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    Lavoro e fasce deboli: l’esperienza del Centro Orizzonte Lavoro



    Enzo Giammello

    (NPG 2000-06-18)


    È possibile che i giovani del disagio, dell’emarginazione e della devianza possano «rompere» con le proprie storie e con gli ambienti criminogeni che spesso costituiscono le loro uniche certezze?
    O ha ragione quella gran parte della società che li condanna senza possibilità d’appello, ritenendoli segnati per sempre? È possibile che persone abituate a guadagnare i soldi facilmente, spesso in gran quantità, e ad un uso sfrenatamente libero e ozioso del tempo, possano intraprendere percorsi di reinserimento sociale attraverso un lavoro, fatto di sacrifici, disciplina, rispetto degli orari…?
    E qualora tutto ciò possa risultare possibile, potrebbe mai esserlo in un contesto socio-culturale ordinariamente ostile e nel quale il tasso di disoccupazione giovanile del 60% riduce al lumicino la possibilità di inserirsi nel mercato del lavoro, anche per i cosiddetti «normali», dotati di professionalità?
    Infine, esistono persone disposte a fare propria tale utopia e a scommettersi e pagare di persona perché il sogno diventi realtà? Non sono certo domande di poco conto. Ebbene, il Centro Orizzonte Lavoro è nato proprio (anche se non soltanto) per tentare di dare una risposta a tali interrogativi, che non sia astratta o teorica.

    Com-promettersi, nella logica dell’incarnazione

    Perché, se il lavoro è certamente un momento essenziale nei percorsi di prevenzione e reinserimento, nella difficile società in cui viviamo, caratterizzata da altissimi indici di disoccupazione e sempre più selettiva, pensare all’inserimento lavorativo delle fasce deboli (spesso giovani adulti, senza qualifiche e a volte con residue problematiche legate alla storia personale) è certamente una sfida.
    Anche perché l’ambiente è sospettoso, diffidente, prevenuto, ostile e ha paura. Si viene a creare così un gap tra le aspettative e i bisogni dei giovani da un lato e un mercato del lavoro dominato da logiche schiaccianti dall’altro.
    Si tratta quindi di mettere in comunicazione due mondi assai distanti, con azioni volte a ridurre la distanza che li separa, intervenendo:
    – con il soggetto debole, per il quale il reinserimento rappresenta una fase critica e delicata;
    – sulla società emarginante, per promuoverne il cambiamento;
    – sul mondo del lavoro, diffidente e preoccupato della produzione e della sua stessa sopravvivenza;
    – sulle istituzioni, spesso sorde, immobili burocratizzate, malate di assistenzialismo;
    – sulla stessa chiesa, che stenta talvolta a coinvolgersi e ad intendere la carità in termini progettuali.
    Per operare in tale direzione, il Centro Orizzonte Lavoro, cooperativa sociale nata sulla scia di Don Bosco per essere un compagno di viaggio nel cammino dei giovani (specialmente di quelli senza nessuno, senza niente o a rischio di esclusione sociale) verso il lavoro, ha promosso, interagendo con una serie di realtà istituzionali e non, un progetto multidimensionale e, riteniamo, innovativo: il progetto «Job no Drug».
    Lo stesso, finanziato e realizzato con i fondi e le finalità previste dal D.P.R. 309/90, è stato avviato con il mese di gennaio 1998 e si è protratto per tutto il 1999.
    Si tratta di una esperienza, entusiasmante e difficile al tempo stesso, vissuta per oltre un anno con giovani appartenenti alle cosiddette «fasce deboli», con l’obbiettivo di avviare percorsi riabilitativi differenziati, basati sull’impegno lavorativo (previa idonea formazione), capaci di agevolare processi di cambiamento e di integrazione sociale.
    Minori a rischio, adolescenti devianti, giovani alcolisti, tossicodipendenti anche in stato di detenzione o detenuti con possibilità di usufruire di misure alternative alla reclusione: sono alcuni dei tanti volti dell’emarginazione e dell’esclusione sociale.
    Per via del vissuto personale, la società continua a condannare inappellabilmente questi ragazzi e imprime su di loro un marchio indelebile, ritenendoli ormai irrecuperabili e, anzi, pericolosi.
    Avviene cosi che, anche quando decidono di tirarsi fuori dalle «storie», non trovano una mano amica disposta a «com-promettersi», a camminare al loro fianco, a stimolarne e supportarne la volontà di riscatto.
    Noi ci abbiamo provato. Vogliamo dirvi come, con quali difficoltà e con quali risultati. È una presentazione certamente parziale e incompleta, ma desideriamo condividerla, metterla a disposizione di tutti e, specialmente, degli addetti ai lavori. Sentiamo forte l’esigenza di collegarci con altri per dare e, ancora di più, ricevere sollecitazioni, idee, esperienze e riflessioni, in modo da sortire un «effetto moltiplicatore» ed elaborare prassi sempre migliori. Intanto, anche noi siamo stati «costretti» a riflettere e a verificare in maniera attenta il lavoro svolto. C’è poi una cosa che ci preoccupa particolarmente e che ci spinge a scrivere e ad aprire un confronto e un dibattito. L’attenzione al reinserimento socio-lavorativo di giovani emarginati e a rischio di esclusione sociale, pur se ancora scarsa, è certamente crescente.
    Si assiste ad un risveglio di interesse, sia a livello politico e istituzionale, che nel «privato sociale». Aumentano in maniera assai consistente, di conseguenza, gli stanziamenti economici sia da parte dell’Unione Europea, che dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti Locali: si tratta ormai di una cospicua massa di denaro. Tutto ciò, da un lato non può che fare piacere perché è in grado di costituire un volano per tante iniziative. Ma al tempo stesso preoccupa, per timore che, come spesso avviene con i disabili, i minori e gli anziani, anche la delicata fase del reinserimento sociale e lavorativo dei soggetti che hanno alle spalle storie di vita problematiche, possa diventare un «business», una speculazione ammantata di solidarietà, ovvero (quando va bene) una serie di iniziative di formazione (per lo più d’aula) che hanno indubbiamente una loro utilità, ma lasciano quantomeno perplessi relativamente al rapporto costi-benefici, dal momento che la ricaduta occupazionale, come risaputo, è assai bassa (6%). Occorre vigilare. Da qui l’esigenza di verifiche serie sull’uso delle risorse e sulla efficacia ed efficienza delle iniziative programmate e realizzate.

    L’articolazione del progetto

    Il progetto, condiviso e arricchito da un gruppo inter-istituzionale, era stato redatto dal Centro Orizzonte Lavoro. Fatto proprio dal comune di Catania e dallo stesso presentato al ministero, una volta approvato il finanziamento la gestione era stata affidata alla cooperativa.
    Operativamente, l’inizio è stato dato con la convocazione e l’accoglienza dei giovani, su segnalazione dei Servizi, delle Comunità Terapeutiche, del privato sociale e della nostra stessa cooperativa. Abbiamo cercato di entrare in sintonia, pur nella distinzione dei ruoli e di «com-prendere» chi erano i giovani del disagio che stavamo incontrando, quali le loro aspettative, l’atteggiamento e le difficoltà nei confronti del lavoro e, di conseguenza, le attenzioni di cui bisognavano.
    Ci siamo resi conto subito che, dopo anni di vita oziosa, facile, randagia o, in altri casi, difficile, sofferta, con violenze di vario genere e dopo una più o meno lunga permanenza sulle varie strade della devianza e/o della dipendenza, dopo lunghi periodi di tempo nei quali i soldi giravano spesso facilmente, è risultato subito chiaro che il processo di reinserimento sarebbe stato irto di ostacoli.
    In questi casi si tratta, infatti, di uscire da mentalità, atteggiamenti e comportamenti spesso ormai radicati nella persona. Si pensi solo, ad esempio, quanto possa risultare difficile acquisire una cultura del rispetto, della disciplina, della puntualità del sacrificio e imparare a gestire razionalmente il denaro.
    Bisognava poi tener conto delle coordinate spazio-temporali nelle quali aveva luogo la realizzazione del progetto.
    Infatti, se è vero che i principi possono valere ovunque, non c’è dubbio che i singoli interventi vanno predisposti in maniera mirata: ai concreti destinatari, anzitutto, con i loro ben precisi problemi e al contesto nel quale faticano a vivere e che forse rappresenta il vero malato contagioso: anziché favorire la guarigione attraverso la cultura dell’accoglienza e dell’inclusione, diventa produttore di disagio, sofferenza, emarginazione ed esclusione.
    L’iter per giungere all’approvazione e all’affidamento del servizio è stato incredibilmente lungo; si può affermare che la gestazione è durata non nove mesi, ma quasi nove anni.
    L’intervento si è configurato come un lavoro di rete con i seguenti nodi: l’Ufficio Tossicodipendenze del Comune, i Ser.T., il Centro Servizi Sociali per Adulti e l’Ufficio Servizi Sociali per Minori del Ministero di Grazia e Giustizia, l’Istituto penale, il Privato Sociale e il Gruppo Giovani Industriali della provincia di Catania. Ne è scaturita una collaborazione ad un tempo indispensabile (data la complessità del lavoro con una utenza giovanile tossico o alcool dipendente, talvolta sottoposta a misure alternative alla detenzione e/o a rischio di emarginazione o con problemi di salute mentale), ma insieme complicata e difficile per via dell’innato individualismo che riguarda, in diversa misura, ogni operatore e ogni gruppo, così come, d’altronde, ogni essere umano. La strategia delle connessioni tuttavia, pur se esige attente riflessioni, appare assolutamente irrinunciabile.
    Tenuto conto del carattere sperimentale dell’esperienza, si può comunque affermare che i risultati siano stati complessivamente più che positivi.
    Il modello (naturalmente ancora perfettibile) è stato quello di un lavoro in rete non consistente nel fatto che ognuno realizza uno spezzone del progetto, ma nella condivisione degli obiettivi e dei valori e nell’approccio operativo integrato. Sul piano pratico, si è proceduto costituendo una «Commissione Tecnica» tra tutte le parti coinvolte, chiarendo il ruolo proprio di ognuno, individuando i rispettivi compiti e programmando insieme il lavoro, le scadenze degli incontri per il monitoraggio e le verifiche in itinere.
    Sin dalle prime battute, sono comparsi alcuni problemi, originati dalle «forme mentis» e dai modelli operativi diversi. Sostanzialmente, si è trattato di mettere insieme l’approccio strategico dei servizi pubblici, i quali (pur svolgendo un’attività che richiede dedizione e grande dispendio di energie) spesso si caratterizzano per un approccio più burocratico (cartelle, relazioni, contatti con la magistratura e il carcere), mirato al controllo medico e sociale, rispetto alle esigenze concrete che via via si manifestavano nello svolgimento dell’esperienza. Le divergenze sono state comunque superate, grazie al comune desiderio di lavorare nel supremo interesse dei ragazzi.
    In tandem, si è proceduto al reperimento e alla selezione di un’utenza che fosse al tempo stesso disponibile e sufficientemente pronta e motivata.
    Anche qui non sono mancate le difficoltà. Individuati i partecipanti, abbiamo iniziato con l’attività di orientamento individuale, a partire dal vissuto, dalle attese e dalle eventuali competenze di ciascuno.
    Si è palesata l’esigenza di lavorare per rinforzare le motivazioni e si è attivata la funzione di counselling individuale. La successiva, necessaria fase formativa è stata finalizzata non al conseguimento di una specifica qualifica professionale, bensì all’acquisizione di una corretta e creativa cultura del lavoro, nonché delle regole dell’attività lavorativa. Si è puntato sulla formazione del comportamento, degli atteggiamenti e delle motivazioni. Si è cercato di trasmettere la certezza che un lavoro onesto, pur se richiede fatica e sacrificio, può consentire di realizzare qualcosa di gran lunga più dignitoso, gratificante e socialmente significativo dell’ozio, degli espedienti e di ciò che porta a delinquere, in carcere o a bucarsi. Insieme, naturalmente, alla conoscenza del mondo del lavoro e all’acquisizione delle abilità sociali.
    Non sono mancati anche qui gli aspetti critici, dovuti al basso livello di scolarizzazione e di professionalità, nonché all’impellente bisogno di denaro per sostenere se stessi e, in più casi, anche la famiglia. Tali situazioni hanno reso necessario adeguare l’organizzazione del momento formativo alle situazioni degli utenti e a prevedere dei rimborsi spese, durante la fase formativa, che ne è seguita.
    Quando si è passati all’azione di supporto in vista del concreto reinserimento lavorativo, si è dovuto fare i conti con la scarsa disponibilità delle aziende da un lato e con le insicurezze, il vittimismo, un equilibrio del carattere e degli umori non ancora raggiunto, dall’altro.
    È stato attivato lo strumento delle «borse di formazione al lavoro» che è risultato valido per tutto un insieme di motivi. Si è trattato di un contratto scritto e firmato a tre mani: giovane, datore di lavoro e la nostra cooperativa. Il primo assumeva l’impegno della puntualità, del rispetto e della diligenza; l’artigiano o l’imprenditore si impegnava a offrire spazi formativi e di sperimentazione lavorativa; il Centro Orizzonte Lavoro, da parte sua, assicurava il tutoraggio continuo ad entrambi.
    La cooperativa, inoltre, ha avuto il compito di contattare e selezionare accuratamente le aziende, effettuare uno screening degli utenti, lavorare sulle motivazioni e curare gli inserimenti, tenendo conto da un lato delle preferenze, delle attitudini e delle capacità e , dall’altro lato, delle opportunità formative offerte dalle aziende.
    Il progetto, che per ogni utente ha avuto la durata media di sei mesi, sollevava le imprese da tutti gli oneri di natura economica e, a fronte di un orario di lavoro volutamente ridotto (30 ore settimanali), assicurava al giovane 800.000 lire mensili.
    L’esperienza ha consentito ai giovani di lasciare la strada, intraprendere un percorso formativo, confrontarsi con un contesto lavorativo sano, acquisire competenze spendibili sul mercato, valorizzare se stessi e crescere come persona.
    Gli immancabili aspetti burocratici, con i ritardi nel pagamento delle indennità previste, hanno comportato l’insorgere di notevoli problemi, non escluse talune tensioni e, perfino, degli abbandoni.
    Anche su questo fronte si è colta la necessità di prevedere degli aggiustamenti. Per 5 di loro la borsa si è conclusa con l’assunzione presso la stessa azienda in clima di gioia e commozione incontenibili.
    L’altro itinerario di inserimento previsto, il cammino verso la costituzione di una cooperativa sociale di tipo B, nonostante l’esigenza di un ulteriore, specifico periodo di formazione non remunerata, ha raggiunto esiti positivi che sono andati anche al di là dei risultati attesi.
    I giovani sono stati conquistati dai concetti e dall’impegno di «condivisione», «democraticità», «protagonismo» e dagli altri valori insiti nella cooperazione: l’approccio solidale e imprenditoriale al lavoro e la più facile possibilità (perché insieme) di rompere, la cultura della dipendenza.
    Uno sforzo non indifferente è stato quello di adeguare l’oggetto sociale (l’attività da svolgere) alle persone concrete e di studiare un impatto vincente con il mercato.
    In base alle competenze esistenti (affinate da alcuni mesi di tirocinio presso aziende del settore) e alla disponibilità di un ingegnere, si è scelto di occuparsi, principalmente, della manutenzione ordinaria degli edifici: idraulica, pittura, muratura, impianti elettrici…
    Quando ci si è ritrovati presso un notaio per firmare l’atto di nascita della cooperativa, la soddisfazione di ognuno si toccava con mano. Oggi, la cooperativa «Arcobaleno» (così si chiama), sta uscendo dal normale periodo di rodaggio e, pur tra le immancabili difficoltà, pare stia giungendo ad assicurare ai soci un lavoro stabile.
    Al di là di tutto, comunque, possiamo e dobbiamo essere ottimisti: lavoro e tossicodipendenza, lavoro e fasce deboli, per quanto siano binomi certamente difficili da conciliare, rappresentano un connubio possibile. A patto, beninteso, di individuare e combattere i «bravi» e i «don Rodrigo» di turno.

    Il carattere innovativo del progetto

    Chiudiamo, segnalando alcune idee madri lungo le quali si è snodato il percorso di inserimento socio-lavorativo posto in essere.
    La prima consiste nell’aver concepito il progetto «Job no Drug» come una serie di azioni complementari e sinergiche tra loro: accoglienza, orientamento, formazione, tutoraggio, borse-lavoro, costituzione di una cooperativa sociale di inserimento lavorativo.
    In secondo luogo si è cercato di impostare un rapporto di stima e di fiducia. Pur con le attenzioni del caso, si è badato a non partire (magari segnalandole in vista del necessario superamento) dalle situazioni di debolezza e di svantaggio, bensì dalla possibilità di valorizzare il potenziale personale di cui ogni giovane dispone.
    Dal momento, poi, che il disagio (come pure la devianza) appare come il prodotto di una serie complessa di fattori, così il processo di riabilitazione non può essere promosso dall’impegno di singoli operatori o di singole agenzie: bisogna puntare, necessariamente, sul lavoro di rete.
    Ancora: occorre ribaltare le logiche finora dominanti riguardo l’inserimento lavorativo di soggetti marginali, evitando di riprodurre situazioni protette, garantite, privilegiate, in una sola parola, assistenzialistiche. Alla relazione «assistente-assistito» va sostituito un percorso di inclusione sociale basato sul protagonismo, sulla condivisione e sull’acquisizione di strumenti e di abilità: l’emarginazione può essere vinta solo dalla partecipazione. Infine, perché il «miracolo» avvenga, non può essere sufficiente l’impegno della persona deviante. Occorre promuovere il coinvolgimento della comunità (e al suo interno, dei vari mondi vitali) fino a divenire «tessuto di riassorbimento» e il supporto, lungo l’intero percorso, di persone motivate e professionalmente preparate. In altre parole, non basta motivare, orientare, formare: bisogna «accompagnare» al lavoro.

    Per concludere o... per ricominciare

    Terminata la processione, gli uomini si rimettono il cappello in testa e con le mani in tasca o dietro la schiena, rivolgono gli occhi al cielo perché è giunta l’ora dei fuochi d’artificio. Le luci e i botti incantano per un po’ di tempo, finché un effetto luminoso speciale e un botto più forte annunciano la fine di tutto. Nel cielo resta ancora del fumo, ma per la gente è tempo di tornare a casa, con il pensiero già alle cose di ogni giorno. La festa è finita. Dopo aver raccontato la nostra esperienza, mentre siamo contenti di averla potuta mettere a disposizione di altri, ci rendiamo conto che tutto ciò non avrebbe senso se le immagini (sia le nitide, che quelle sfocate) si dovessero disperdere.
    Piuttosto che concludere (la sfida infatti rimane), si rende necessario aprire un confronto sempre più ampio sui diversi modelli teorici e sulle tante esperienze certamente esistenti, per potere capire quali (pur dovendosi tenere conto delle diverse situazioni) risultino più efficaci ed efficienti.
    Anche perché spesso ci si sente inadeguati e viene la tentazione di tirare i remi in barca per via delle tante difficoltà. «Le forze deboli, diceva Don Bosco, quando sono unite diventano forti; e se una cordicella presa da sola facilmente si rompe, è assai difficile romperne tre unite». Irrobustiamo la corda, allora: sentiamoci, colleghiamoci e, perché no, coordiniamoci.

    Chi intendesse mettersi in contatto, lo può fare scrivendo al «Centro Orizzonte Lavoro», c/o Salesiani, via Vincenzo Giuffrida 208/A, 95128 Catania, via fax (095/436523) o e-mail (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).


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