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    La presenza

    di Gesù Cristo

    nell'eucaristia

    Una meditazione su Gv 6

    Walter Kasper


    1. Affamati di vita

    Il sesto capitolo del vangelo di Giovanni ci parla di persone che sono nel deserto, dove non cresce e non si trova nulla, dove si soffre la fame e la sete e dove alla lunga non si può vivere. Incautamente hanno preso con sé poche provviste. Solo cinque pani e due pesci! Che cosa sono per tante persone! Che cosa sono per più di 5000 uomini! Non servono proprio a niente. Così i discepoli di Gesù vanno in panico; pensano di mandare via la gente il prima possibile verso i villaggi vicini. Ma sulla parola di Gesù la folla tiene duro e resiste. Non rimasero delusi. «Tutti mangiarono fino a saziarsi».
    A quel tempo il popolo era poverissimo e si sentiva tradito dai propri governanti. È comprensibile che quella gente abbia creduto che Gesù fosse il profeta promesso, il re messianico atteso. Allora arrivarono per prenderlo con la forza e incoronarlo "re del pane".
    Noi esseri umani siamo fatti di bisogni; abbiamo fame e abbiamo bisogno di cibo. Abbiamo bisogno di vestiti e di un'abitazione, abbiamo bisogno di lavoro e abbiamo bisogno, oggi più di allora, di istruzione. Tutto questo è, in senso lato, pane della vita. Anche oggi molti milioni di persone ne sono privi. Gesù era abbastanza realista da vedere questa fame; per questo ci ha insegnato a pregare: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11; Lc 11,3).
    Gesù, però, conosce anche un'altra fame, la fame di una vita in pienezza. Nella sinagoga di Cafarnao dice alla gente: voi mi cercate perché avete mangiato il pane e vi siete saziati. Voi siete venuti per il pane che passa; dovete cercare, invece, il pane che non passa, ma che resta per la vita eterna. La fame del pane quotidiano ha bisogno di essere saziata, ma c'è anche un'altra fame e un'altra sete, che il pane quotidiano non può saziare. Il pane quotidiano sazia per un momento. Ma c'è anche una fame di ciò che non passa, c'è la fame della vita eterna.
    Queste parole suonano come se fossero pronunciate più per noi oggi che per gli uomini di allora. Molti sembrano farsi assorbire totalmente dalla fame terrena e dalla preoccupazione per la soddisfazione dei bisogni quotidiani; dimenticano che la vita è di più, rimuovono il bisogno che fa sentire che la vita chiede di più di mangiare e bere, di un giusto benessere e di un po' di divertimento di tanto in tanto. Tutto questo può andar bene per la durata di un istante, ma non per renderci felici e per saziare la fame della vita vera. Così oggi molti vivono in una nuova forma di deserto. Agostino, nelle sue Confessioni, riassume la vita inquieta dei suoi anni precedenti con le famose parole: «Il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te» [35]. Solo Dio può soddisfare interamente il desiderio del nostro cuore e saziare interamente la nostra fame di vita.

    2. Salvezza in Gesù Cristo

    Per gli uomini del tempo di Gesù, a differenza di noi, questa dimensione religiosa era una cosa ovvia. Avevano grande familiarità con la questione della vita eterna. Sí scandalizzano soltanto quando Gesù dice: «Io sono il pane della vita». Queste espressioni «Io sono» sono tipiche del quarto vangelo. Le troviamo in molti passi: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12), «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,8). Con esse Gesù vuole dire: quando cercate e chiedete pane, luce, vita, verità, cercate me.
    Ciò significa: la fede cristiana non consiste in speculazioni che si elevano ad altezze vertiginose. La fede cristiana non è una gnosi più elevata. Nella fede cristiana ha luogo un movimento inverso. Non siamo noi a salire in alto verso il cielo, ma è Dio a scendere nel mondo. Egli diventa uomo ed abita in mezzo a noi (Gv 1,14), in tutto simile a noi tranne il peccato (Eb 4,15). Pur esistendo nella forma divina, egli prende la forma di servo, facendosi obbediente fino alla morte di croce (Fi/ 2,6-8).
    La fede cristiana non è rivolta a un sistema di proposizioni. Essa si relaziona a una persona concreta, a Gesù Cristo. Per gli uomini del tempo ciò fu avvertito come una provocazione e uno scandalo. Come può costui, che sappiamo essere figlio dí Giuseppe, di cui conosciamo la madre, fare un'affermazione simile e presentarsi come Figlio di Dio? Il vangelo racconta che essi mormorarono. Successivamente Paolo dirà che l'annuncio della croce è uno scandalo per i giudei, una stoltezza per i pagani (1 Cor 1,23).
    La mormorazione di allora non si è ancora spenta; anzi, è diventata ancora più forte. Anche oggi molti non possono credere all'incarnazione di Dio. Vedono in Gesù un esempio di bontà; ma credono che l'incarnazione sia un mito. Altri sono convinti che Dio non si sia rivelato soltanto ín Gesù, ma anche in molte altre figure che nelle religioni del mondo sono venerate come salvatori. L'idea che la salvezza si trovi solo in Gesù Cristo rappresenta per loro un'affermazione di arrogante intolleranza.
    Il vangelo si contrappone con grande fermezza a queste visioni: un Dio e un Padre di tutti, un Signore e Salvatore di tutti, Gesù Cristo, unico mediatore fra Dio e gli uomini (1 Tm 2,5). In nessun altro nome c'è salvezza (At 4,12). Lui è la vita e il pane della vita. In lui, il Dio-uomo, si è esaudito in modo unico il più profondo desiderio di vita infinita che alberga nell'uomo; così lui è in modo vero, permanente e definitivo, la vita in pienezza [36]. «Chi crede ha la vita eterna». Così cantiamo nel Gloria: «Tu solo il Santo, tu solo l'Altissimo». Nell'inno del Corpus Domini cantiamo: «Lauda Sion, Salvatorem», «Loda Sion il tuo Pastore, loda con giubilo il Redentore di chi era perduto».

    3. La presenza reale di Gesù Cristo nell'eucaristia

    Il vangelo fa ancora un altro passo. Gesù non dice solo «Io sono il pane della vita», ma: Io mi do a voi come il pane della vita. «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno». Udite queste parole, coloro che stanno ascoltando Gesù sono scandalizzati: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Il suo discorso è per loro insopportabile, mormorano, sono scandalizzati e molti se ne vanno.
    Lo scandalo ha continuato nella storia della chiesa e continua ancora oggi. Sempre si ripete il tentativo di interpretare le parole dette da Gesù nell'ultima Cena, «Questo è il mio corpo [...]. Questo è il mio sangue» (Mc 14,22s. par.), come riferite a semplici segni e in modo puramente simbolico. Eppure non si dice «Questo significa il mio corpo», ma «Questo è il mio corpo».
    Intorno a questo "è" ci sono state già molte discussioni nella storia della teologia. Naturalmente nell'eucaristia non si tratta della carne e del sangue terreni di Gesù, della carne e del sangue percepibili con i sensi. La folla di Cafarnao fraintese Gesù in questo senso. Questo fraintendimento, in termini grossolanamente sensibili, viene detto fraintendimento "cafarnaitico" , che certamente non giustifica, dalla parte opposta, la reazione di una concezione puramente simbolica.
    Rispetto a questi due fraintendimenti l'insegnamento della chiesa afferma una concezione sacramentale. Tutto ciò che si può toccare, vedere, gustare con i sensi è pane e vino; tuttavia, credendo nelle parole di Gesù, sappiamo che, mediante l'azione dello Spirito Santo, la realtà vera (quella che il medioevo chiamava sostanza) [37], sottratta ai nostri sensi, non è più il pane e il vino, ma è il corpo e il sangue di Cristo, vale a dire in senso biblico: Gesù Cristo che offre se stesso per noi. Le specie percepibili del pane e del vino diventano così segni operanti la presenza e pienamente reali, diventano simboli reali di una nuova realtà, vale a dire del Signore risorto e glorificato. In questo senso sacramentale le parole di Gesù «Questo è il mio corpo» e «Questo è il mio sangue» sono da intendere in termini reali. È dunque in questo stesso senso sacramentale che si parla di presenza reale, vale a dire della presenza vera, reale e sostanziale di Gesù Cristo sotto i segni del pane e del vino [38].
    In questa concezione reale l'insegnamento della chiesa cattolica coincide con quello della chiesa ortodossa e dei cristiani di confessione luterana. Fortunatamente negli ultimi decenni è maturata una nuova consapevolezza di questa comunanza. Anche se restano questioni aperte [39], il movimento ecumenico ci ha già fatto fare grandi passi di avvicinamento.
    Si è già tentato in molti modi di comprendere più profondamente il mistero dell'eucaristia. Però esso resta un «mistero della fede». Dal punto di vista razionale esso è per noi altrettanto poco comprensibile come il mistero dell'incarnazione. Tuttavia possiamo vedere il nesso interno che lega questi due misteri. Essi si fondano e si illuminano reciprocamente [40]. Nell'eucaristia l'incarnazione continua in un modo nuovo, vale a dire in modo sacramentale. Il vescovo e martire Ignazio d'Antiochia lo comprese chiaramente. Egli combatte contemporaneamente tanto contro coloro che definiscono l'incarnazione un'apparenza quanto contro coloro che comprendono l'eucaristia come apparenza. Così facendo, secondo lui, si riduce tutto ad apparenza. Allora anche noi siamo redenti solo in apparenza. Allora tutto diventa un grande teatro, una grande menzogna [41].
    Il grande teologo Tommaso d'Aquino ci ha fatto dono dell'inno meraviglioso del Corpus Domini: «Adoro te devotamente, o Dio nascosto, sotto queste apparenze ti celi veramente [...]. La vista, il tatto, il gusto, in te si ingannano, ma solo con l'udito si crede con sicurezza» [42]. Questo mistero non si può dissolvere con l'intelletto umano. Qui è possibile solo l'atteggiamento della fede: «A te tutto il mio cuore si abbandona, perché, contemplandoti, tutto vien meno» [43].

    4. Gesù Cristo: cibo della vita eterna

    Il pane non è fatto per essere guardato, ma per essere mangiato. Anche l'eucaristia ci è data come cibo. «Prendete e mangiate», dice Gesù nell'ultima Cena (Mt 26,26) e nella sinagoga di Cafarnao afferma: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (Gv 6,54) [44]. Come assumiamo il cibo terreno assimilandolo affinché ci nutra e ci rafforzi, allo stesso modo nell'eucaristia Gesù entra in noi affinché egli sia in noi e noi in lui. Si realizza dunque ciò che chiamiamo comunione, vale a dire l'unione personale più profonda possibile con Gesù Cristo, per diventare una cosa sola con lui. I Padri della chiesa esprimono questo punto in modo molto realistico. Essi dicono che, mediante la comunione, noi diventiamo portatori di Cristo e un solo corpo e un solo sangue con lui [45]. Il diventare una cosa sola con Cristo è paragonato da loro con la fusione di due candele in una sola [46].
    Mediante questa unione personale Gesù diventa veramente nostro nutrimento spirituale; egli vuole nutrirci e darci forza per il nostro cammino, vuole guarire le malattie della nostra anima ed essere nostro viatico nell'ultimo viaggio. Così l'eucaristia ci fa pregustare il banchetto di nozze del cielo. Per questo il vescovo e martire Ignazio d'Antiochia chiamava l'eucaristia «rimedio di immortalità» [47]. Ireneo di Lione ha detto: «Così i nostri corpi, partecipando all'eucaristia, non sono più corruttibili, perché hanno la speranza della risurrezione» [48].
    Riflettendo su questo grande "mistero della fede" si può comprendere come mai l'istituzione dell'eucaristia fu preceduta dalla lavanda dei piedi come segno di purificazione di tutta la persona (Gv 13,4-11). L'apostolo Paolo ammonisce a distinguere il pane eucaristico dal pane ordinario e di esaminare se stessi; «perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1 Cor 11,29). Questo ammonimento ritorna frequentemente nei Padri della chiesa [49]. Nella liturgia orientale, il vescovo o il sacerdote prima della comunione acclama ai fedeli: «Le cose sante ai santi». I teologi medievali parlavano della comunione spirituale. Con questa espressione intendevano dire che la comunione non si deve ricevere soltanto con il corpo, ma con un atteggiamento spirituale di fede. Qui non fa differenza se la si riceve sulla mano o sulla lingua. Con la lingua si pecca almeno altrettanto spesso che con la mano. Ciò che conta è che la comunione si riceva con rispetto, con fede e con coscienza pura [50].
    La comunità raccolta per il pasto eucaristico, dunque, è molto di più di una comunità raccolta fraternamente per un pasto. Essa è comunione intensissima con Gesù Cristo e in lui comunione gli uni con gli altri. La comunione solamente umana, per quanto importante, bella e profonda possa essere, non può saziare la fame di vita; al più tardi con la morte si infrange contro il suo limite naturale. La comunione eucaristica con Cristo risorto supera le barriere della morte. Essa è anticipazione e pregustazione della comunione celeste con lui e tra di noi: «Mistero della Cena! Ci nutriamo di Cristo, si fa memoria della sua passione, l'anima è ricolma di grazia, ci è donato il pegno della gloria» (Solennità del Corpus Domini, Antifona al Magnificat).

     

    NOTE

    35 AGOSTINO, Le confessioni I, 1 [trad. it., 5].
    36 Non è qui possibile trattare la questione attuale dei "semi" della realtà di Cristo nelle altre religioni e nelle loro rispettive culture e neppure la questione della salvezza di coloro che non credono in Cristo.
    37 Il concetto scolastico di sostanza, quindi, non significa affatto ciò che oggi intendiamo per sostanza o sostanze, vale a dire una realtà materiale. La presenza sostanziale di Cristo nell'eucaristia non va intesa in senso materiale, ma in analogia a una presenza spirituale.
    38 Così il concilio di Trento: DH 1636. In questo senso realistico, i Padri greci della chiesa definiscono l'eucaristia come simbolo, figura, immagine, typos (J. BETZ, Die Eucharistie in der Zeit der griechischen Väter 1/1, Freiburg i. Br. 1955, 217-242). Fondamentalmente la dottrina successiva della transustanziazione non può e non vuole niente di diverso rispetto a questa concezione sacramentale dell'eucaristia.
    39 Con i cristiani evangelici la questione aperta è soprattutto quella di chi possa presiedere l'eucaristia, più precisamente la questione del ministero ordinato e del ministero episcopale nella successione apostolica.
    40 Questo nesso è stato messo in luce, in un modo che oggi come allora continua a restare valido, da M.J. SCHEEBEN, Die Mysterien des Christentums (a cura di J. Höfer), Freiburg i. Br. 1951, 385-441 [trad. it., I misteri del cristianesimo. Essenza, significato e sintesi, Edizioni Paoline, Alba 1962].
    41 IGNAZIO, Smyrn.7 , 1; cf 2, 1; 4, 2; 5, 2 [trad. it., Lettera agli Smirnesi, cit., 138; cf. 134s.]; Trall. 10, 1 [trad. it., Lettera ai Tralliani, cit., 118].
    42 «Adoro te devote, latens Deitas, quae sub bis figuris vere latitas. Visus, tactus, gustus in te fallitur, sed auditu solo tuto creditur» (Tommaso d'Aquino).
    43 «Tibi se cor meum totum subiicit, quia te contemplans totum deficit» (Tommaso d'Aquino).
    44 Evidentemente con questo non si deve diminuire il significato dell'adorazione eucaristica così come si è sviluppata nella chiesa latina del secondo millennio. In essa continua a risuonare, per così dire, la celebrazione dell'eucaristia e l'eulogia. Però, come sapeva anche il concilio di Trento (DH 1643: «Ut sumatur institutum»), lo scopo e il compimento si trova nell'atto di "gustare".
    45 CIRILLO DI GERUSALEMME, Cat. 4, 3 [trad. it., Le catechesi, Città Nuova, Roma 1993].
    46 CIRILLO DI ALESSANDRIA, In Io. 10, 2 [trad. it., Commento al Vangelo di Giovanni, 3 voll., Città Nuova, Roma 1994].
    47 IGNAZIO, Eph. 20, 2 [trad. it., Lettera agli Efesini, cit., 107].
    48 IRENEO, Haer. IV, 18, 5; cf. V, 2, 2 [trad. it., Contro le eresie, cit., 342; cf. 414].
    49 Did. 9, 5; 10, 6; 14, 1 [trad. it., Didachè, cit., 35s.38]; GIUSTINO, 1 apol. 66 [trad. it., Apologie, cit.]; AGOSTINO, In Jo. XXVI, 11 [trad. it., Commento al Vangelo e alla Prima Epistola di San Giovanni, cit.].
    50 Una spiegazione molto bella e profonda della comunione ricevuta sulla mano si trova nelle Catechesi mistagogiche di Cirillo di Gerusalemme (V, 21): le mani appoggiate l'una sull'altra sono il trono pronto a ricevere il re [trad. it., CIRILLO DI GERUSALEMME, Le catechesi ai misteri, Città Nuova, Roma 1977].

    (La liturgia della Chiesa, Queriniana, 2015, pp. 220-226)


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