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     Ufficio Nazionale per l’Educazione, la Scuola e l’Università
    Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile

    Prospettive per la

    pastorale universitaria

    dal Documento Preparatorio 
    del Sinodo dei Vescovi 2018
    «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale»

    Rossano Sala

    Salutandovi e augurando a tutti e a ciascuno di voi un buon Convegno, cerco di essere fedele al mandato che mi è stato affidato all’interno di queste due giornate di impegno condiviso.
    Il riferimento fondamentale a cui mi ispiro è la terza parte del Documento Preparatorio (DP) [1], in quanto è quella che maggiormente offre “prospettive” di concretizzazione per l’azione pastorale. Senza evidentemente scartare la prima e la seconda parte. Il DP è stato proposto alla Chiesa universale «non come un documento compiuto, ma di una sorta di mappa che intende favorire una ricerca i cui frutti saranno disponibili solo al termine del cammino sinodale» (24). Mi pare importante, in questa linea, chiarire fin dal principio che il DP segna l’inizio di un cammino aperto e che non sappiamo bene dove ci porterà: la mappa di navigazione prevede che le risposte al questionario proposto convergeranno verso l’Instrumentum laboris (inizio del 2018), punto di partenza per il momento sinodale vero e proprio (ottobre 2017); le proposizioni finali saranno consegnate al Santo Padre in vista dell’Esortazione apostolica e al successivo tempo di recezione ecclesiale. Un cammino che, nel suo insieme, ci porterà alla primavera del 2019 e poi ben oltre…
    Nel pensare all’articolazione della mia relazione, sono partito dalla domanda posta come incipit della terza parte: «Che cosa significa per la Chiesa accompagnare i giovani ad accogliere la chiamata alla gioia del Vangelo, soprattutto in un tempo segnato dall’incertezza, dalla precarietà, dall’insicurezza?» (53). Ho cercato di rileggere quella parte mettendomi dalla vostra parte, cioè dal punto di vista della pastorale universitaria (PU).
    “Quali affermazioni, provocazioni e interrogazioni offre il DP per la pastorale universitaria?”: l’idea di fondo è di offrire un abbozzo di risposta a questa triplice sollecitazione. Per questo la relazione è pensata in tre parti: una dedicata alle affermazioni, una alle provocazioni e una alle interrogazioni.

     

    QUALI AFFERMAZIONI PER LA PASTORALE UNIVERSITARIA?

    Parto dalle affermazioni, che hanno il compito di confermarci e incoraggiarci su ciò che la PU sta pensando, facendo e verificando. Nell’ambito pastorale mi piace sempre segnalare che è opportuno partire dai punti di forza, dalle positività, da ciò che sta andando nella giusta direzione e che è ben orientato. La tentazione rimane sempre quella di partire da ciò che non va, dalle lamentazioni e dai lamenti infecondi.
    «La fede, quanto più è autentica, tanto più interpella la vita quotidiana, e se ne lascia interpellare» (60). Ecco la l’affermazione sintetica della PU: attenta alla vita quotidiana, incontra i giovani a partire dalla loro vita e si lascia interpellare dai loro cammini culturali: in questo senso è chiamata a pendere possibile una sintesi viva, vivace e vivibile tra fede, cultura e vita.

    Essere lì dove ci sono i giovani

    Il primo dei quattro punti della terza parte del DP afferma e immagina un nuovo stile di Chiesa da assumere nei confronti delle giovani generazioni. E su questo, lo dico subito con convinzione, la PU è pienamente in linea!
    «Accompagnare i giovani richiede di uscire dai propri schemi preconfezionati, incontrandoli lì dove sono, adeguandosi ai loro tempi e ai loro ritmi» (53). La PU, per molti aspetti, è una presenza della Chiesa “fuori dagli schemi preconfezionati”, ma soprattutto è una presenza che incontra i giovani “lì dove sono”, con una particolare attenzione ad adeguarsi “ai loro tempi e ai loro ritmi”.
    I giovani sono lì, in università, e la Chiesa attraverso di voi è lì, dove loro vivono. I dati ci dicono con chiarezza che i numeri sono notevoli: nonostante il calo demografico, «il numero complessivo degli immatricolati nell’anno accademico 2015-16 risulta pari a 271.000 unità facendo registrare un aumento rispetto all’anno accademico precedente» [2], sapendo che intorno alle università italiane girano intorno a due milioni di giovani!

    Ecco allora la prima affermazione, rispetto alle attese e ai sogni del DP: la PU è al posto giusto, perché si trova esattamente lì dove si trovano quotidianamente tanti giovani! È espressione reale di una Chiesa caratterizzata dai verbi uscire, vedere, chiamare, che dicono uno stile di Chiesa che tutta la Chiesa è invitata a fare proprio.

    La PU, considerata da alcuni ambienti ecclesiali come un qualcosa di sospetto, proprio perché effettivamente sembra essere fuori dagli “schemi ecclesiali preconfezionati”, è invece da pensare come perfettamente compatibile con il fatto che la Chiesa va e sta esattamente lì dove i giovani sono. In Università, lo sapete molto bene, ci sono tutti i giovani – e non solo i cosiddetti “nostri”, cioè quelli che girano dentro i nostri (corto)-“circuiti” ecclesiali – ed è un ambiente di vita davvero quotidiana, perché i giovani in Università ci passano molto tempo: due ingredienti davvero centrali rispetto al prossimo Sinodo, che vuole incontrare tutti i giovani, «nessuno escluso» (22.39.56). Effettivamente, e questo è per noi importante affermarlo,

    la situazione culturale contemporanea e la crescita esponenziale degli studenti (e, proporzionalmente, dei docenti), rendono l’Università un ambiente di azione pastorale ordinaria e specifica. La pastorale universitaria, inserita armonicamente nel quadro di una pastorale organica capace di coniugare la cura delle comunità territoriali con quella delle realtà di categorie e di ambiente, “concretizza la missione della Chiesa nell’Università e fa parte integrante della sua attività e struttura” [3].

    Per decifrare con loro la realtà

    Seguendo le linee tracciate dal documento della CCEE sulla PU in Europa – che mi pare uno dei più organici e ben riusciti sul tema della PU in generale – possiamo evidenziare una seconda idea, che attesta l’indole culturale della PU:

    La pastorale universitaria è, nelle sue diverse componenti, azione ecclesiale specifica nel mondo universitario. Essa si realizza articolandosi come:
    - cura pastorale delle persone (studenti, docenti, personale tecnico e amministrativo);
    - animazione culturale della vita universitaria (evangelizzazione della cultura);
    - approfondimento della visione e del messaggio cristiano nei diversi ambiti del sapere (inculturazione della fede) [4].

    Se è vero che «la grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» [5], l’università non è e non può essere l’occasione in cui entrare per “fare altro” con i giovani, ma per camminare insieme nella decifrazione culturale del proprio tempo, mostrando la pertinenza e la giustizia della fede: si tratta di «prenderli sul serio nella loro fatica a decifrare la realtà in cui vivono» (53).
    La dimensione culturale della scuola e dell’Università rimane perfettamente compatibile con il cristianesimo, da cui – tra le altre cose – storicamente nasce l’istituzione universitaria in quanto tale: nonostante la sua metamorfosi, per cui da “università” è diventata “multiversità”, essa rimane una frontiera pastorale decisiva!

    Ecco allora la seconda affermazione: il proprio della laboriosità della PU è la cultura e il suo mondo, in specie il suo rapporto con la fede e con la visione cristiana del tempo, del mondo e della storia. La sua forma specifica di servizio e di carità verso le giovani generazioni è quello legato alla cura dell’intelligenza, alla valorizzazione della ratio in tutta la sua integrità e integralità.

    Dobbiamo avere chiaro che l’istituzione universitaria così com’è oggi non è politicamente neutrale rispetto alla fede, ma gli è semplicemente avversa. Coscienza questa che oggi, dopo cinque secoli di modernità che hanno ampiamente creato le condizioni di separazione tra fede e sapere, con l’esito di una secolarizzazione del sapere e di una disincarnazione della fede, richiede un impegno serio per il riscatto sia dell’uno che dell’altra.
    Per sviluppare questo aspetto non abbiamo qui il tempo per approfondire la questione come meriterebbe. Basti accennare ad uno dei testi esemplari sul tema, dove si afferma che nella teoria classica della secolarizzazione, che ha caratterizzato la parabola moderna nel suo insieme,

    è infatti all’opera qui un potente “impensato”: una prospettiva secondo cui la religione dovrebbe declinare o (a) perché è falsa, e la scienza dimostra che lo è; oppure (b) perché oggi è sempre più irrilevante, dato che possiamo curare la tigna con i beveroni; o ancora (c) perché la religione è fondata sull’autorità, e le società moderne attribuiscono un’importanza sempre maggiore all’autonomia individuale, o per una qualsiasi combinazione dei fattori citati. Questo “impensato” è forte, […] molto forte tra gli intellettuali e negli ambienti universitari, persino in nazioni come gli Stati Uniti dove la pratica religiosa è ancora molto alta. In effetti, l’esclusione/irrilevanza della religione fa spesso parte dello sfondo tacito delle scienze sociali, della storia, della filosofia, della psicologia [6].

    Importante per noi è affermare che la fatica della decifrazione della realtà è un affare che riguarda e che passa per la fatica e la profezia di un discernimento culturale alla luce del Vangelo e all’altezza dei tempi, nella duplice direzione dell’inculturazione della fede e dell’evangelizzazione della cultura.

    Secondo uno stile pastorale audace e creativo

    Una terza idea importante parte dalle opportunità offerte dai tre verbi offerti che indicano un rinnovato stile di Chiesa da assumere e sviluppare: «uscire, vedere e chiamare» (55-56).
    In questa direzione, la quasi naturale “destrutturazione” della PU, che non ha grandi certezze né grandi strutture, può essere un’autentica opportunità per la creatività, e il DP insiste sul fatto che dobbiamo «essere audaci e creativi in questo compito» (54).
    Non avere l’onere di mantenere e gestire grandi spazi, avere la possibilità di gestire in forma flessibile i tempi e le iniziative, legare la pastorale più alla relazione personale che alla struttura organizzativa possono essere delle grandi opportunità da non perdere.

    Ne nasce una terza affermazione: gli spazi, i tempi e le strutture della PU ne fanno una pastorale particolarmente adatta e flessibile per rispondere alla situazione sociale, culturale ed ecclesiale dei giovani, offrendo opportunità inedite da sviluppare con creatività e lungimiranza.

    Sapete molto bene che la Chiesa, almeno in Italia, così come in tanti paesi europei, sta vivendo la pena e la fatica di gestire, mantenere e alienare strutture immobiliari che hanno fatto certamente il loro bene, ma anche il loro tempo: questo comporta perdite di tempo, di energie e di risorse che potrebbero essere utilizzare per il rinnovamento pastorale. Stiamo faticosamente passando attraverso un tempo di umiliazione, che dovrebbe auspicabilmente farci diventare più umili: come Chiesa, come pastori, come cristiani.
    Ecco allora che i tre verbi proposti per il rinnovamento dell’azione pastorale della Chiesa, assomigliano per la PU a tre autostrade che, tutto sommato, sta già percorrendo: «Tre verbi, che nei Vangeli connotano il modo con cui Gesù incontra le persone del suo tempo, ci aiutano a strutturare questo stile pastorale: uscire, vedere, chiamare» (55). Il dettato del DP è oltremodo chiaro e intercetta davvero la PU nel suo insieme:

    Uscire: Pastorale vocazionale in questa accezione significa accogliere l’invito di Papa Francesco a uscire, anzitutto da quelle rigidità che rendono meno credibile l’annuncio della gioia del Vangelo, dagli schemi in cui le persone si sentono incasellate e da un modo di essere Chiesa che a volte risulta anacronistico. Uscire è segno anche di libertà interiore da attività e preoccupazioni abituali, così da permettere ai giovani di essere protagonisti. Troveranno la comunità cristiana attraente quanto più la sperimenteranno accogliente verso il contributo concreto e originale che possono portare.
    Vedere: Uscire verso il mondo dei giovani richiede la disponibilità a passare del tempo con loro, ad ascoltare le loro storie, le loro gioie e speranze, le loro tristezze e angosce, per condividerle: è questa la strada per inculturare il Vangelo ed evangelizzare ogni cultura, anche quella giovanile. Quando i Vangeli narrano gli incontri di Gesù con gli uomini e le donne del suo tempo, evidenziano proprio la sua capacità di fermarsi insieme a loro e il fascino che percepisce chi ne incrocia lo sguardo. È questo lo sguardo di ogni autentico pastore, capace di vedere nella profondità del cuore senza risultare invadente o minaccioso; è il vero sguardo del discernimento, che non vuole impossessarsi della coscienza altrui né predeterminare il percorso della grazia di Dio a partire dai propri schemi.
    Chiamare: Nei racconti evangelici lo sguardo di amore di Gesù si trasforma in una parola, che è una chiamata a una novità da accogliere, esplorare e costruire. Chiamare vuol dire in primo luogo ridestare il desiderio, smuovere le persone da ciò che le tiene bloccate o dalle comodità in cui si adagiano. Chiamare vuol dire porre domande a cui non ci sono risposte preconfezionate. È questo, e non la prescrizione di norme da rispettare, che stimola le persone a mettersi in cammino e incontrare la gioia del Vangelo (55-56).

     

    QUALI PROVOCAZIONI PER LA PASTORALE UNIVERSITARIA?

    Passiamo al secondo momento, quello delle provocazioni. Il DP ha il compito di chiedere alla Chiesa universale, e quindi alla PU, di fare verità anche sulle sue debolezze e sulle sue ferite in merito al tema dell’accompagnamento dei giovani alla vita, alla fede e alla risposta vocazionale.
    Sinteticamente possiamo convergere sul fatto che «la dimensione progettuale lascia spazio all’improvvisazione e all’incompetenza: è un rischio da cui difendersi prendendo sempre più sul serio il compito di pensare, concretizzare, coordinare e realizzare la pastorale giovanile in modo corretto, coerente ed efficace» (58).

    In cammino con la Chiesa

    Nella parte dedicata ai soggetti il DP parte dai giovani, coglie la centralità della comunità e infine specifica sulle figure di riferimento (56-60). Attesta senza ombra di dubbio che il soggetto plenario dell’azione pastorale è la comunità: «Tutta la comunità cristiana deve sentirsi responsabile del compito di educare le nuove generazioni» (57). Da parte sua, il documento della CCEE sulla PU in Europa dedica la seconda parte ad inserire la PU “nel quadro di una pastorale organica”:

    Soggetto adeguato della pastorale universitaria è la comunità ecclesiale, nella sua organica struttura e nelle sue diverse articolazioni: “È auspicabile che le comunità cristiane, preti, religiosi e fedeli riservino maggiore attenzione agli studenti ed agli insegnanti, nonché all’apostolato delle cappellanie universitarie”. […] La pastorale universitaria attraversa tutto il campo dell’azione ecclesiale [7].

    Anche la PU è e deve espressione di una Chiesa che, nel suo insieme e in quanto comunità, si prende cura delle giovani generazioni. Questo, per la PU, non è scontato, perché il “gioco di squadra” non sempre è visibile e operante nelle strutture e nell’organigramma della PU.
    L’opportunità della “destrutturazione” della PU, di cui abbiamo parlato, può qui rovesciarsi nel rischio di presentarsi nel mondo universitario come “battitori liberi”. Essere persone magari molto “carismatiche” e “geniali” rischia di non mostrare il nostro essere Chiesa che vive la comunione delle persone. Il rischio di essere ed agire da “solitari” e senza una diretta “copertura e custodia ecclesiastica” apre il campo ad un protagonismo autocentrato, autoreferenziale e talvolta anche, dobbiamo dirlo, narcisistico.
    È da ricordare invece che il soggetto dell’educazione e dell’evangelizzazione è la comunione ecclesiale. Ce lo ha ricordato molto bene al recente Convegno Nazionale di Pastorale Giovanile organizzato dalla CEI (Bologna, 20-23 febbraio 2017) – cito questo intervento anche per ricordare che, «per quanto attiene all’ambito studentesco, la pastorale universitaria è forma specifica di pastorale giovanile» [8] – il Vescovo di Modena-Nonantola, Mons. Erio Castellucci [9], con una relazione pacata, profonda e lungimirante, intitolata: “Generare la fede. Generare una vita di fede. La comunità cristiana, l’educazione e gli educatori”. Educare ed evangelizzare i giovani è davvero uno sport di squadra, che appello al cuore e che percorre con loro i sentieri della vita.

    La prima provocazione è quindi a mio parere molto chiara, e perfino tagliente: ci stiamo sforzando di creare una “comunità di PU”, di un nucleo animatore coeso e corresponsabile, dove giovani, docenti, personale, coordinatori vivano insieme un’esperienza comune di discernimento culturale alla luce della fede? E, in direzione intra-ecclesiale, di far emergere una “pastorale integrata”?

    Si tratta di una vera e propria “profezia di fraternità” che riguarda tutti e ciascuno, e non certamente in forma unilaterale la PU: vale per la “pastorale giovanile”, che a volte rischia di sentirsi un “super-ufficio”, piuttosto che un “servizio” per tutti coloro che si occupano dell’educazione e dell’evangelizzazione dei giovani; vale per la Chiesa locale, in particolare per la Parrocchia, che a volte rischia di arrotolarsi su di sé in un vano tentativo di “tenere sotto controllo” tutta la pastorale; vale per la pastorale della cultura, che può a volte perdere il suo sguardo trasversale e quotidiano, concentrandosi solo su eventi e iniziative puntuali.
    A volte si ha proprio l’impressione che, come Chiesa, ci manca una certa integrazione degli sguardi: così ci accontentiamo della spartizione degli ambiti e della gestione in proprio del potere che abbiamo.

    Curando la propria qualità personale

    La seconda grande provocazione del Sinodo, a proposito della pastorale giovanile vocazionale, va in direzione degli adulti: è una domanda sulla loro qualità, che sembra essere oggi una questione centrale e cruciale, sia dal punto di vista sociale che ecclesiale.
    Il DP è quanto mai preciso su questo punto, evidenziando le caratteristiche con una certa rigorosità. Mi pare interessante la scelta strategica del DC di anteporre alle singole figure specifiche di riferimento (genitori e famiglia, pastori, insegnanti e altre figure educative) alcune pennellate che dovrebbero essere comuni agli adulti in quanto tali, a cui queste diverse categorie di persone appartengono. Conviene anche qui risentirlo per intero:

    Il ruolo di adulti degni di fede, con cui entrare in positiva alleanza, è fondamentale in ogni percorso di maturazione umana e di discernimento vocazionale. Servono credenti autorevoli, con una chiara identità umana, una solida appartenenza ecclesiale, una visibile qualità spirituale, una vigorosa passione educativa e una profonda capacità di discernimento. A volte, invece, adulti impreparati e immaturi tendono ad agire in modo possessivo e manipolatorio, creando dipendenze negative, forti disagi e gravi controtestimonianze, che possono arrivare fino all’abuso (58).

    In questa descrizione mi pare di intravedere i contorni di alcune figure che hanno caratterizzato la PU nel suo insieme: penso, ad esempio, ad un pensatore J.H. Newman, al giovane sacerdote G.B. Montini, all’uomo a tutto tondo R. Guardini, per citare i maggiori. Ma nella seconda parte mi attraversano la mente anche alcune figure reali di persone davvero impreparate, immature, possessive e manipolatorie.
    Abbiamo purtroppo, a questo proposito, un’ampia, abbondante e importante letteratura sul tema degli adulti adulterati e adultescenti, che fa davvero pensare a quanto lavoro di rifondazione della condizione adulta abbiamo davanti [10]. E i giovani invece sono alla ricerca di adulti con cui entrare in positiva alleanza!

    Ecco quindi la seconda provocazione, non meno importante della prima: che adulti siamo per questa generazione di “giovani-Telemaco”, che stanno scrutando con nostalgia l’orizzonte in cerca figure autorevoli e significative con cui entrare in positiva alleanza e con cui intraprendere percorsi di discernimento culturale, spirituale e vocazionale?

    Rimane decisiva, in questa precisa direzione, la formazione e il sostegno di persone adeguate per la PU: «Perché ci siano figure credibili, occorre formarle e sostenerle, fornendo loro anche maggiori competenze pedagogiche» (58). Anche qui ci viene in soccorso il documento della CCEE sulla PU in Europa, specificando che

    la formazione dei responsabili è compito necessario e urgente; essa deve essere esigente, appropriata e specifica: su una base comune (formazione di base degli operatori pastorali) deve individuare caratteristiche e requisiti (carismi) da coltivare in vista di incarichi e responsabilità determinate. Tra le competenze, vanno segnalate in particolare:
    - attitudine al dialogo e all’accoglienza;
    - visione cristiana della cultura e della società;
    - conoscenza e comunicazione motivata delle prime parole della fede (primo annuncio);
    - sensibilità pedagogica cristiana;
    - agilità interdisciplinare;
    - conoscenza e rispetto del mondo dell’Università;
    - senso profondo dell’ecclesialità [11].

    Direi anche che vale la pena pensare ad un allargamento del coinvolgimento: persone con queste caratteristiche ce ne sono, presenti nel territorio, anche se talvolta sono fuori dai circoli della PU: la capacità di valorizzazione di tutte le persone capaci e disponibili non mi pare un optional per chi vuole fare una buona PU.

    Facendo pastorale con i giovani

    La terza grande provocazione che intravedo nel percorso sinodale, che riguarda evidentemente la Chiesa in quanto tale, e quindi anche la PU in specifico, è legata ai giovani stessi e al modo in cui ci si relaziona a loro. Arditamente, in due passaggi, si dice che «la Chiesa stessa è chiamata ad imparare dai giovani» (57) e che perfino intende «chiedere ai giovani stessi di aiutarla a identificare le modalità oggi più efficaci per annunciare la Buona Notizia» (23). Una duplice dichiarazione di intenti che lascia ben sperare quanto alle intenzioni del Sinodo nel suo insieme, e che obiettivamente rimanda alla migliore tradizione della Chiesa, che ha sempre attestato che «i giovani sono soggetti e non oggetti» (56)
    Pensate solo alla madre di tutte le regole monastiche, quella di san Benedetto. All’inizio del capitolo terzo, a proposito del discernimento comunitario, così si esprime:

    Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l’affare in oggetto. Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno. Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore. I monaci poi esprimano il loro parere con tutta umiltà e sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni costo le loro vedute; comunque la decisione spetta all’abate e, una volta che questi avrà stabilito ciò che è più conveniente, tutti dovranno obbedirgli.

    Notate bene: l’invito a non estromettere i più giovani dalla consultazione non è motivato dalla giustizia democratica o dal diritto costituzionale, ma da un argomento marcatamente teologale: “Perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore”. San Benedetto riconosce quindi nei giovani una categoria a cui il Signore stesso si rivela più che volentieri, quindi considera la giovinezza come un’età della vita particolarmente benedetta dal Signore e quindi feconda per la vita della Chiesa.
    Capite bene che qui si apre uno dei grandi temi della pastorale giovanile in generale e della PU in particolare: quella della corresponsabilità con i giovani: la PU si edifica con i giovani, prima che per i giovani.
    È una pastorale dei giovani, nel senso che loro ne sono i protagonisti: progettata e condivisa con loro, vissuta e attuata insieme, perché il cristianesimo è un “sapere partecipativo” ed è una “pratica di vita condivisa”: non è mai troppo lontano il rischio di ridursi a pensare e ad agire come se i giovani fossero solamente destinatari passivi da “formare”, “istruire”, “riempire”, “educare”, “salvare” senza la loro necessaria ed intima partecipazione, senza di loro!
    La pastorale giovanile nel suo insieme è chiamata a fare dei giovani a cui è mandata dei soggetti impegnati in presa diretta nell’esercizio della vita cristiana. Non certamente degli inoperosi, disinteressati e indifferenti destinatari: l’idea che i giovani siano soggetti passivi della PU è assolutamente da respingere, perché – in primo luogo – tradisce il cuore della proposta cristiana, che è certamente ricezione dell’iniziativa di Dio a favore nostro, ma, nella sua piena maturità, è altrettanto un impegno esplicito di attestazione esistenziale di un certo modo di vivere che si pone al servizio degli altri. In secondo luogo tale prassi non è per nulla rispettosa dell’età della vita del giovane stesso: un’età che richiede l’energica presa in carico della propria vita, caratterizzata dall’esercizio in prima persona della libertà e della responsabilità, dalla capacità di iniziativa personale attraverso tentativi a volte fallimentari ma assolutamente necessari e improrogabili.

    Ecco infine la terza provocazione del DP per tutti noi: nel nostro impegno nella PU stiamo davvero coinvolgendo i giovani, avendo fiducia in loro e nelle loro risorse, convinti che l’opera educativo-pastorale che stiamo portando avanti non è solo indirizzata ai giovani, ma è pensata, progettata, condivisa, attuata, verificata e rilanciata con loro?

    Prendere quindi sul serio il fatto che «per la pastorale i giovani sono soggetti e non oggetti» diventa davvero qualcosa che ci invita a riflettere e prendere posizione rispetto a coloro che attuano la PU.

     

    QUALI INTERROGAZIONI PER LA PASTORALE UNIVERSITARIA?

    Il DP, come sapete, si conclude con un questionario: quindici domande per tutti, tre per ogni singolo continente e infine la richiesta di condividere tre “buone pratiche”. Sono queste le “interrogazioni” che ci sono rivolte, ma che vorrei sintetizzare in tre nuclei.
    Mi pare che le interrogazioni più pungenti per la PU non vengono dal primo capitolo, perché coloro che lavorano nella PU sono in presa diretta con tutti i giovani, quindi sono immersi in uno dei migliori “osservatori viventi” sul mondo giovanile. Il modo migliore per conoscere i giovani è vivere in mezzo a loro, e su questo la PU non ha alcun problema, ma solo degli enormi vantaggi rispetto a qualsiasi altro agente ecclesiale: nessun’altra presenza ecclesiale abbia questa garanzia di frequentazione quotidiana garantita.
    Allora mi soffermo sul secondo e poi ancora sul terzo capitolo del DP.

    Dare qualità vocazionale alla pastorale universitaria

    L’intero secondo capitolo del DP si impegna per mettere a fuoco lo specifico di ciò che il Sinodo desidera trattare: fede, vocazione, discernimento, accompagnamento. Sono le quattro parole-chiave del cammino che si sta incominciando come Chiesa, che ci aiutano a «prendere sul serio la sfida della cura pastorale e del discernimento vocazionale» (53).
    Direi che qui l’interrogazione, che nel questionario si riferisce a diverse domande, verte esattamente sulla qualità vocazionale della PU, perché il cuore della cura pastorale dei giovani è il discernimento vocazionale.
    La fragilità strutturale delle giovani generazioni dipende dal fatto che le loro libertà «si stanno ancora costituendo» (40): tra il dono gratuito della vita ricevuta e il compito di renderla fruttuosa attraverso l’impegno in prima persona trova spazio il lavoro dell’educazione, che implica pazienza nell’accompagnamento, serietà della trasmissione, vicinanza e sostegno nel discernimento vocazionale.
    Il confronto con il secondo capitolo è decisivo per interrogarci circa la nostra antropologia di riferimento, che non può essere legata ad una versione più o meno colorata di cristianesimo dell’antropologia moderna dell’autogenerazione: uscire da questo retaggio, attraverso una presa di coscienza che il nostro modo di pensare all’umano nasce da una dinamica del dono e cresce solo attraverso un’antropologia vocazionale, che «chiede di verificare quanto le scelte siano dettate dalla ricerca della propria autorealizzazione narcisistica e quanto invece includano la disponibilità a vivere la propria esistenza nella logica del generoso dono di sé» (51).
    Il termine “vocazione” non è da confondere con un generico lavoro di “orientamento”, ma fa appello alla possibilità e alla realtà di un Dio che crea per l’alleanza e che desidera interpellare ogni giovane, attraverso la sua Parola. La laboriosità del discernimento vocazionale rimanda proprio all’impegno, che fa appello prima di tutto alla coscienza del giovane, legato al

    processo con cui la persona arriva a compiere, in dialogo con il Signore e in ascolto della voce dello Spirito, le scelte fondamentali, a partire da quella sullo stato di vita. […] Come vivere la buona notizia del Vangelo e rispondere alla chiamata che il Signore rivolge a tutti coloro a cui si fa incontro: attraverso il matrimonio, il ministero ordinato, la vita consacrata? E qual è il campo in cui si possono mettere a frutto i propri talenti: la vita professionale, il volontariato, il servizio agli ultimi, l’impegno in politica? (44).

    In questo senso la prima e più importante interrogazione sinodale alla PU è circa la sua qualità vocazionale: in che modo stiamo aiutando i giovani che ci sono affidati a riconoscere la qualità dei propri desideri, a coglierne l’origine e il senso attraverso una retta interpretazione e infine a scegliere con fedeltà ciò che si è scoperto?

    Accompagnando i giovani con pazienza e autorevolezza

    L’esperienza di prossimità con i giovani universitari certamente vi conferma con estrema chiarezza che, «rispetto al passato, dobbiamo abituarci a percorsi di avvicinamento alla fede sempre meno standardizzati e più attenti alle caratteristiche personali di ciascuno» (64).
    Ciò che prima era considerata l’eccezione – arrivare «all’incontro con il Signore e con la comunità dei credenti per altra via e in età più avanzata (64) – ora sta diventando, per tanti motivi, la norma. Se solo guardiamo la media di età dei matrimoni o dell’entrata in seminario o nella vita consacrata, facendo attenzione anche ai cammini di provenienza, ci accorgiamo che è ormai finita qualsiasi istanza di uniformità.
    L’incontro «in ambiti extraecclesiali con qualcuno capace di essere testimone credibile» (64) apre il campo proprio all’università intesa esattamente come uno spazio privilegiato “fuori dalle mura ecclesiastiche” in cui i giovani possono trovare spazi di riscoperta e di appropriazione soggettiva e originale della fede, proprio nel dialogo con la cultura: effettivamente «la sfida per le comunità è di risultare accoglienti per tutti, seguendo Gesù che sapeva parlare con giudei e samaritani, con pagani di cultura greca e occupanti romani, cogliendo il desiderio profondo di ciascuno di loro» (64).
    Se dal punto di vista del rapporto dei giovani con la “religione istituita”, che chiaramente in Italia è chiaramente identificabile con la Chiesa Cattolica, le cose non sembrano essere particolarmente rosee [12], per quanto riguarda la ricerca spirituale e religiosa i dati appaiono molto vivaci e interessanti, presentandoci un mondo giovanile in ricerca, capace di lasciarsi interrogare [13]. Si distinguono quattro orientamenti:
    (1) Prima di tutto coloro che non sono né religiosi né spirituali. Il pensiero positivista, la visione materialista, il rifiuto dell’utilità della religione, la prospettiva nichilistica e l’ostilità verso l’istituzione religiosa rendono una parte dei giovani disinteressati non solo alla religione, ma perfino alla ricerca spirituale;
    (2) Vi è poi un gruppo che possiamo definire spirituali religiosi. Essi dichiarano di coltivare una vita spirituale, di vivere una relazione affettiva con il loro Dio, di avere una relazione personale verso l’oggetto della loro fede. Per loro la spiritualità rappresenta una via d’accesso immediata – cioè intima, emotiva, personale, unica – a Dio;
    (3) Un terzo gruppo può essere chiamato quello degli spirituali alternativi. Una quota di giovani appare aperta verso la ricerca di una reale trascendenza, ma fuori dei dettami delle religioni istituite. Potere creativo, energia vitalizzante e cosmica, sacralità della natura, entità superiore e impersonale, scintilla divina in noi sono i vari modi di cui parlano di questo livello superiore di trascendenza;
    (4) Un ultimo gruppo può essere definito degli spirituali secolari, che cioè dichiarano di vivere un’esperienza spirituale, ma chiusa nell’immanenza, quindi non religiosa. È la spiritualità laica nata da una prospettiva immanente, basata su una filantropia tipica del servizio all’uomo, fatta di solidarietà e comprensione, attenzione ecologica e ambientale, alla ricerca di un’armonia immanente.
    Si segnala così che l’interesse per la spiritualità stia sempre più crescendo nel sentire delle giovani generazioni, sia all’interno dell’istituzione religiosa che fuori di essa: infatti tre tipi su quattro sono infatti “spirituali”, anche se a modo loro. Per questo è da ritenere per vero che, «nella ricerca di percorsi capaci di ridestare il coraggio e gli slanci del cuore non si può non tenere in conto che la persona di Gesù e la Buona Notizia da Lui proclamata continuano ad affascinare molti giovani» (36).

    La seconda interrogazione sinodale verte sulla nostra capacità di accompagnare i giovani: in che modo stiamo attrezzando la PU perché possa tenere conto della gradualità e della diversità dei cammini di maturazione della libertà delle giovani generazioni, operando sempre più in forma artigianale, conformemente all’agire pastorale di Gesù?

    Avviando processi piuttosto che occupando spazi

    Quando si arriva ai luoghi, la terza parte del DP parla prima di tutto della vita quotidiana, poi dei luoghi in cui la Chiesa ha l’iniziativa e offre esperienze e infine del mondo digitale, che per tante ragioni «è divenuto davvero un luogo di vita» (63). Quando invece arriva agli strumenti, si parla dei linguaggi da verificare e valorizzare, si afferma il legame genetico tra evangelizzazione ed educazione e infine si chiede di offrire alle giovani generazioni esperienze di silenzio, contemplazione e preghiera.
    Ecco, mi pare, che l’ultima interrogazione specifica per la PU è quella circa le “convenienze pastorali” o, come dice il numero 14 del documento della CCEE sulla PU in Europa, delle “priorità pastorali”, che vengono così identificate:

    - Superare definitivamente la restrizione della pastorale universitaria a cura pastorale degli studenti nell’università, per restituirle la propria autentica fisionomia di momento specifico e saliente di pastorale della cultura;
    - comprendere e attivare la pastorale universitaria come via privilegiata di prima evangelizzazione;
    - delineare concretamente il rapporto tra i soggetti operanti a dimensione territoriale (parrocchia, prefettura) e quelli agenti direttamente nell’ambito dell’università (cappellanie, parrocchie universitarie);
    - riconfigurare in forma di pensiero pastorale e di azione concreta il rapporto tra pastorale ordinaria e cultura (immagine “culturale” di parrocchia);
    - dare profilo, tra le vocazioni cristiane ecclesiali, allo specifico della vocazione degli universitari (docenti e studenti) per l’inculturazione della fede e l’evangelizzazione delle culture.

    Anche se non sono passati molti anni da quel documento programmatico, il Sinodo ci chiede di verificare e rilanciare per l’oggi le priorità e le convenienze della PU.
    C’è davvero necessità di discernere per convergere verso scelte pastorali meditate e non affrettate, lungimiranti e non di corto respiro, legate alla vita quotidiana e non ad eventi sporadici e inconsistenti, aperte al lavoro condiviso e fraterno piuttosto che centrate sull’appariscenza del singolo, in linea con la dimensione propria dell’università piuttosto che orientate verso un certo genericismo pastorale.

    Ecco infine la terza interrogazione che il DP ci offre: stiamo facendo un intelligente discernimento sugli strumenti, le azioni, le priorità e l’ordine della missione della PU, convinti che senza di questo il nostro destino rimane legato fatalmente all’improvvisazione e alla continua e affannosa rincorsa alle urgenze del momento?

    Vorrei concludere sottolineando di nuovo che il linguaggio proprio della PU è quello culturale, piuttosto che quello giovanile, quindi umanistico, letterario, poetico, linguistico, scientifico, economico, filosofico e teologico:

    La pastorale universitaria è fortemente caratterizzata dalla dimensione culturale, che la attraversa e la qualifica, disegnandone la tipicità. Sotto questo profilo essa richiama le note qualificanti della comune vocazione e missione della comunità cristiana all’evangelizzazione della cultura e all’inculturazione della fede:
    - dialogo culturale: confronto, rispettoso e chiaro, come apertura e processo nel cammino verso la verità;
    - discernimento culturale: valorizzazione, purificazione, arricchimento delle realtà storico-culturali;
    - elaborazione culturale: dinamismo creativo di produzione di culture che, nella loro tipicità, siano cristianamente qualificate e portino la forza rinnovatrice del vangelo dentro le più intime giunture della storia [14].

    Attraverso la nostra presenza in università siamo chiamati a far emergere uno stile culturale alternativo e attrattivo, perché radicato nella fede e ispirato dalla fede. Sono convinto che è questo il primo e più importante compito della PU oggi in Italia ed in Europa. Di fronte ad alcuni giudizi molto severi sullo stato del mondo universitario sia italiano che europeo [15], la profezia propria della PU è quella di manifestare con umiltà e franchezza un modo diverso di comprendere il mondo, amarlo senza riserve e abitarlo con profezia, perché

    nel cattolicesimo romano il cristianesimo è innanzitutto e soprattutto un modo di vita condiviso. La sua modalità fondamentale non è proposizionale, ma partecipativa, non intellettuale, ma sacramentale, non individualistica, ma interattiva. Di conseguenza, vite compartimentate e dedite al consumismo non sono solo antitetiche al cattolicesimo fino all’idolatria, ma anche destinate a erodere la conoscenza esperienziale acquisita entro la comunità di fede, rendendo così implausibili, contestabili e/o chiaramente irrilevanti le sue asserzioni veritative (e, in parallelo, la liturgia). Quando accade questo, la teologia, perde il suo senso tradizionale di sforzo razionale di comprendere le interrelazioni fra le asserzioni veritative della fede e più in generale Dio in relazione a tutte le cose, perché perde la connessione con le pratiche di un modo di vita condiviso e la conoscenza esperienziale a esse associata. Al suo posto subentra un residuo intellettuale che diventa la conoscenza secolarizzata e specializzata prodotta dalle discipline accademiche, poi applicata, attraverso la tecnologia, a soddisfare i desideri autodeterminati di individui humeani scristianizzati. In sintesi, il tratto egemonico degli Stati occidentali liberali moderni – la protezione politica del diritto individuale di consumatori autonomi di costruire se stessi come meglio credono all’interno di un capitalismo post-fordista che copre tutto lo spazio fra il consumo e l’acquisto – contribuisce potentemente, benché indirettamente, alla secolarizzazione della conoscenza, erodendo la radice stessa della teologia cattolica: la pratica condivisa delle virtù, che forma delle comunità di fede ed è la fonte della loro conoscenza esperienziale [16].


    NOTE

    1 Cfr. SINODO DEI VESCOVI – XV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA (presentazione di R. Sala – Riflessioni di E. Castellucci e N. Dal Molin), I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Documento preparatorio e questionario, LDC, Torino 2017. I numeri di pagina posti tra parentesi nel testo della presente relazione fanno sempre riferimento a questa edizione.
    2 Cfr. la sezione dedicata a “Istruzione universitaria e giovani” in M. BAY, I giovani nelle statistiche sociali. Fonti, indicatori, sezioni tematiche, LAS, Roma 2017, 119-126.
    3 CONSIGLIO DELLE CONFERENZE EPISCOPALI D’EUROPA – COMMISSIONE CATECHESI-UNIVERSITÀ – COMITATO EUROPEO DEL CAPPELLANI UNIVERSITARI, La pastorale universitaria in Europa. Lineamenta, 2.
    4 Ivi, 1.3.
    5 FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 115.
    6 C. TAYLOR, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, 541-542. Aggiungo in nota tre suggestioni, per chi volesse approfondire.
    Consiglio, in primo luogo, la lettura del capitolo VI del testo: S.B. GREGORY, Gli imprevisti della Riforma. Come una rivoluzione religiosa ha secolarizzato la società, Vita & Pensiero, Milano 2014, 341-416, significativamente intitolato La secolarizzazione della conoscenza: «La tesi centrale di questo capitolo è che questi tre aspetti della conoscenza – la laicità, il carattere specializzato e segmentato, e la separabilità intrinseca dal resto della vita – sono interconnessi e derivano, attraverso percorsi complessi e imprevisti, dai dissensi dottrinali dell’età della Riforma. […] Questo capitolo cerca di mostrare che il lungo processo di secolarizzazione della conoscenza non può essere separato dalle controversie dottrinali dell’età della Riforma o dalle reazioni ideologiche e istituzionali da esse generate» (347).
    In realtà, per andare ancora più indietro rispetto al tempo della Riforma, bisogna aggiungere che l’idea e la radice stessa dell’istituzione universitaria in quanto tale – fin dalla sua fondazione e a partire dalle prime diatribe sia interne che esterne – portava in sé il rischio di una possibile frattura tra ricerca della verità e amore per la virtù, tra autorità della cattedra e umiltà del chiostro e ultimativamente tra il sapere della fede e la forza della ragione: ne rende conto con accuratezza I. ILLICH nella illuminante conferenza Testo e università riportata in A. GAUDIO (ed.), Illich. Un profeta postmoderno, La scuola, Brescia 2012, 93-122: «Se il mio approccio storico è corretto, la fondazione dell’università è stato un evento fondamentale nella storia della Chiesa, meno controverso ma più determinante di scismi, eresie e riforme» (120).
    In ottica invece più teologica e spirituale, dobbiamo ad H.U. VON BALTHASAR la precisa lettura della nascita del sapere universitario come momento di divaricazione strutturale tra “dottori” e “pastori” nella storia della Chiesa: momento che ha guadagnato, almeno inizial¬mente, una nuova forma di santità legata in maniera specifica all’intelligenza, ma ha anche, nello stesso tempo, creato le condizioni per un possibile reciproco estraniamento tra fede e sapere: cfr. il saggio Teologia e santità, in Verbum caro, Morcelliana, Brescia 19854, 200-229: «A un certo momento si compì la svolta, e si passò dalla teologia prostrata in ginocchio a quella seduta a tavolino. […] La teologia “scientifica” diviene estranea alla preghiera, e perciò inesperta del tono in cui si deve parlare della santità, mentre la teologia “edificante”, a motivo della crescente mancanza di contenuto, non di rado incorre in una falsa unzione» (228).
    7 CONSIGLIO DELLE CONFERENZE EPISCOPALI D’EUROPA – COMMISSIONE CATECHESI-UNIVERSITÀ – COMITATO EUROPEO DEL CAPPELLANI UNIVERSITARI, La pastorale universitaria in Europa. Lineamenta, 13.
    8 Ivi, 16.
    9 Il video è reperibile attraverso il sito https://giovani.chiesacattolica.it/giovani/siti_di_uffici_e_servizi/servizio_nazionale_per_la_ pastorale_giovanile/00000040_Home.html. Il video si trova in https://www.youtube.com/watch?v=lu_3AVmfS7I&index=2&list =PLqjktu53gPpxR4XXD5SO3moeUN3hTbswB.
    10 Ecco qualche testo a titolo esemplificativo: F. BONAZZI - D. PUSCEDDU, Giovani per sempre. La figura dell’adulto nella postmodernità, Franco Angeli, Milano 2008; F.M. CATALUCCIO, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Einaudi, Torino 2014; M. CHIARAPINI, Dove sono gli adulti? Assenti ingiustificati, Milano, Paoline 2013; G. CUCCI, La crisi dell'adulto. La sindrome di Peter Pan, Cittadella, Assisi (PG) 2012; ID., La scomparsa degli adulti, in «La Civiltà Cattolica» 2 (2012) 220-232; S. LAFFI, La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni, Feltrinelli, Milano 2014; C. LAFONTAINE, Il sogno dell'eternità. La società postmortale. Morte, individuo e legame sociale nell'epoca delle tecnoscienze (Grandi saggi 10), Medusa, Milano 2009; A. MATTEO, Giovinezza impossibile. Latitanza degli adulti nella relazione educativa, in «La Rivista del Clero Italiano» 2 (2011) 96-107; ID., Adulti e comunità. Istanze pastorali per una società che invecchia, in «La Rivista del Clero Italian» (2014) 725-740; ID., L’adulto che ci manca. Perché è diventato così difficile educare e trasmettere la fede, Cittadella, Assisi 2014; ID., Tutti muoiono troppo giovani. Come la longevità sta cambiando la nostra vita e nostra fede, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2016; ID., La fatica di diventare adulti. Il modello della famiglia di Nazareth, in «La Rivista del Clero Italiano» 1 (2017) 69-80; M. RECALCATI, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013; P. SEQUERI, Contro gli idoli postmoderni, Lindau, Torino 2011; F. STOPPA, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Feltrinelli, Milano 2011; G. ZAGREBELSKY, Senza adulti, Einaudi, Torino 2016.
    11 CONSIGLIO DELLE CONFERENZE EPISCOPALI D’EUROPA – COMMISSIONE CATECHESI-UNIVERSITÀ – COMITATO EUROPEO DEL CAPPELLANI UNIVERSITARI, La pastorale universitaria in Europa. Lineamenta, 22.
    12 Cfr. F. GARELLI, Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, Il mulino, Bologna 2015, 101-120, che parla di cinque figure idealtipiche di “socializzazione religiosa”: il primo tipo è l’alieno (circa il 12%); esiste poi un tipo secolarizzato (circa il 21%); un terzo tipo possiamo definirlo naufrago (circa il 10%); un tipo molto diffuso è quello intermittente (circa il 45% dei giovani, con maggioranza femminile); infine, ultimo ma non ultimo, vi è la figura del convinto (circa il 12%, più ragazze che ragazzi).
    13 Cfr. ivi, 181-212.
    14 CONSIGLIO DELLE CONFERENZE EPISCOPALI D’EUROPA – COMMISSIONE CATECHESI-UNIVERSITÀ – COMITATO EUROPEO DEL CAPPELLANI UNIVERSITARI, La pastorale universitaria in Europa. Lineamenta, 6.
    15 Cfr., a titolo esemplificativo, alcune battute di P. BARCELLONA, il quale era profondamente convinto che «l’Università italiana nel suo complesso appare, in realtà, come un vecchio apparato di resistenza corporativa ad ogni innovazione e ad ogni apertura, priva di coscienza critica e di visione storica. […] Si sono moltiplicate le cattedre di materie specialistiche, frantumando sempre più l’orizzonte del sapere che non può più essere unitario […] L’Università attuale è, purtroppo, un ammasso di macerie sotto tutti i profili. […] L’Università è devastata dall’esplosione corporativa degli interessi e dalla scarsa consapevolezza della posta in gioco, arroccata nella chiusura autoreferenziale dei propri orti disciplinari» (Diagnosi del presente, Bonanno, Acireale - Roma 2007, 58.71.73).
    Gli fa eco M. FERRARIS, il quale, a proposito della perdita della passione per la verità, afferma che «la deflazione della verità comporta una inflazione del suo contrario, ossia ognuno è autorizzato a contar frottole a tutto spiano, e non per cattiva volontà, ma perché di verità non ce n’è» (Una ikea di università. Alla prova dei fatti, Raffaello Cortina, Milano 2009, 33).
    In ambito più europeo S. ŽIŽEK fa notare che «la riforma di Bologna dell’istruzione universitaria in corso nell’Unione Europea equivale a un attacco concertato a ciò che Kant chiamava “l’uso pubblico della ragione”. L’idea di fondo di questa riforma – la spinta a subordinare l’istruzione universitaria ai bisogni della società, a renderla utile in relazione ai problemi concreti che dobbiamo affrontare – mira a produrre pareri competenti che devono risolvere i problemi posti dagli agenti sociali. Ciò che qui scompare è il vero compito del pensiero: non solo offrire soluzioni ai problemi proposti dalla “società” (lo Stato e il capitale), ma riflettere sulla forma stessa che questi “problemi” assumono, riformularli, riconoscere un problema nel modo stesso in cui noi vediamo tali problemi. La riduzione del compito dell’istruzione universitaria alla produzione di un sapere competente e utile è la forma paradigmatica dell’“uso privato della ragione” nel capitalismo globale contemporaneo» (Benvenuti in tempi interessanti, Ponte delle Grazie, Milano 2012, 23).
    16 S.B. GREGORY, Gli imprevisti della Riforma. Come una rivoluzione religiosa ha secolarizzato la società, Vita & Pensiero, Milano 2014, 415.


    (FONTE: Convegno nazionale di pastorale universitaria: «PRENDERE L’INIZIATIVA, COINVOLGERSI, ACCOMPAGNARE, FRUTTIFICARE E FESTEGGIARE” (EG 24)
    Roma, 16-17 marzo 2017)


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