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    Nel tempo dell’uomo

    senza vocazione

    Paolo Martinelli *

    La trentunesima giornata mondiale della vita consacrata di quest’anno si celebra pochi giorni dopo la pubblicazione del documento preparatorio della quindicesima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, che avrà come tema: «Giovani, fede e discernimento vocazionale». Un testo molto ricco e suggestivo che mette concretamente al lavoro tutto il popolo di Dio su un tema decisivo. Si legge nell’introduzione: «La Chiesa ha deciso di interrogarsi su come accompagnare i giovani a riconoscere e accogliere la chiamata all’amore e alla vita in pienezza, e anche di chiedere ai giovani stessi di aiutarla a identificare le modalità oggi più efficaci per annunciare la buona notizia».
    Quale percezione abbiamo oggi della parola “vocazione”? Come la intendono i giovani? È interessante rilevarne l’uso nel linguaggio comune.
    Fino a pochi anni fa “avere la vocazione” indicava sostanzialmente essere chiamati a una speciale consacrazione, alla vita consacrata o sacerdotale. Un uso sostanzialmente “esclusivo”. Il concilio Vaticano II, soprattutto con il quinto capitolo della Lumen gentium, ha introdotto un uso fortemente inclusivo, affermando la vocazione universale alla santità, ossia alla pienezza dell’amore, di tutti i fedeli. Si tratta della decisiva riscoperta della vocazione battesimale, che sta alla radice di ogni altra vocazione particolare. Gaudium et spes arriva a dire che «la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina» (n. 22), quella di essere figlio di Dio.
    Accanto a questo troviamo anche un uso più debole del termine, in cui si sente il bisogno di attribuire il carattere vocazionale ai diversi servizi che si possono svolgere, rischiando talvolta di trascurare la dimensione totalizzante della chiamata, come invece emerge sia nel matrimonio che nella consacrazione. Si può constatare anche un suo uso secolarizzato, quando a esempio si indica con la parola vocazione un impegno, senza tuttavia fare riferimento a una “chiamata” da parte di Dio. Questo uso può anche assumere carattere banale, come quando in certe pubblicità troviamo l’indicazione di un prodotto realizzato con cura: “facciamo scarpe per vocazione”, “salumieri per vocazione”... Dobbiamo anche dirci sinceramente – come affermato già dal documento Nuove vocazioni per una nuova Europa – che oggi siamo nel tempo dell’«uomo senza vocazione». Non certo perché il Signore non chiami più, ma perché la nostra cultura fatica a capire il senso di questo termine. Molti giovani sentono questa parola estranea alla vita, sia perché nel tempo della tecnoscienza si pensa in qualche modo di “farsi da sé”, sia perché l’idea della chiamata appare incompatibile con il moderno concetto di libertà. Il forte individualismo che caratterizza la nostra cultura sembra allontanare l’idea della vocazione.
    Per questo occorre innanzitutto ripartire dall’esperienza elementare che in particolare nell’età giovanile si fa intensa. La vocazione indica innanzitutto il mistero dell’esistenza personale.
    Il primo senso della parola vocazione è custodito dal mistero della nascita che nessuno può dare a se stesso.
    Esistere è sempre essere voluti. Il rapporto quotidiano con la realtà, fatta di relazioni e di circostanze, desta nel tempo la coscienza di essere in rapporto con gli altri. Inoltre, la realtà, gli eventi, gli incontri di ogni giorno mettono in movimento l’esistenza, permettendo così di scoprire nel cuore un desiderio insopprimibile di verità, di bellezza, di bontà e di giustizia.
    “Sporcandosi le mani” con la realtà quotidiana, ci si accorge che la vita è vocazione perché la realtà è pro-vocazione! Dio ci chiama a uscire da noi stessi attraverso l’attrattiva e le domande che la realtà suscita in noi e ci lancia alla ricerca di un senso per cui valga la pena vivere. Su questo terreno accadono anche gli incontri che cambiano la vita e imprimono a essa una nuova direzione (Evangelii gaudium 7). Alla cultura del provvisorio e della frammentarietà, ci ricorda Papa Francesco, risponde la cultura dell’incontro.
    Il documento preparatorio del sinodo giustamente evoca il primo incontro di Giovanni e Andrea con Gesù sulle rive del Giordano: «Gesù li chiama al tempo stesso a un percorso interiore e a una disponibilità a mettersi concretamente in movimento, senza ben sapere dove questo li porterà.
    Sarà un incontro memorabile, tanto da ricordarne perfino l’ora (Giovanni, 1, 39)». La fede riconosce in quell’incontro, apparentemente casuale, il passaggio di Dio che chiama all’avventura incomparabile della sequela.
    Se è vero che Cristo chiama anche oggi attraverso gli incontri, allora la pastorale vocazionale sarà innanzitutto una pastorale della testimonianza.
    Ogni autentico accompagnamento vocazionale è nella sua radice testimonianza, comunicazione alla libertà dell’altro di quanto «abbiamo veduto e udito» (1 Giovanni, 1, 3).
    Questa è la responsabilità che soprattutto gli adulti hanno nei confronti dei giovani. Coloro che vivono alla sequela di Cristo casto, povero e obbediente hanno il compito di testimoniare, in particolare ai giovani, la libertà e la gioia di vivere ogni giorno la vita come vocazione.

    * Vescovo ausiliare di Milano

    (Fonte: Osservatore Romano, 2 febbraio 2017)


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