del silenzio: non nel vento, non nel terremoto, non nel fuoco ma nella voce del silenzio sottile: in ebraico: "qol dematnah daqah". Stranamente le bibbie italiane (e anche straniere) si discostano dalla letteralità del testo ebraico e traducono diversamente; la cosiddetta bibbia di Gerusalemme con: "il mormorio di un vento leggero"; la bibbia della Marietti (1974, a cura di S. Garofalo): "il sussurro di un soffio leggero"; la bibbia in lingua corrente: "come un lieve sussurro"; una bibbia ebraica del 1875: "un suono sommesso e sottile".
    Secondo il testo originale la rivelazione di Dio avviene attraverso la "voce del silenzio sottile". Rivelazione tre volte paradossale: perché avviene attraverso il silenzio (dematnah); perché si tratta di un silenzio che è voce (qol) che non tace ma parla; infine perché si tratta di una voce sottile (daqah), che non si impone e convince con la forza ma si offre leggera e discreta, una voce appena udibile che non abita lo spazio dell'evidenza ma del chiaroscurale che, altro dal giorno e dalla notte, resta possibile via sia per l'uno che per l'altra.
    È temerario leggere il silenzio di Dio ad Auschwitz come "voce di silenzio sottile" con cui egli ha parlato e continua ancora oggi a parlare? Se, sollecitati dal testo biblico, è possibile osare questa lettura, allora il silenzio di Dio ad Auschwitz non è assenza di parola che ne decreta la morte ma parola rivelativa che ne attesta e rivendica una più alta modalità di presenza.
    Certo, il suo silenzio ad Auschwitz è una voce ancora più tenue e sottile di quella udita da Elia sull'Horeb, per cui, non cogliendone più l'eco, può essere gesto religioso coerente rinunciare ad ascoltarla.
    È quanto sostiene Amos Funkenstein, un pensatore ebreo contemporaneo, il quale scrive: "Colui che, profondamente turbato dall'olocausto, è diventato incapace di affermare l'esistenza di Dio, costui è preso in una problematica essenzialmente religiosa... Un uomo superficiale o puramente pragmatico e egoista e solo intento al suo interesse personale non resterebbe affatto turbato. È turbato colui che è religioso".
    La ragione per la quale il credente può leggere come "voce sottile" anche il silenzio di Dio ad Auschwitz è che, durante quel silenzio, ci sono stati ancora uomini, non importa se pochi o molti, che hanno continuato a pregare, testimoniando che, per essi, quel silenzio era parola e non assenza.
    Può valere come esempio - uno tra i tanti - la preghiera di un anonimo morto nel 1943 nel Ghetto di Varsavia che, tra l'altro, recita: "Io credo al Dio d'Israele, anche se egli ha fatto di tutto per spezzare la mia fede in lui... Io credo alle sue leggi, anche se contesto la giustificazione dei suoi atti. Io mi piego di fronte alla sua grandezza, ma non bacerò il bastone che m'infligge il castigo. Io l'amo, ma più ancora amo la sua legge. Ed anche se mi fossi ingannato nei suoi confronti, continuerei ad adorare la sua legge... Certamente noi abbiamo peccato. E ammetto anche che noi veniamo puniti per questo. Tuttavia vorrei che tu mi dicessi se c'è un peccato sulla terra che meriti un tale castigo. Ti dico tutto questo, mio Dio, perché credo in te, perché credo in te più che mai, perché so ora che tu sei il mio Dio... Ti amerò sempre, anche se non vuoi. E queste sono le mie ultime parole, mio Dio di collera: tu non riuscirai a far sì che io ti rinneghi. Tu hai tentato di tutto per farmi cadere nel dubbio. Ma io muoio come ho vissuto, in una fede incrollabile in te".
    Se il silenzio di Dio nei campi della morte è "voce" che, per quanto sottile, continua a parlare, Auschwitz, allora, il simbolo/realtà del Male per eccellenza, non può né deve essere considerato il luogo della sua morte e pensare il contrario (pensare che egli lì sia morto) sarebbe un atto di nuova violenza che ancora una volta darebbe ragione ai carnefici invece che alle loro vittime.
    Per questo E. Wiesel ha scritto con forza: "Io non ho mai compreso come si possa dire che Dio è morto ad Auschwitz! Quest'idea mi è completamente estranea. Bisogna essere chiari: questo messaggio non è mai venuto dall'interno, ma dall'esterno. Non sono stati i sopravvissuti a dirlo, ma gli altri... che, a volte, parlano in nostro nome! Mai nella mia vita ho pensato che Dio fosse morto. Per un ebreo religioso dire che Dio è vivente è già qualcosa, ma affermare che Dio è morto è inconcepibile e intollerante".

    Il silenzio di Dio come giudizio

    Se il silenzio di Dio ad Auschwitz è "voce", si tratta ora di aggiungere che è voce di giudizio, nel senso giovanneo di krisis, come giudizio di condanna e di appello alla salvezza.
    Voce di condanna del fallimento del pensiero umano; il fallimento soprattutto del pensiero della modernità, figlia del logos greco e del messaggio cristiano. "Auschwitz - ha scritto A. Neher il filosofo ebreo recentemente scomparso - è come un passaggio fatale tra gli scogli: lì, l'avventura millenaria del pensiero umano ha subìto il suo fallimento totale: tutte le luci si sono spente e non è rimasto neppure il lampeggiamento di un faro a segnalarne la traccia. È un ritorno al caos, in cui occorre innanzi tutto il coraggio di penetrare se si ha la volontà di uscirne. Diversamente non può trattarsi che di false uscite e di un pensiero fittizio senza alcuna presa sul reale".
    Voce di salvezza, se costringe ad aprire gli occhi sul fallimento del pensiero umano, interrompendone il percorso di violenza e ricreandolo su altre basi. Per questo sempre lo stesso filosofo Neher ha scritto: "Ma forse anche il penetrare in Auschwitz solleciterà il pensiero a prendervi stabile dimora e lo inciterà a rinnovarsi dal di dentro, a compiere finalmente il primo passo - l'unico che sia assolutamente libero - e che consiste nel crearsi a partire dal nulla [nel ricominciare daccapo]. Il mondo non è forse sorto da un simile atto creatore, ex nihilo? Il primo passo, dopo Auschwitz, pare dunque essere quello che ci colloca nel preciso istante dove nulla esiste più, ma dove tutto può essere di nuovo".
    Auschwitz è parola di giudizio soprattutto per le comunità cristiane e per le teologie che l'hanno alimentato: sia perché esso si è verificato nel cuore dell'Europa cristiana, sia perché ad esso le chiese non sono rimaste estranee con il loro plurisecolare antisemitismo attecchito al loro interno.
    In Al di là della religione borghese. Discorsi sul futuro del cristianesimo (Queriniana, Brescia 1981, l'originale del 1980), il teologo tedesco J. Metz muove alla teologia una pesante accusa per non essere riuscita a rimettersi in discussione dopo Auschwitz: "I morti di Auschwitz - scrive - avrebbero dovuto cambiare ogni cosa, e nulla, né nel nostro popolo né nelle nostre chiese avrebbe potuto continuare come prima. E specialmente nelle nostre chiese! Almeno esse dovevano percepire la catastrofe spirituale che Auschwitz ha significato e che non ha lasciato incolumi né il nostro popolo né le nostre comunità. Invece dove siamo arrivati noi cristiani e borghesi di questo paese? Non soltanto fino al punto in cui tutto è ritornato come prima, con Auschwitz considerato un 'incidente', per quanto deplorevole sul lavoro. Oggi già si avvertono i sintomi di un nuovo clima, dove si ricominciano a cercare le cause di questo orrore di Auschwitz non soltanto tra gli assassini ed i persecutori, ma anche tra le loro vittime e i perseguitati" (p. 27).
    Voce di giudizio e di condanna delle comunità cristiane, Auschwitz è messa in discussione soprattutto per l'impianto concettuale con cui queste hanno parlato e parlano del Dio di Abramo e di Gesù: l'impianto onto-teologico, dove il discorso (logos) su Dio (theos) è avvolto e dispiegato entro la metafisica dell'essere o dell'ente (onta), la metafisica della pienezza, della totalità, dell'universale, dell'autoaffermazione e del dominio, la metafisica del "mio in sé e del mio per sé" (Lévinas); ed è imperativo a ripensare Dio diversamente "non contaminato dall'essere", come scrive Lévinas nella "Nota preliminare" di Autrement qu'être (p. x), perché "l'essere è violenza e barbarie", da cui "evadere".
    Tre sono i nuclei dell'impianto teologico classico che Auschwitz pone in crisi e decostruisce: tre nuclei intorno a cui si struttura la teodicea stessa e che il silenzio di Dio ad Auschwitz è come se polverizzasse:
    1) La messa in crisi del concetto di onnipotenza: la categoria secondo la quale Dio può tutto, essendo il suo volere e il suo agire senza limiti. Ma se Dio può tutto perché non è intervenuto a salvare il suo popolo ad Auschwitz? - si chiede Jonas, il filosofo ebreo autore di un splendido saggio sull'idea di Dio dopo Auschwitz. E risponde: "(Dio ad Auschwitz) non intervenne non perché non lo volle, ma perché non era in condizione di farlo".
    C'è subito da aggiungere che l'impotenza di Dio ad Auschwitz è l'impotenza della forza la cui faccia nascosta è la potenza del suo amore come amore di alterità. Se questo è vero, il senso dell'impotenza di Dio, in forza della quale l'uomo nasce all'alterità della sua identità e della sua storia, coincide con la stessa rivelazione di Dio come Dio dell'amore: non come amore di eros che si autoespande ma come amore di alterità che, per far essere l'altro, rinuncia al proprio essere.
    La potenza di Dio e la sua "onnipotenza" non consistono, secondo la bibbia, nell'autoespandersi facendo del mondo la sua epifania, bensì nel ritirarsene per fare spazio all'uomo e alla sua storia. La `deitas Dei', cioè la sua vera potenza, è la potenza della bontà con cui egli, per così dire, si autodestituisce (cfr. inno ai Filippesi sull'autospogliazione) per far essere l'uomo: "È senz'altro un grande motivo di gloria per il creatore l'aver messo al mondo un essere capace di ateismo, un essere che, senza essere stato causa sui, ha lo sguardo e la parola indipendenti e si sente a casa sua. Definiamo volontà un essere condizionato in modo tale che, senza essere causa sui, è primo rispetto alla sua causa" (E. Lévinas).
    Se l'impotenza di Dio è la sua bontà, ne consegue allora che bontà e onnipotenza -il mito e la pretesa della teodicea di riuscire a conciliare - non solo si escludono ma si contraddicono, come vuole sempre Jonas nel suo saggio sopraccitato: "L'onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale non comprensibilità... In generale: i tre attributi in questione - bontà assoluta, potenza assoluta e comprensibilità - sono tra loro in rapporto tale che ogni relazione tra due di loro esclude il terzo... Egli è buono solo se non è onnipotente". Il silenzio di Dio ad Auschwitz rivela l'incompatibilità tra onnipotenza e bontà e costringe alla disarticolazione tra l'una e l'altra.
    2) La messa in crisi dell'ottimismo o naturalismo storico: la concezione secondo la quale, essendo la realtà affidata alla mano o allo spirito di Dio onnipotente, va e non può non andare verso un fine positivo e autogarantito. Questa concezione, che secondo Löwith (Significato e fine della storia. I presupposti filosofici della filosofia della storia, Comunità, Milano 1963, originale del 1949) è la sostanza stessa del cristianesimo e, in forme molteplici e secolarizzate (illuminismo, razionalismo, positivismo, storicismo, utopismo, ecc.) anche della modernità, si basa su quattro presupposti fondamentali: che il mondo ha un suo logos, cioè una sua struttura razionale ed un suo ordinamento dotato di senso e orientato verso il senso; che il logos del mondo è mediato dal logos umano, che ha il potere di coglierlo e ritrascriverlo nell'ordine del discorso; che il logos umano trova le sue oggettivazioni adeguate nel logos del corpo sociale, cioè nell'insieme degli ordinamenti, delle leggi, delle nonne e delle istituzioni posti a fondamento dell'ordine del senso; infine che il logos del mondo, il logos della ragione e il logos del corpo sociale trovano il loro fondamento nel logos divino di cui, a gradi diversi, sono il riflesso.
    La potenza della visione ottimistica cristiana, soprattutto così come è stata formulata dal tomismo, è in questo quadruplice connubio tra il logos della natura, il logos della ragione, il logos della polis e il logos divino che ne è il fondamento e il garante.
    Ora ad Auschwitz questo quadruplice logos si è dileguato come fantasma: perché Auschwitz è l'apparizione o esplosione del Dis-ordine stesso, Capovolgimento e Sovvertimento di ogni ordine: dell'ordine della natura, che è stata cancellata; dell'ordine della ragione, che è stata messa a servizio della morte; dell'ordine delle leggi e delle istituzioni, che si sono rivelate assenti o impotenti; e perfmo dell'ordine di Dio che non è intervenuto a bloccare la mano dei carnefici.
    Nel suo libro I sommersi e i salvati, Primo Levi racconta di un amico più anziano di lui - "mite e intransigente, cultore di una religione sua personale, che però mi è sempre parsa severa e seria" - che, al suo ritorno dalla prigionia, lo va a trovare rallegrandosi per il fatto di essere tornato vivo e sostanzialmente indenne, maturato e fortificato dalla terribile esperienza: "Mi disse - racconta - che l'essere io sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato. E perché proprio io? Non lo si può sapere mi rispose. Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza: non stavo infatti scrivendo allora, nel 1946, un libro sulla mia prigionia?" (p. 63). Ma "questa opinione - commenta subito Primo Levi - mi parve mostruosa. Mi dolse come quando si tocca un nervo scoperto, e ravvivò il dubbio di cui dicevo prima: potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei avere soppiantato, cioè di fatto ucciso. I 'salvati' del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l'esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della 'zona grigia', le spie. Non era una regola certa (non c'era, né ci sono nelle cose umane regole certe), ma era pure una regola" (p. 63).
    Se non si vuole che, dopo Auschwitz, la provvidenza suoni come una "opinione mostruosa", come denunzia l'autore de "I sommersi e i salvati", la teologia è costretta ad un radicale lavoro di ripensamento.
    3) La messa in crisi dell'irrilevanza del male: la convinzione secondo cui il negativo della storia, per quanto sia operante e corrosivo, non compromette mai l'affermarsi del positivo che trionfa su di esso, riconducendolo, così, all'apparenza, nel senso di apparizione contingenze che non intacca la sostanza del reale.
    Questo sguardo che non si lascia turbare dalla presenza del male è radicato su tre ragioni fondamentali: la fede nell'onnipotenza di Dio di cui si è già parlato l'idea che nella razionalità del mondo si riflette la stessa razionalità di Dio; e - per il credente cristiano - la certezza della redenzione operata da Cristo. Alimentata da questa triplice "fede" la coscienza europea e cristiana non si è mai lasciata interrogare fino in fondo dallo scandalo del male che, in vari modi, ha rimosso o legittimato attraverso gli inutili sforzi della teodicea.
    Ma ad Auschwitz è esploso il Male stesso che più che intaccare l'ordine del reale lo ha spazzato via, più che essere come la malattia che minaccia l'organismo è la Morte stessa che ne ha cancellato ogni traccia. Per questo Auschwitz è per Lévinas "il paradigma del male gratuito nel suo spessore diabolico". Se questo è vero, Auschwitz costringe a ripensare daccapo anche lo scandalo del male, superando la definizione che lo vuole come "privazione del bene" e cogliendone "il potere quasi divino di ridurre l'altro a niente", come scrive B. Dupuy: "Per molto tempo l'impostazione dominante nel problema del male è stata quella della colpa che infrange un ordine di valori giudicato immutabile nel dominio dell'esteriorità (la città) e dell'interiorità (la famiglia). Da tale ordine, fondato su Dio e sulla creazione derivano, come corollari, le idee di retribuzione e di sanzione e di qui i comportamenti di colpevolezza e di perdono (autoaccusa). Questo ordine garante dell'universo morale era rappresentato da un insieme di istituzioni intermedie capaci di assumere un volto repressivo, dal capo supremo fino al carnefice".
    Ma ad Auschwitz è stato cancellato ogni ordine di valore, per cui la concezione del male come violazione dell'ordine è insufficiente, perché non permette - continua Dupuy - "né di cogliere l'ampiezza di male che fu in opera nella shoah, né di afferrare la sovversione istituzionale che si è prodotta, né di percepire il limite indicibile della sofferenza in cui furono gettate delle vittime totalmente abbandonate a se stesse".

    II silenzio di Dio come imperativo

    Jonas, il filosofo ebreo già citato, ha scritto: "Rinunciando alla sua inviolabilità, il fondamento eterno consentì al mondo di essere: ogni creatura è debitrice dell'esistenza a questo atto di autonegazione e ha ricevuto con essa tutto ciò che può ricevere dall'aldilà. Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da fare. Ora tocca all'uomo dare".
    L'imperativo categorico che risuona ad Auschwitz è quindi che "ora tocca all'uomo dare", perché, una volta creato il mondo, Dio lo ha affidato alle sue mani, costituendolo soggetto supremo di bene e di male. Se questo è vero il silenzio di Dio ad Auschwitz è emergenza e istituzione dell'umano come responsabilità radicale: da intendere non come il rispondere delle scelte dell'io bensì come il rispondere delle conseguenze e del male dell'altro e di ogni altro.
    L'interpretazione del silenzio di Dio ad Auschwitz come istituzione della responsabilità radicale più che una idea geniale dovuta ad alcuni autori ebrei (quali Jonas, Lévinas Neher, ecc.) appartiene alla sostanza stessa dell'ebraismo, di cui è il filo nascosto e sotterraneo rintracciabile un po' dovunque: dalla teoria cabalistica dello zimzum (secondo cui l'emergenza delle cose dal nulla più che atto di potenza da parte di Dio è, per Dio, atto di misericordia e di bontà con cui si autolimita rinunciando alla sua onnipotenza), alla rivelazione biblica del Sinai (dove Dio si consegna ad Israele nell'alleanza), alla creazione biblica della Genesi (dove l'uomo è definito come sua "immagine' e "somiglianza", cioè come suo "rappresentante", "luogotenente" e vice), all'istituzione della festa dello shabbat (dove, per il racconto biblico, Dio "cessa" dal creare e si riposa perché a continuare la sua opera spetta ormai all'uomo), alla "morte sulla croce" del Dio crocifisso che Paolo legge come autospoliazione del divino.
    Il tratto costitutivo di questa responsabilità radicale è la sua indeclinabilità. Auschwitz istituisce una responsabilità indeclinabile, nel senso che non può esser declinata (come si declina un invito, un incarico, un onore o un ufficio), né rifiutata, né differita, né trasferita e che è gioco-forza assumere fino in fondo, pena ilriprecipitare del mondo nel tohu-vabohu, il caos antecedente la creazione.
    Da questa responsabilità indeclinabile derivano tre conseguenze importanti:
    1) Il male di Auschwitz (e ogni male), nella sua profondità ultima, non può essere spiegato, perché ogni spiegazione rimanderebbe ad una forma di deresponsabilizzazione o "declinazione". Certo, a livello storico, le spiegazioni sono importanti e vanno ricercate. Ma esse più che la causa del male ne sono soprattutto le oggettivazioni in cui il suo potere distruttivo prende corpo e si incarna. Per questo ad Auschwitz (e ad ogni male) va conservato il carattere di evento, sfuggendo alla tentazione di dissolverlo nella spiegazione delle cause storiche che pur vi hanno contribuito. Il male - ogni male non è riconducibile a delle cause esterne all'io ma all'evento della sua libertà che, negandosi all'altro, si fa irresponsabilità e principio di morte.
    Lo scorso 25 marzo, sull'"Unità", Asor Rosa, a proposito di Auschwitz, ha scritto che bisognerebbe non "ricordarlo" ma "pensarlo": "Nostro compito, scriveva, è pensarlo". Pensare allo "sterminio del popolo ebraico" come alla "rappresentazione estrema di ciò di cui l'uomo può in qualsiasi momento essere capace". Non il mostro, dice Asor Rosa, non lo psicopatico, "ma l'uomo comune, l'uomo di tutti i giorni, il cittadino integerrimo, l'onesto padre di famiglia, insomma il normale che è fra noi, che è in noi". Capace di che cosa? "Di uccidere sistematicamente milioni di altri uomini del tutto simili a lui, con la sola motivazione che si trattava di esseri macchiati da un peccato originale.
    Auschwitz non può essere spiegato ma, come dice Asor Rosa, pensato e ricordato come il possibile negativo che, evento distruttivo, inerisce alla libertà di ogni io e del mio io, nella sua irriducibile singolarità.
    2) Se Auschwitz istituisce la responsabilità indeclinabile, questa non può essere "declinata" - cioè rimandata, delegata o deputata - neppure a Dio: non solo a delle cause esterne (culturali, ideologiche, economiche) ma neppure a Dio. Tale è la responsabilità di cui l'uomo è investito che Dio stesso non può sostituirlo: perché se Dio lo sostituisse, la responsabilità dell'uomo non sarebbe più indeclinabile e l'imperativo del "tocca ora a me dare - per esprimersi con le parole di Jonas - non avrebbe più l'incondizionatezza dell'imperativo etico.
    Per questo la vera domanda da porsi non è - non dovrebbe essere - "dov'era Dio ad Auschwitz?", ma, come vuole Neher: "Dov'era l'uomo ad Auschwitz?"; non: "perché Dio è rimasto in silenzio?" ma: "perché l'uomo ha taciuto di fronte allo sterminio di milioni e milioni di suoi simili?"; non: "Perché Dio non è intervenuto?", ma: "perché i fratelli - salvo poche eccezioni - non si sono mobilitati per salvare i fratelli?". Porre la domanda su Dio invece che sull'uomo, ancora una volta significa declinare la responsabilità indeclinabile che Auschwitz vorrebbe istituire e senza la quale nuovi Auschwitz potrebbero ancora essere possibili.
    3) Infine la responsabilità indeclinabile istituita da Auschwitz se non può essere scaricata su Dio, tanto meno più essere scaricata sulle forze demoniache o sataniche. Nel 1962 Primo Levi riceve una lettera del doctor T. H. di Amburgo in cui, tra le altre "goffaggini" l'autore ricorre al "demonio" per rendersi comprensibile l'orrore dell'olocausto: "In ogni tempo è avvenuto che il diavolo si scatenasse, senza ritegno, senza senso: persecuzioni di ebrei e di cristiani, sterminio di popoli interi in Sud America, degli indiani nel Nord America... orrende persecuzioni e massacri nel corso delle rivoluzioni francese e russa".
    A questa lettera - di cui il brano riferito è il più innocuo - seguivano alcune laconiche righe di Frau H. che, forse all'insaputa del marito, aveva aggiunto e che ribadiscono la tesi del demonio: "Quando un popolo riconosce troppo tardi di essere divenuto un prigioniero del diavolo, ne seguono alcune alterazioni psichiche". A questa missiva Levi risponde con una lettera, "forse la sola iraconda che io abbia mai scritto. Che nessuna Chiesa ha indulgenza per chi segue il Diavolo, né ammette a giustificazione l'attribuire al Diavolo le proprie colpe. Che di colpe ed errori si deve rispondere in proprio, altrimenti ogni traccia di civiltà sparirebbe dalla faccia della terra, come infatti era sparita nel terzo Reich". E se è vero che il Nuovo Testamento parla di "potenze", "principati", "potestà" e "principi del male" che governano questo mondo, non va dimenticato che, per il testo biblico, Cristo ha vinto queste "forze negative" che più che essere la causa del male sono l'oggettivazione e visibilizzazione del suo potere distruttivo che emerge ogni qualvolta l'uomo abdica alla sua responsabilità indeclinabile. Più che del demoniaco, il male è il prodotto della "responsabilità declinata", cioè dell'irresponsabilità: è questa il vero principio della barbarie e della scomparsa dell'umano.
    Tre le figure di questa responsabilità indeclinabile istituita da Auschwitz, c'è la responsabilità come "pathos". È noto il racconto di Wiesel che, ne La notte, riferisce del bambino appeso alla forca nel campo della morte: "Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai ancora avanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: "Dov'è dunque Dio?". E io sentivo una voce che gli rispondeva:"Dov'è? Eccolo: è appeso là, a quella forca...".
    Questa risposta contiene due significati: da una parte l'assenza di Dio, non essendo egli intervenuto a salvare il bambino dalla forca, dall'altra la sua presenza nella modalità della compassione che condivide la sorte del bambino sulla forca. Non è vero allora che Dio ad Auschwitz sia morto. Egli è lì, al centro del suo orrore e della sua violenza (personificati dal bambino impiccato, com-patendo lo stesso orrore e la stessa violenza, patendo lui stesso quel dolore e quella violenza. La risposta di Dio all'indicibile sofferenza di Auschwitz (come, per il cristiano, prima ancora. all'indicibile sofferenza del messia crocifisso) non è di eliminarla ma di assumerla; o, più precisamente, di eliminarla assumendola lui stesso: a tal punto che Lévinas può scrivere che: "colui che soffre nella mia sofferenza è Dio stesso".
    L'etica della responsabilità è quindi innanzi tutto l'etica della compassione: di chi di fronte agli orrori della storia, non fugge e si ritrae e neppure si ribella (producendo la ribellione nuova guerra e nuova violenza) ma soffre con chi soffre. La prima figura del "sii responsabile" che sale dall'abisso di Auschwitz diventa così il "sii compassionevole". In Al di là del versetto Lévinas, a proposito delle indicibili e orribili persecuzioni patite dagli ebrei ad Auschwitz e a proposito del senso di colpa dal quale sono lacerati molti sopravvissuti, scrive che tutto ciò non deve condurre alla disperazione ma ad un di più di responsabilità, come se "la bruciatura della mia sofferenza e l'angoscia della mia morte" si fossero trasfigurate "in spavento e preoccupazione per l'altro uomo".
    L'ethos della compassione è il trasformare l'esperienza della sofferenza subita in imperativo a non farla più subire. "Poiché tu hai sofferto e sai cosa vuol dire soffrire" non devi far soffrire". Si tratta di un principio che si trova al centro stesso del racconto esodico e che viene ribadito continuamente da Dio stesso: "Poiché -dice Dio ad Israele tu sai cosa vuol dire la sofferenza dello straniero, essendo stato tu stesso straniero in Egitto, quando sarai nella tua terra, invece di opprimere gli stranieri dovrai amarli e liberarli come tu stesso sei stato amato e liberato da me" (Lv 19, 33-.34; Es 22, 20; 23,9; Dt 24, 17ss).
    La responsabilità come bontà. L'ethos della bontà, come priorità dell'altro sull'io, è il grande sconosciuto o rimosso dell'Occidente che, come ripete ostinatamente Lévinas, conosce solo l'ethos del "conatus sui essendi": l'ethos dell'essere che si mantiene, si afferma e si manifesta e che, per automantenersi, autoaffermarsi e automanifestarsi, è "comprensione" e distruzione degli altri esseri, in un vortice di guerra e di violenza che, nella storia umana, ha raggiunto il suo vertice impensabile in questo secolo, con due guerre mondiali e con la shoah.
    Se, dopo Auschwitz, si vuole che l'umanità sopravviva, contrastandone il potere distruttivo di cui, nella shoah, ha scoperto di essere capace, l'unica strada percorribile, per Lévinas, è abbandonare la via o ethos dell'essere per la via o ethos del dis-interesse: la via o l'ethos della bontà che non pone più al centro l'Io che riduce ogni altro a "Se Stesso" o a "Se Medesimo", ma l'altro di cui l'io si fa accoglienza e diaconia.
    Auschwitz, evento impensabile di Male che ha cancellato l'altro, deve imprimersi nella coscienza umana come suo nuovo inizio o punto di partenza (arké) della storia. Questo nuovo inizio, questo nuovo punto di partenza, questo arké è la bontà: il rinunciare dell'io alla sue prerogative di essere e di voler essere, per far essere l'altro.
    Reale possibilità fiorita nello stesso inferno di Auschwitz, la bontà è l'unico vero futuro che si apre all'uomo, il suo unico avvenire degno di questo nome e portatore di reale novità. Più che l'attesa di tempi migliori, scanditi sulla linea storica e temporale, i tempi messianici sono l'appello alla bontà e alla giustizia perché, dove queste fioriscono, li fiorisce lo shalom, la pienezza della pace. Forse il silenzio di
    Dio ad Auschwitz trova qui il suo significato ultimo e radicale. Il suo silenzio è silenzio di attesa: l'attesa paziente dell'Amore che cerca, piange e spera perché il suo amore venga contraccambiato: accolto e ridonato.
    La responsabilità come giustizia. L'ethos della bontà, della gratuità e del disinteressamento da solo non è sufficiente ed ha bisogno di leggi e di istituzioni in cui incarnarsi e visibilizzarsi. La giustizia in senso specifico è la messa in opera di leggi e istituzioni adeguate nelle quali oggettivare il principio bontà o misericordia senza cui l'umano minaccia di riprecipitare nel caos. E se è vero che la bontà è evento soggettivo irriducibile che trascende ogni ordinamento giuridico, che il Male può travolgere (come si è verificato ad Auschwitz) essa, comunque, non può fare a meno dell'oggettività delle leggi e delle istituzioni che la incarnino e ne ricordino, quando è rinnegata, l'assolutezza dell'istanza.
    Lévinas ha scritto che la libertà si radica sulla pietra delle tavole dove si iscrivono delle leggi e "dipende da un testo scritto, certamente distruttibile ma comunque durevole dove, fuori dell'uomo, si conserva la libertà dell'uomo". Questo che Lévinas scrive a proposito della libertà vale soprattutto per l'ethos della bontà: questa, evento incommensurabile della soggettività responsabile, ha bisogno delle "pietre" dell'oggettività - istituzioni e leggi - in cui incidersi, conservarsi e tramandarsi. L'oggettività delle leggi è garanzia della soggettività dei singoli: con il suo appello alla responsabilità indeclinabile e con il suo giudizio di condanna se tradita. Nelle ore buie della storia, solo istituzioni giuste, salde e democratiche possono arginare la barbarie - di cui Auschwitz resta il paradigma - e risvegliare le coscienze umane alla loro dignità e responsabilità indeclinabile: "Nelle ore decisive in cui si rivela la caducità di tanti valori, tutta la dignità umana consiste nel credere al loro ritorno" (Lévinas).
    Auschwitz, imperativo categorico alla responsabilità indeclinabile, con il suo silenzio grida che, dopo l'esperienza della shoah, l'umanità può solo sopravvivere sull'unico-triplice ethos della compassione, della bontà e della giustizia.
    L'unica risposta al silenzio di Dio ad Auschwitz è l'inedito di questa responsabilità indeclinabile cui ognuno deve risvegliarsi e che deve trovare oggettivazione in istituzioni nuove, più solide e solidali; risposta pratica, ma, come scrive, P. Ricoeur, "non senza effetti sul piano speculativo: prima di accusare Dio odi speculare su un'origine demonica del male in Dio stesso, agiamo eticamente e politicamente "contro il male". Auschwitz è il luogo prescrittivo e imprescindibile di questo etica e di questa politica contro il male.

    (Docete 7/1996)


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