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     Caratteristiche

    della spiritualità

    cristiana matura

    Carlo Molari


    Dalle riflessioni fatte sulla maturità dell'esistenza derivano alcune caratteristiche della spiritualità cristiana che debbono essere offerte a tutti gli uomini, perché sono assolutamente necessarie per lo sviluppo dell'umanità e la continuità della storia, e che sono anche la verifica dell'autenticità della preghiera come preghiera cristiana. Ne considero alcune: spiritualità incarnata, redentrice, comunitaria, non dualistica, contemplativa e missionaria.

    Spiritualità incarnata

    Il nostro rapporto con Dio non è vissuto come per gli israeliti del tempo di Gesù in ambiti sacri, riservati a Dio (il tempio), ma «in spirito e verità» (Gv 4,23) dal nostro spirito illuminato dalla Verità, dalla rivelazione di Gesù, sotto l'ispirazione dello Spirito e alla luce del Vangelo. Esso si svolge nella storia, all'interno degli eventi. La ricerca di Dio nella preghiera deve aiutarci ed allenarci a trovare poi Dio nella vita quotidiana. La preghiera non dovrebbe essere considerata come una «carica» che poi si scioglie nella vita, ma come la capacità di cercare e trovare Dio nella storia.
    Noi cristiani non abbiamo più il tempio. La «basilica» costantiniana è il luogo della comunità, della vita pubblica, un luogo molto laico e secolare, non separato e sacro. Purtroppo nella storia si sono avuti dei rigurgiti di sacralizzazione e sacralità. In fondo la spiritualità cristiana si potrebbe ridurre a incontrare Dio nelle persone e nella comunità (cfr. 1 Pt 2,9). Pregare è stare alla presenza del Padre. Questa visione secolare della vita cristiana ha prodotto nel Medio Evo testi come «Lo specchio delle anime semplici» di Margherita Porete, considerata eretica e bruciata a Parigi nel 1313, che invitava i cristiani a lasciarsi guidare dallo Spirito, perché non hanno più bisogno di altre sovrastrutture.
    Dopo il Concilio di Trento c'è stata una ripresa «polemica» o reattiva di sacralità in concomitanza con la riaffermazione del ministero ordinato. Oggi, dopo il Vaticano II, si cerca di liberarsi di nuovo dalle strutture sacre, almeno da quelle inutili, e soprattutto si promuove la spiritualità delle realtà secolari (D.M. Chenu), del lavoro (J. Lebret), del laicato (Y.M. Congar), del quotidiano (cfr. K. Rahner), della sofferenza, ecc. Per noi cristiani il ritirarsi a pregare non deve mai essere una fuga dal mondo, ma solo dalla mondanità. Essa comporta il vivere «nella carne», il vivere secondo il principio dell'incarnazione che è anche dell'inculturazione.
    L'azione di Dio per essere possibile nella storia, cioè efficace, deve rivelarsi nella «carne», deve incarnarsi. Si capisce così che l'incarnazione non è motivata dal peccato dell'uomo, ma è un'esigenza che si trova già all'interno della creazione, perché è la volontà di Dio di mostrare la perfezione divina nella carne umana (concezione francescana dell'incarnazione).
    Il termine incarnazione nella tradizione cristiana indica l'evento centrale della fede: il mistero di Gesù come Messia e Signore. La formula, rara inizialmente, è divenuta poi corrente e comune. Essa traduce l'interpretazione dell'evento salvifico secondo un modello, derivato dai libri sapienziali dell'Antico Testamento e che ha avuto molta fortuna in ambito cristiano. Si trova per la prima volta nel Prologo del Vangelo di Giovanni: «Il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14). Identico modello si trova anche nel prologo della Prima lettera di Giovanni 1,1: («Ciò che abbiamo toccato del Verbo della vita») e nell'Apocalisse («Il suo nome è Verbo di Dio» Ap 19,13: parola che giudica, cfr. ib., 20,11-12).
    Venendo al contenuto, il termine non indica, come a volte si fantastica, la discesa di un essere celeste in terra, ma la rivelazione della perfezione divina nella carne umana, il risuonare della sua Parola in parole e forme umane. La fede cristiana deve accogliere la dottrina del Concilio di Calcedonia (451) che afferma l'unione delle due nature nell'unica persona di Gesù Cristo, «senza cambiamento e senza confusione».
    Se questo è vero, Gesù non è un semidio o un essere metastorico; nella sua realtà umana egli è perfettamente uomo e non ha alcuna maggiorazione che lo faccia diverso da noi. Gesù non ha rivelato Dio perché nella sua realtà umana era divino, ma perché è stato così umano da essere la perfetta traduzione del progetto che Dio ha per l'uomo, e così trasparente alla presenza di Dio da consentirne la piena manifestazione nella carne. Gesù «è stato costituito Messia e Signore» (At 2,36), perché ha svelato, nella sua esperienza storica e soprattutto nella sua morte e risurrezione, i tratti essenziali dell'azione e della parola divine che salvano.
    L'incarnazione per Gesù non è un evento istantaneo, ma un lungo processo che culmina nella Pasqua. Egli è stato costituito Messia e Signore (cfr. At 2,36), Figlio di Dio in pienezza per opera dello Spirito «nella resurrezione dai morti» (cfr. Rm 1,4). «Imparò l'obbedienza da ciò che soffri e, reso perfetto, è stato fatto principio di salvezza eterna per tutti quelli che gli obbediscono» (Eb 5,9).
    La fede trinitaria impone che si eviti una divinizzazione della natura umana di Gesù (monofisismo nelle sue varie forme, che si traduce poi in un trionfalismo ecclesiale e in una divinizzazione della storia, nella sua immutabilità).
    La legge dell'incarnazione ha il suo risvolto nella kenosis e il suo culmine nella croce. Lì Gesù ha raggiunto il massimo della sua identità di figlio e ha realizzato la rivelazione suprema dell'amore divino, quando la violenza e l'egoismo umano cercavano di eliminarlo e ha mostrato che anche in quelle condizioni estreme è possibile lasciar fluire l'azione di Dio, e vivere l'offerta di amore che Dio ci fa. La specificità dell'esperienza cristiana è la fedeltà a questa legge rivelata in Gesù e nella tradizione da lui sorta, legge che regge tutta la storia salvifica. Gesù è stato costituito Messia e Signore, appunto perché altri, riferendosi a Lui, potessero continuare la sua missione. La rivelazione di Dio, infatti, non si è esaurita in Gesù. Per questo l'Evangelista Giovanni ha espresso la rassicurazione di Gesù: «In verità, in verità vi dico: chi crede in me, anch'egli farà le opere che io faccio e ne farà anche di più grandi» (Gv 14, 12).
    Le opere che possono consentire il proseguimento della rivelazione di Dio come si è realizzata in Cristo sono le forme nuove di umanità, le invenzioni della solidarietà con gli ultimi e della compassione per i sofferenti. Altre religioni hanno carismi diversi, quella cristiana è definita dalla croce, dove Gesù ha compiuto il suo cammino di figlio. Essa è diventata nel mondo il simbolo di una solidarietà che non teme la condivisione della morte, di una compassione che sa portare il male altrui fino all'estremo della sofferenza.
    Questa strada, tracciata dal cammino storico di Gesù, è stata percorsa da numerose schiere di santi che hanno introdotto nella storia umana correnti nuove di umanità e hanno consentito uno sviluppo inedito delle diverse comunità cui sono appartenuti. Essi sono diventati così modelli vivi di spiritualità umana, paradigmi della fedeltà alla vita. Le sfide attuali della storia attendono altre forme di rivelazione, invenzioni nuove di solidarietà che introducano a inediti livelli di umanità. In questa prospettiva l'incarnazione non è solamente un evento fondamentale della storia umana, ma un paradigma costante dell'azione salvifica di Dio e quindi anche una legge essenziale dell'esistenza redenta: la componente strutturale di un'autentica spiritualità cristiana.
    La legge dell'incarnazione interpretata in chiave trinitaria può essere quindi espressa in queste formule: la Parola del Padre diventa udibile sulla terra quando lo Spirito la rende parola umana; l'amore di Dio diventa efficace per gli uomini quando lo Spirito di Cristo lo traduce in gesto di amore umano; la misericordia del Padre si esprime nella storia umana quando nello Spirito di Cristo si fa perdono; la Vita di Dio, che è la fonte della Vita, diventa dono per gli uomini quando il suo Spirito rende la sua Parola carne umana.
    Il processo non avviene in modo automatico e deterministico, ma coinvolge la sintonia e la libertà dell'uomo ed è quindi soggetto al rischio del fallimento. In Gesù la Parola è giunta all'espressione compiuta e quindi alla forma che resta per sempre. Gesù quindi è diventato promessa per ogni uomo e indicazione della possibilità di diventare nel tempo figli di Dio, cioè di pervenire ad una forma di vita che resta per sempre attraverso le esperienze storiche. È ovvio che una spiritualità incarnata implica il coinvolgimento profondo di colui che la vive e diventa testimone dell'azione di Dio; la spiritualità non è qualcosa di esteriore che il testimone assume in certe circostanze, ma qualcosa che fa tutt'uno con lui.

    Spiritualità redentrice: portare il male altrui

    Il discepolo di Gesù deve essere consapevole di dover portare su di sé il male e lo fa compiendo la volontà di Dio all'interno della storia. La volontà di Dio non è l'evento (malattia o insuccesso). L'evento è disordinato, caotico di per sé e non esprime il volere di Dio. Dio non vuole la malattia, che è invece l'espressione della realtà creaturale imperfetta, non ancora arrivata alla migliore espressione di se stessa. La volontà di Dio si compie quando ci apriamo all'azione creatrice di Dio anche all'interno degli eventi dolorosi, imperfetti, disordinati e caotici. In altre parole, vivendo bene l'evento. È possibile vivere bene anche il male, perché nessuno può separarci dall'amore di Dio apparso in Gesù Cristo (cfr. Rm 8, 37-39). La spiritualità cristiana non rifiuta il negativo, lo vive «bene». Il proverbio popolare che dice che «non si muove foglia che Dio non voglia» esprime una visione pagana di Dio. Molte cose accadono nel mondo contrarie al volere di Dio. Dio non vuole il male! E non ci chiede di vedere in esso la sua volontà ma di viverlo compiendo la sua volontà, cioè continuando ad amare.
    E il male degli altri? Lo si vive bene portandolo su di sé, convertendosi all'amore. Noi pensiamo che solo il peccatore debba convertirsi. Ma ci sono peccati che solo chi non li ha commessi è in grado di redimere. Ci sono poi peccati che appartengono a tutti e che alcuni devono redimere anche per gli altri. Gesù ha portato il peccato del mondo (l'Agnello). Lo ha fatto esprimendo amore dove c'era odio, misericordia dove c'era peccato, ecc. Chi può farlo? Chi si lascia condurre dallo Spirito, chi esprime la forza creatrice di Dio e la sua grazia.
    Davanti al male che vediamo per esempio attraverso la televisione, ci sono due modi di reagire: chiamarsi fuori e giudicare chi lo ha commesso come fa il fariseo della parabola, oppure caricarsi del male e cercare di convertirci, mettendo in circolo amore e compassione, misericordia e novità di vita. Gesù dice all'adultera: «Nessuno ti ha condannata?» «Neppure io ti condanno, va in pace e non peccare più» (Gv 8, 10 s.). Bisogna amare il peccatore più dei giusti per mettere in circolo dinamiche d'amore e non altro odio o altra violenza. Il perdono introduce amore, dichiara la negatività del male e la sua persistenza, ma senza giudicare chi l'ha compiuto, e impegna a cambiare. La redenzione non è un fatto già concluso, è un processo che deve portare tutti a produrre opere di redenzione.
    In prospettiva storico/salvifica la volontà divina non è realizzata in nessuna situazione storica come tale, ma è sempre da compiere. I fatti che accadono non sono la volontà di Dio, né le decisioni dei superiori, né le consegne della chiesa. Tutto questo è sempre realtà che vive sotto l'ambiguità del peccato e l'incertezza della storia. Se Dio deve venire per mezzo dello Spirito che dona a chi crede in Gesù, la volontà del Padre è di accogliere il dono in tutte le situazioni. La sua volontà è da compiere anche dove non ci sono le premesse per farlo. «Nessuna creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» diceva S. Paolo (Rm 8, 39). In tutte le situazioni siamo in grado di cogliere e di esprimere la forza creatrice, che in noi diventa amore dove c'è odio, in noi diventa misericordia dove c'è peccato, diventa offerta di vita dove c'è morte.
    Particolare rilievo ha la capacità di portare la sofferenza e il peccato del mondo. Si tratta di rendere presente Dio dove gli uomini lo rendono assente, secondo la testimonianza offerta da Gesù: «Egli... che ingiuriato non rispondeva con altre ingiurie; maltrattato non minacciava; ma si rimetteva al Padre suo, che giudica giustamente» (1 Pt 2,22-23).
    Portare la sofferenza non significa accettare un volere misterioso di Dio, ma significa rendere presente Dio e compiere il suo volere all'interno dì situazioni dalle quali Dio è stato espulso. La volontà di Dio è manifestare il suo amore, rendere efficace la sua misericordia, tradurre concretamente il suo perdono. A questo atteggiamento è collegata la missione redentrice: portare il peccato del mondo. Non significa eliminarlo dalla storia, ma annullarne le dinamiche perverse, introducendone altre opposte.

    Le ragioni e le speranze del cristiano

    Per il cristiano lo scopo di ogni impresa storica è la venuta del Regno o la crescita dei figli di Dio. La finalità dell'economia, in questa prospettiva, non è la moltiplicazione dei beni bensì la crescita delle persone fino all'identità definitiva, che si prolunga oltre l'ambito terreno. Giovanni Paolo II in merito alla globalizzazione ha osservato: «Nessun sistema è fine a se stesso ed è necessario insistere sul fatto che la globalizzazione, come ogni altro sistema, deve essere al servizio della persona umana, della solidarietà e del bene comune».[1] Già il Concilio Vaticano II aveva ricordato che ogni «attività umana, come deriva dall'uomo, così è ordinata all'uomo. L'uomo infatti, quando lavora, non soltanto modifica le cose e la società, ma anche perfeziona se stesso. Apprende molte cose, sviluppa le sue facoltà, è portato a uscire da sé e a superarsi. Tale sviluppo, se è ben compreso, vale più delle ricchezze esteriori che si possono accumulare. L'uomo vale più per quello che è che per quello che ha» (GS 35, EV I, 1428).
    Il criterio cristiano con cui valutare i risultati o le carenze della globalizzazione è la koinonìa o comunione. Essa è l'orizzonte continuo della missione ecclesiale e un traguardo fondamentale della storia umana. Per questo il cristiano è stimolato a riflettere sulle incidenze che la fede può avere nello sviluppo armonico dell'umanità e per evitare possibili catastrofi. Molte svolte della creazione e della storia si sono realizzate proprio quando tutte le condizioni sembravano impedirle. Le risorse della vita non possono essere misurate dalle realizzazioni del passato, né dai progetti che fino ad ora sono stati formulati.
    Per chi crede in Dio la ragione di queste risorse risiede nella forza della Vita che contiene perfezioni molto più profonde di quelle fino ad ora realizzate e tende quindi a qualità molto più intense. Per questo egli è convinto che nessuna situazione storica è definitiva, nessuna struttura è adeguata, nessun modello corrisponde alle esigenze del Regno.
    Il cristiano, d'altra parte, per l'esperienza confluita nella sua tradizione, è convinto che il processo storico è retto dalla legge dell'incarnazione secondo la quale le forze della Vita o le energie divine si comunicano alle creature solo in forma creata e quindi solo attraverso gesti di creature, limitati e imperfetti, ma necessari. Ne deriva, per il credente, l'impegno urgente di costituire centri di messaggi vitali in particolare a favore delle persone emarginate e trascurate dai meccanismi sociali. I criteri da assumere per valutare la situazione e per decidere il da farsi è offerto dagli ultimi e dai più poveri della società. Le loro esigenze e le loro necessità indicano le scelte da compiere perché la storia umana proceda verso traguardi di maggiore armonia.
    In questa prospettiva l'attesa si trasforma in fiducia, l'impotenza sollecita l'impegno e la rabbia sfuma in compassione. L'atteggiamento del credente è quindi critico, ma non disperato, lucido nell'individuare le insufficienze, ma attento ai segni dei tempi per rendere possibile la «venuta del regno», l'irruzione cioè di forme nuove di umanità.

    Spiritualità comunitaria

    Noi, figli dell'illuminismo, siamo molto individualisti e viviamo il nostro rapporto con Dio in modo individualistico. Oggi dalla scienza viene un movimento di reazione che sottolinea il carattere olistico della realtà e la dimensione relazionale della persona umana. Essa per vivere ha bisogno dell'altro. Più una persona si apre agli altri nella comunione, più identifica se stessa, più unifica se stessa (monôsis). Noi acquisiamo la nostra identità nella misura in cui realizziamo la comunione con gli altri, una comunione sempre più vasta. La persona diventa figlia di Dio nella consapevolezza dei rapporti e delle relazioni con le altre creature. È attraverso la relazione che lo incontra.
    Gli altri sono portatori di un’offerta di vita che viene da Dio, quindi sono importanti per la mia crescita, non posso farne a meno. Noi stessi dobbiamo essere ambiti in ci avvengono delle offerte di vita per gli altri. La vita che abbiamo avuto non possiamo trattenerla, perché è un dono e come tale deve essere donata o trasmessa agli altri.
    Negli ultimi anni si è spesso ricorso al modello trinitario come garante di democrazia e di società fraterne. In tale modo si è operato quel cortocircuito di cui ho parlato prima. Come quando, ad esempio, Moltmann scrive: «Risponde quindi alla Trinità una comunione nella quale le persone vengono definite per le loro reciproche relazioni e per gli intrinseci significati, non in base al potere ed al possesso».[2] Nella stessa direzione, ad esempio, si muove L. Boff quando scrive: «Comprendere la persona umana come immagine e somiglianza della Trinità implica misurarla sempre sulla relazione aperta verso gli altri; è solamente stando negli altri, comprendendo se stessi a partire dagli altri, ed essendo attraverso gli altri che si costruisce la propria identità».[3] Seguendo lo stesso criterio, molti sottolineano il rapporto esistente fra concezione di Dio e atteggiamenti assolutisti o democratici. La tesi abbastanza diffusa sostiene che il monoteismo assoluto condurrebbe alla dittatura storica mentre il monoteismo trinitario favorirebbe l'egualitarismo.[4]
    Non possiamo partire da un'immagine dei rapporti intratrinitari come i teologi li hanno descritti per concludere ad una comunità umana regolata dall'oblatività.[5] Piuttosto impegniamoci a realizzare forme sempre nuove di condivisione e di fraternità nella convinzione che in tale modo ci sarà dato di scoprire realtà inedite di Dio, ma sempre e solo in modulazioni umane. Sia nella prima che nella seconda prospettiva è supposto un profondo legame tra il nostro modo di pensare Dio e il modo di vivere i nostri rapporti. Ma mentre alcuni progettano di imporre un modo di pensare a Dio per indurre un modo di vivere, credo sia necessario impostare un modo di vivere per giungere a pensare più correttamente di Dio.
    In prospettiva incarnazionista sappiamo che in ogni rapporto ci perviene un frammento della nostra identità di figli di Dio e noi offriamo a nostra volta un dono di vita agli altri. Ciò che si esprime è più grande della realtà che appare: un mistero si compie. Quando si è consapevoli di questa condizione tutto diventa significativo e riveste un carattere sacro: ogni rapporto viene vissuto come incontro con Dio, ogni volto umano rivela il suo volto.
    La forza o la tensione di una comunità non è la somma delle tensioni dei singoli membri della comunità, ma è molto di più (come la portata del cavo di acciaio supera la somma delle portate dei singoli fili che compongono il cavo), perché lo spazio o l'ambito di espressione dell' agape si moltiplica.

    Spiritualità non dualista: tempio dello Spirito santo

    Credere nell'incarnazione significa affermare che la storia è un processo di unificazione (monôsis) e di semplificazione. La persona umana nasce complicata, aggrovigliata e la sua formazione è formazione alla scelta di quello che l'unifica fino a diventare semplici, sine plicatione, trasparenza dell'azione di Dio, luogo della manifestazione della sua agape. La perfezione divina diventa creatura: la storia rende Dio vicino nella sua offerta. L'espressione di Gesù: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30) è la formula che indica l'esperienza unitiva. È in virtù di questa esperienza che Giovanni pone sulla bocca di Gesù le formule: «Le parole che io vi dico non le dico da me stesso; il Padre, che dimora in me, fa le sue opere» (Gv 14, 10). La ragione di queste affermazioni sorprendenti stava nel fatto che le opere di Gesù erano trasparenza perfetta dell'azione divina e che le sue parole esprimevano senza residui la verità di Dio (cfr. Gv 12,49-50; 14, 10): egli era tempio di Dio.
    L'episodio dei venditori cacciati dal tempio in Giovanni esprime con esattezza questa convinzione degli apostoli: «Disfate voi questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere ... Egli intendeva il tempio del proprio corpo. E più tardi, quando fu risuscitato da morte, i suoi discepoli ricordarono che aveva detto questo « (Gv 2,19; Ap 21,22). L'analogia del tempio è molto frequente nella tradizione ebraico/cristiana per designare la presenza di Dio nelle sue opere. Paolo ricordava ai cristiani di Corinto: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà Lui, perché Santo è il tempio di Dio che siete voi» (1 Cor 3,16-17). «Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente» (2 Cor 6,16b).
    Tempio significa spazio sacro, riservato cioè alla presenza e alla rivelazione di Dio. Presenza significa rapporto in atto. La discussione accesa tra i teologi se l'inabitazione debba essere attribuita a Dio indistintamente o allo Spirito Santo nasce ancora dalla presunzione trinitaria e risente della fallacia ipostatica. L'attribuzione storica deve sempre essere personale, perché indica la modalità con cui l'azione di Dio si esplica e viene accolta. Presenza è rapporto in atto e da parte dell'uomo il rapporto è realmente diverso se riferito al Padre o al Figlio o allo Spirito. Per essere tempio nel senso cristiano occorre che il rapporto in atto sia trinitario: attraverso il riferimento a Gesù ci si apre allo Spirito che orienta al Padre. La presenza è sempre di Dio, ma con riferimenti relativi molteplici e realmente distinti.
    Questo spiega perché sia possibile parlare realmente di una presenza dello Spirito santo. S. Agostino scriveva: «Il Padre e il Figlio hanno voluto che noi entrassimo in comunione tra noi e con loro per mezzo di Colui che è loro comune, e ci hanno raccolto nell'unità per mezzo di quel dono che è comune ad entrambi, cioè per mezzo dello Spirito Santo, Dio e Dono di Dio. In effetti è in Lui che siamo riconciliati alla divinità e godiamo della divinità».[6] E ancora: «L'unità sociale della chiesa di Dio, fuori della quale non c'è remissione dei peccati, è, per così dire, l'opera propria dello Spirito santo, con la cooperazione, s'intende, del Padre e del Figlio, poiché lo Spirito santo è, egli stesso, in un certo senso, la società del Padre e del Figlio. Infatti, il Padre non appartiene allo stesso modo al Figlio e allo Spirito Santo, perché non è di entrambi, mentre lo Spirito santo appartiene allo stesso modo al Padre e al Figlio, perché è l'unico spirito di tutti e due».[7]
    L'analogia del tempio tuttavia si presta a un'interpretazione dualista che non rende chiaramente l'unità. Giustamente scrive Pannikar: «L'immanenza di Dio è qualcosa di completamente diverso dalla sua inabitazione in noi. Il Dio immanente non ha bisogno di affittare un posto nell'anima o di aspettare pazientemente che gli si trovi qualche cantuccio nell'intimo dove possa installarsi. L'idea che Dio risieda nell'anima è soltanto un pallido e lontano riflesso della vera immanenza».[8]
    È un processo di unificazione fino a divenire trasparenza di un Presente, unità non divisa. Quando Gesù diceva: «Io e il Padre siamo una cosa sola» non esprimeva solo l'unità operativa, ma anche l'unione vitale, l'esistere per la presenza di un Altro, il divenire trasparenza. «Chi vede me, Filippo, vede il Padre... Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me, ma il Padre che dimora in me è lui che fa le opere. Credete a me quando vi dico che io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro credetelo per le stesse opere» (Gv 14,9-11). Più noi siamo in comunione con Dio, attraverso gli altri, più diventiamo tempio di Dio, trasparenza e manifestazione di Dio.

    Spiritualità contemplativa: Dio sempre oltre le cose

    Anche l'apofatismo ha le sue dimensioni spirituali. La vita cristiana non può esaurirsi nell'azione rivelatrice dì Dio. Il carattere trascendente di Dio rivelato in Gesù implica la tensione contemplativa che la spiritualità cristiana porta con sé. Il termine è avvolto dal silenzio e non ci sono possibilità di infrangere la limitata struttura d'informazioni entro la quale l'esistenza umana si svolge. La spiritualità trinitaria tende al silenzio proprio perché si muove in contesto apofatico. «Ogni tentativo di parlare del Padre in se stesso implica una contraddizione, giacché ogni parola sul Padre può solo riferirsi a colui del quale il Padre è Padre, vale a dire, al Verbo, al Figlio. E necessario rimanere in silenzio. Le più disparate tradizioni religiose ci insegnano che Dio è Silenzio».[9]
    Il ricupero della dimensione contemplativa corrisponde al passaggio da una spiritualità cristonomica a una spiritualità trinitaria, da una spiritualità fondata sulla teologia catafatica ad una teologia apofatica. I periodi di intensa attività apostolica a volte si sono caratterizzati per la dimenticanza della dimensione contemplativa dell'esistenza. Le opere hanno sostituito l'ascolto. Il fare ha presunto di rimpiazzare l'essere. Gesù ricordava ai suoi che anche nell'azione non è importante ciò che si fa, ma chi si diventa: «Non rallegratevi perché i demoni vi obbediscono, ma perché i vostri nomi sono scritti nel cielo» (Le 10,20). L'azione di Dio si mostra a chi sa guardare al di là delle apparenze, delle cose che si vedono.
    Il verbo contemplare (theorein) significa cogliere il reale oltre le cose, la profondità oltre la superficie, il centro attorno a cui ogni evento si compie (questo è il verbo della mistica!). Contemplare significa allora vivere alla Presenza di Dio, coglierne la Presenza in ogni circostanza, cogliere l'oltre delle cose.
    Il significato dell'agire umano non sta nelle realizzazioni, ma nella rivelazione di Dio, nel renderlo presente dove il peccato lo ha reso assente o nel grado in cui la creazione non è stata ancora capace di accoglierlo.

    Spiritualità missionaria

    Se accettiamo il modello dell'incarnazione possiamo affermare che l'azione umana è assolutamente necessaria per la salvezza dell'uomo come emergenza dell'azione salvifica di Dio. Ma non in quanto l'azione è esecuzione di opera o fedeltà alla legge o in quanto ragione di merito presso Dio, ma in quanto luogo del divenire umano. Attraverso la sua azione l'uomo diventa se stesso e consente alla forza vitale di esprimersi efficacemente. Tutte le azioni umane in questa prospettiva possono essere salvifiche: pensieri, desideri, decisioni frustrate, opere fallite. Non sono quindi le opere dell'uomo, ma le sue azioni e il suo divenire a tracciare la storia salvifica. L'uomo vivente e non le costruzioni del suo ingegno sono la salvezza realizzata, la gloria di Dio. La vita cresce solo se è in processo, se fluisce e non è trattenuta da chi l'ha avuta. Cresce solo se è offerta permanente fatta agli altri. È questa la radice della missionarietà: il bene è ricevuto come dono e, come tale, deve essere trattato, e quindi donato.
    L'azione salvifica di Dio non si esprime soltanto nella azioni singole dell'uomo, ma anche nelle decisioni sociali e nelle azioni comunitarie. Anzi, quando la storia procede e diventa complessa, richiede strutture più ampie e ricche di condivisione, di giustizia, di pace, ecc. La crescita della persona e le sue azioni sono alimentate dai rapporti e dalle strutture sociali in cui la persona è inserita. La creazione perciò di adeguate strutture sociali è la condizione dell'azione salvifica di Dio. Le strutture sociali sono componenti della storia salvifica non in quanto opere dell'uomo ma in quanto luogo di emergenza dell'azione salvifica di Dio secondo la legge della incarnazione.
    Il servizio che caratterizza l'esistenza cristiana non è un semplice dovere morale o un'imposizione della legge evangelica: è il fluire operativo di una presenza amorosa: «avendo amato i suoi li amò sino alla fine» (Gv 13,1). L'urgenza della missione non deriva da una doverosa risposta ad una chiamata divina, da un impegno morale o da una volontà di diffondere la verità. Ma dalla necessità assoluta di rendere presente Dio dove è assente, di testimoniare il suo amore dove non è efficace.
    La missione non consiste nel fare molte cose o nel convincere a diventare cristiani, ma nel testimoniare la verità di Dio (che c'è una Vita che mi precede e che mi attraversa) e l'efficacia del Vangelo (che la via indicata da Gesù conduce alla pienezza della Vita); la missione consiste perciò nel rivelare Dio come Padre misericordioso sorgente della Vita e nell'offrire vita perché tutti gli uomini possano pervenire all'identità di figli di Dio, alla pienezza della vita, che è la salvezza (Gv 10, 10). Ciò è possibile creando comunità capaci di portare il peccato del mondo e testimoni dell'amore di Dio che salva.


    NOTE

    [1] GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Pontificia Accademia delle scienze, 27 aprile 2001, n.2.
    [2] J. MOLTMANN, Trinità e Regno di Dio. La dottrina su Dio, Queriniana, Brescia 1983, p. 212. C'è da chiedersi se l'esperienza di comunità deve condurre a scoprire il significato di formule trinitarie o, viceversa, se sono queste a indicare comportamenti umani. Bruno Forte osserva a Moltmann: «Il senso della trascendenza dei mistero trinitario immanente mette in guardia da troppo immediate deduzioni fatte a partire da esso per la vita degli uomini». (B. Forte, Trinità come storia, op. cit., p. 87).
    [3] L. BOFF, Trinità e società, Cittadella Ed., Assisi 1987, p. 188. L. BOFF, A Santissima Trindade è a melhor comunidade, Vozes, Petrópolis 1988.
    [4] La tesi di E. PETERSON, Der Monotheismus als politisches Problem in Theologische Traktate, München 1951, p.45-158; tr. it. Queriniana, Brescia 1983, edit. da G. RUGGIERI, Resistenza e dogma, p. 5-26, è stata anche recentemente ripresa e discussa. Cfr. J. MOLTMANN, Trinità e Regno di Dio. La dottrina su Dio, Queriniana, Brescia 1983, p. 204-216 («Al Dio Uno e Trino non corrisponde la monarchia di un sovrano, bensì una comunione fra gli uomini nella quale non si riconoscono privilegi e sottomissioni», p. 212); B. FORTE, Trinità come storia, op.cit., p. 13-24, 181-184; L. BOFF, Trinità e società, op.cit., p. 30-34; Y. CONGAR, Il monoteismo politico dell'antichità e il Dio-Trinità, in «Concilium», 15 (1981) n. 3, p. 56-65.
    [5] Questa sembra l'insufficienza di riflessioni di Bruno Forte (La Trinità e la comunità degli uomini, in Trinità come storia, p. 181-184): se è vero che «non può non esserci una relazione fra la storia eterna della comunione trinitaria e il processo storico di costruzione della famiglia umana» (p. 181), non ne consegue necessariamente che sia possibile cogliere questo legame in rapporto a ciascuna delle Persone divine nel suo relazionarsi alle altre nell'amore (ib.). Egli rimprovera a Moltmann di «non essere stato sempre fino in fondo coerente con questa prospettiva» (ib., p. 87). Ma occorre individuare la ragione ultima di questa difficoltà. Non si può restare a metà strada. Cfr. anche B. DE MARGERIE, La Trinité chrétienne dans l'histoire, Beauchesne, Paris 1975: Famille, Eglise, dme humaine, analogies imparfaites, complémentaires et révélées de la Trinité divine, p. 367 s.
    [6] S. AGOSTINO, Sermone 71,12,18, citato nella traduzione di A. TRAPÉ, Introduzione teologica a S. Agostino. La Trinità, Città Nuova, Roma 1973, p. XLVII s. Il sermone 71 è probabilmente del 417.
    [7] S. AGOSTINO, Sermone 71,12,18 citato nella traduzione di A.Trapé, op.cit. Città Nuova, Roma 1973, p. XLVIII.
    [8] R. PANIKKAR, Trinità ed esperienza religiosa dell'uomo, op. cit., p. 62.
    [9] R. PANIKKAR, Trinità ed esperienza religiosa dell'uomo, Cittadella Ed., Assisi 1989, p. 81.


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