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     Amore

    Giuseppe Angelini



    1.
    Sembra che nel loro complesso, le parole stiano subendo una crisi inflattiva simile, e più grave, di quella della moneta. Valgono sempre meno, e sono spese sempre più indiscriminatamente.

    II processo riguarda anche la parola di cui qui ci occupiamo: «amore». Anche se, propriamente, l'inflazione in questo caso non riguarda tanto la parola, quanto l'idea corrispondente: essa spesso non è nominata mediante la parola esplicita di «amore», ma è chiaramente intesa. È ormai finito il tempo in cui tutte le canzonette avevano una rima in amore; ma anche senza quella rima, le canzonette alludono per lo più a quella faccenda.
    C'è dunque un'inflazione di «amore» nel nostro mondo: non nel senso che troppo si ami, ovviamente, ma nel senso che troppo precipitosamente ogni affetto è inteso come amore, e per ciò stesso è trattato come una cosa sacrosanta. E nel senso anche che tutto ciò che è fatto senza amore è considerato come «inautentico», e alla fine falso.
    L'esperienza umana più immediatamente riguardata é ovviamente quella del rapporto tra uomo e donna. Che cos'è «amore» in questo caso? Un sentimento, si dirà.
    Ma subito è inevitabile l'altra domanda: che cos'è un sentimento? Sentimento è - se cerchiamo di interpretare quello che per lo più la gente pensa e dice - una cosa che si sente. Amare vuol dire sentire. Spesso si usa questa perifrasi quasi ad evitare la parola troppo solenne di «amore»: sento qualcosa per lei, o per lui. E quindi si usa anche la negazione corrispondente, per dire che l'amore è finito: non sento più nulla. Questa negazione è intesa spesso come persuasiva giustificazione etica per la fine di un rapporto.

    2. L'amore è davvero un sentimento? È solo un sentimento? È compresa adeguatamente quella esperienza del rapporto tra uomo e donna, quando la si riduce a ciò che si sente?
    C'è anche l'altra perifrasi per spiegare che cos'è l'amore: amare vuol dire voler bene. Ma voler bene non è esattamente la stessa cosa che sentire un'attrattiva, e quindi sentirsi bene insieme. Al sentire non si comanda, si dice: ed è vero, in un certo senso. Il volere invece non accade, ma comporta decisione e scelta. E allora: amare è una cosa che accade, oppure è qualcosa che si sceglie? Probabilmente l'alternativa è impropria: è indispensabile che accada di sentire qualcosa perché si possa amare, ma è anche indispensabile scegliere e voler bene, perchè l'indefinito sentimento diventi amore.
    L'inclinazione oggi prevalente è però quella di ridurre l'amore a sentimento: e quindi di fare dell'amore non un impegno della libertà, ma il consumo di un'opportunità.

    3. Di amore si tratta non solo nel rapporto tra uomo e donna, ma in tutti i rapporti umani. Esso è appunto considerato un ingrediente essenziale di ogni relazione. Specialmente quando si tratti di rapporti umani diversi da quello tra uomo e donna, esso non è chiamato per lo più con ii nome solenne di «amore», ma con il nome più pudico di «sentimento», o magari addirittura di «spontaneità». Che una persona mi faccia qualche cosa «per piacere» - e cioè quasi accondiscendendo ad una mia richiesta, magari perchè si sente in debito nei miei confronti, o per qualsiasi altro motivo ma senza sentir piacere, senza spontaneità, in altre parole senza «amore» - è avvertito come cosa inautentica e magari offensiva: se devi farlo per farmi un piacere, è meglio che tu neppure lo faccia. Fanno eccezione, naturalmente, i rapporti professionali: in quel caso sono graditi anche i «piaceri», perché ciò che preme non è l'altro, ma soltanto l'opera dell'altro, o magari la cosa dell'altro. La richiesta di spontaneità, sentimento, amore, propria dei rapporti personali, induce a disprezzare la disciplina, la regola, la norma obiettiva, il dovere, quando si tratti di tali rapporti. È giusto? Oppure è troppo grossolana e semplicistica la contrapposizione tra spontaneità e dovere, tra sentimento e disciplina, tra amore e norma? II dubbio è legittimo, perché i sentimenti - e quindi anche l'amore quando è considerato come ciò che si sente - sono molto incerti, e magari spesso ambigui.

    4. Di amore si tratta - sempre nell'ottica della mentalità oggi diffusa - anche in rapporto a cose, e non a persone, o meglio, in rapporto ad esperienze che non hanno la forma della relazione interpersonale: «amore» diventa in tal senso sinonimo di «gradire». Per esempio: «amo Mozart», «amo la montagna», «amo la chiarezza», eccetera. Certe volte si ha l'impressione che il verbo «amare» sia usato con disinvoltura tanto maggiore, quando meno esso è pertinente, come accade appunto in questi casi. Qui esso vale quale dichiarazione di «gusti»; dunque, se dovessimo prendere in considerazione sul serio quest'uso, dovremmo concludere che l'amore è, neppure sentimento, ma semplice «affetto» e cioè, affezione psicologica positiva che può essere espressa mediante l'affermazione «mi piace».

    5. Le teorie dell'affettività umana proposte dalla psicoanalisi corrispondono in qualche modo all'inclinazione della mentalità diffusa che sopra abbiamo richiamato. Dei sentimenti «superiori», e quindi anche dell'esperienza umana complessiva, essi cercano spiegazione a partire da una rappresentazione fondamentale dell'inclinazione umana quale indistinta energia («pulsione», e nel caso specifico dell'amore «libido»), che solo successivamente troverebbe determinazione positiva nelle sue «intenzioni» attraverso l'esperienza spontanea della soddisfazione. Il piacere in questo o in quell'altro «investimento» istruirebbe la coscienza del soggetto circa le direzioni in cui cercare soddisfazione della pulsione nei comportamenti successivi. Il «principio del piacere» diventa il principio fondamentale del comportamento umano. La distinzione dal comportamento istintuale - in favore dei comportamenti che sono frutto della decisione e magari qualificati dal pregiudizio civile come comportamenti «superiori» o addirittura «morali» - sarebbe data soltanto dal «calcolo» del piacere. Esso infatti mette in conto, al di là della soddisfazione immediata, l'eventuale dispiacere ulteriore imposto dalla realtà («principio di realtà») al soggetto medesimo. Così la persona che sa moderare i suoi istinti, che sa comportarsi in maniera tale da non dipendere dalle immediate affezioni psicologiche piacevoli o spiacevoli, non è la persona più buona, ma la persona più accorta.

    6. Per ritrovare l'idea di «amore» propria della tradizione umanistica, o addirittura quella propria della fede cristiana (non sono ovviamente la stessa cosa, ma sono reciprocamente imparentate), occorre chiarire preliminarmente la questione più generale dei rapporti tra «affezione», «sentimento» e «virtù».
    Già Platone riconosceva, nella sua indimenticabile riflessione del Simposio, come l'eros (I'«amore» della tradizione culturale e filosofica greca) fosse una «divina mania», un'ispirazione dall'alto, che istruisce mirabilmente l'uomo a proposito di quel «bene», al quale l'uomo è per un lato ineluttabilmente rivolto, e dal quale per altro lato è ineluttabilmente distaccato. In tal senso Platone dice che «amore» è insieme figlio di «ricchezza» e «povertà», o forse più precisamente di «ingegno» (poros) e «miseria» (penia).
    La «bellezza» di colui al quale l'amore si rivolge, anticipando la libertà, è figura di altro, di ciò che gli uomini non vedono nè la mente comprende; è figura 'ascendente', che rimanda al di là da sè, grado per grado fino all—Uno" che sta al di là di ogni molteplice. Potremmo un po' audacemente - ma è audacia che spesso gli interpreti cristiani si sono consentiti - interpretare Platone dicendo: «amore» è presentimento di Dio, attraverso la figura offerta dalla creatura. Ma subito dovremmo aggiungere che il presentimento non può come tale essere riconosciuto ed esplicitato, se non attraverso la mediazione del libero consenso umano.
    Per tale consenso l'«amore» cessa d'essere accadimento passivo, spettacolo constatato, piacere passivamente fruito finchè è offerto, e diventa scelta ardua dell'inevidente, che solo si nutre dei segni offerti dalla evidenza. L'«amore» che giunge fino alla fine, fino al suo compimento, e non si ritrae pentito e spaventato di fronte all'asprezza della prova a cui è sottoposto, è riconosciuto dalla fede cristiana attraverso l'immagine offerta dall'uomo Gesù, l'«immagine» del Dio visibile (Col. 1 ,1 5). Non soltanto il cristiano riceve da Lui, Gesù, il comandamento dell'amore fino al dono della vita - e dunque di un amore non più condizionato dall'esperimento del vantaggio, non più sottoposto al «principio del piacere», ma capace di dedicarsi all'altro senza pentimenti - ma riconosce anche e soprattutto in Gesù il modello di tale amore perfetto.
    Ma, lo ripetiamo, la comprensione riflessa dell'amore cristiano (non a caso la tradizione scelse per esso un nome, agape, diverso da quello comune nella tradizione filosofica greca, eros), esige preliminarmente che si comprenda l'ambiguità dell'«amore» quale si dà nell'universale esperienza dell'uomo, e si accetti il compito che tale ambiguità propone all'intelligenza e alla libertà di ciascuno. La precipitosa comprensione dell'amore come inclinazione solo constatata, e in nessun modo scelta, conduce di necessità ad un amore infantile e «psichico», che mai sa decidersi, che mai sa donarsi.

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