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    Così la Chiesa

    si mette in discussione

    Intervista a don Michele Falabretti,
    Direttore SNPG

    a cura di Francesco Ognibene

     

    Ascolto, educazione, disponibilità a ridiscutere convinzioni e metodi. Nel Sinodo sui giovani, e nel viaggio che da ieri la Chiesa ha intrapreso con il testo-base e la lettera del Papa, don Michele Falabretti vede questo e molto altro. Da responsabile del Servizio nazionale di Pastorale giovanile è abituato allo sguardo “lungo”. Che prova a spingere sino all’assemblea in Vaticano, autunno 2018.

    Che cosa ci dicono i due testi diffusi ieri?
    Esprimono l’impegno e la voglia di coinvolgere i giovani in un percorso nel quale non sono destinatari di un lavoro svolto da altri su di loro ma vengono chiamati a diventare protagonisti, soggetti attivi, centro di una grande questione pastorale che è nelle mani di tutta la comunità cristiana, a ogni livello. Anche solo questo fa capire di fronte a quale opportunità ci troviamo. I giovani non sono oggetti di un’analisi scientifica, quasi si trattasse di una specie in via di estinzione: sulle nuove generazioni è chiamata in causa tutta la Chiesa.

    Le GMG sono il segno che la Chiesa si è messa sempre più in gioco su questo aspetto. Dov’è la novità del Sinodo?
    I giovani vanno ascoltati, la Chiesa ha bisogno della loro voce. Lo spazio per loro è andato ampliandosi con un’accelerazione che fa comprendere come non li si può pensare destinatari di un messaggio che funziona da solo. La vera, grande novità è però nella scelta stessa del tema tra i tanti possibili per l’assemblea.

    Perché il Papa ha voluto mettere al centro del Sinodo proprio i giovani?
    Forse perché parlando di giovani si mettono in questione anche gli adulti e la Chiesa. Da sempre i cristiani cercano di consegnare a chi viene dopo di loro quanto hanno di più caro: la fede, il Vangelo, il segreto di una vita cui l’incontro vivo con il Signore dà senso pieno. Ma oggi la maggior parte dei giovani non ha una vera occasione per questa consegna. Il Sinodo ci chiede di considerare gli aspetti complessi di questo passaggio generazionale. Dunque, si parla di giovani ma anche di adulti.

    Che cosa può rappresentare questo Sinodo per la Chiesa?
    Una bellissima occasione per chiederci cosa stiamo facendo per trasmettere la fede e metterci in ascolto di tutti i giovani, vicini o lontani che siano. Attenzione, però: non pensiamo a qualcuno che ci dirà “cosa fare” ma a un processo che ci mette in discussione su alcuni temi decisivi, come la relazione educativa.

    Una novità è nel metodo: il questionario che aveva segnato i due Sinodi sulla famiglia viene riproposto con una formula più diretta. Che lavoro suggeriscono queste domande?
    Lo dico con una battuta: se si trattasse solo di rispondere ce la caveremmo in una settimana. Dentro quelle domande, invece, ce n’è una più grande: ai cristiani quanto stanno a cuore i loro figli? Ho l’impressione che ci siamo un po’ stancati della “questione educativa”, ma non possiamo tornare ad accorgersi della sua importanza solo quando accade il fattaccio di cronaca... L’educazione è cura, compagnia, ascolto, condivisione, ha a che fa- re più con la bellezza che con il dramma.

    Quindi un Sinodo sui giovani ma anche sulla “questione educativa”?
    Il nostro è un tempo nel quale si fatica a essere adulti: ora c’è l’ossessione di restare giovani, perdendo di vista che si tratta di una fase della vita e non di una condizione ideale. Nel ’68 gli adulti volevano imporsi in quanto tali, oggi cercano di sembrare eternamente giovani. La strada è antitetica, il risultato identico: l’incomprensione del mondo giovanile.

    Quale percorso immagina da oggi al 2018?
    Vedo anzitutto un confronto ecclesiale a ogni livello, sino alla parrocchia più “periferica”, su come la Chiesa annuncia il Vangelo, e su quali sono le condizioni per arrivare a destinazione. C’è poi l’ascolto sincero e attento dei giovani là dove si trovano, non solo nei “nostri ambienti”: vanno costruite occasioni che consentano di interpellarli sulla loro vita, ad esempio nel mondo digitale. Dovremmo chiedergli in cosa sperano, quel che li fa piangere, di cosa hanno paura, cosa cercano. Da qui parte ogni possibile incontro con il senso dell’esistenza. Per troppo tempo abbiamo pensato che per convincerli bastasse enunciare i valori, magari con tutte le lettere maiuscole. Oggi quella che per noi è una verità evidente non si impone da sé ma solo se è persuasiva, e per esserlo va accompagnata da domande e gesti.

    Il Sinodo invita a parlare di “vocazione”: in quale senso?
    Noi cristiani pensiamo che si diventa grandi anche ascoltando un’altra voce, mentre molti giovani sono convinti di poter essere felici solo ascoltando se stessi. La sfida è far incrociare questa fame di libertà con la consapevolezza che non ci si realizza da soli ma nella relazione. Con gli altri, e con Dio.

    (Avvenire - 14 gennaio 2017)


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