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    Sulla preghiera

    Carlo Molari risponde a Emanuele Severino


    Il dilemma della preghiera
    Dove finisce la volontà dell'uomo di fronte alla volontà di Dio
    Emanuele Severino 

    Alla fine del Vangelo di Marco (16,16-17) Gesù dice: «Chi crederà sarà salvo, chi non crederà sarà condannato». Ma, prima di questa sentenza, il testo racconta come Gesù abbia unito strettamente e sorprendentemente il tema del credere a quello della preghiera. In quanto inseparabile dalla fede, la preghiera sta, dunque, al centro di ciò che più conta: la salvezza eterna. In quel testo Gesù dice: «Abbiate fede in Dio. In verità vi dico che se qualcuno dirà a questa montagna: "Togliti di lì e gettati nel mare" e non avrà alcun dubbio nel suo cuore, ma crederà che quel che dice s'abbia a compiere, questo gli accadrà. Perciò vi dico: tutte le cose che chiederete nella preghiera abbiate fede di ottenerle e le otterrete. E quando vi accingete a pregare, perdonate, se avete qualcosa contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli perdoni i vostri peccati». Chiedere a Dio qualcosa è pregare. Se si prega Dio di avere da lui qualcosa che egli non vuol dare, non si potrà mai essere esauditi. A Dio si può chiedere, dunque, solo quel che egli vuol dare. Si può volere solo quel che egli vuole. Se Gesù dice che chi crede sarà salvo, egli vuole la salvezza dell'uomo. Quel suo dire è, cioè, un comandare all'uomo di credere. Non lo lascia solo, dunque, a trovare la forza che lo porti a credere. Vuole che creda. E quindi, pregando, l'uomo deve innanzitutto chiedere, senza aver dubbi, di credere e otterrà di essere un credente, cioè salvo. E nemmeno spezza in due il Padre nostro, come se nella prima parte volesse che sia fatta la volontà di Dio, ma nella seconda gli dicesse quel che vuole lui, il pane quotidiano, la liberazione dal male ecc. Infatti, se Gesù gli comanda di chiedere il pane, è perché sa che il Padre vuole che l'uomo abbia il pane. Lo stesso si dica per gli altri doni richiesti. Anche per quello espresso dalle parole: «e perdona a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Infatti nella preghiera autentica l'uomo può chiedere di essere perdonato solo se sa che Dio vuole perdonarlo. La preghiera di Gesù contiene dunque anche l'implicazione, vincolante e compromettente, tra il perdono per i propri debiti, che un uomo chiede a Dio, e il perdono, da parte di quest'uomo, dei debiti che gli altri hanno nei suoi confronti. Perdonami come io perdono, dice quell'uomo. Egli chiede perdono perché sa che Dio vuole perdonarlo. Ma il suo perdonare i debiti che gli altri hanno contratto nei suoi confronti? Non può essere un gesto che riguardi soltanto lui, cioè dove Dio lo lasci solo a compierlo! Tutto questo significa che, quando, nella preghiera di Gesù, l'uomo chiede a Dio di perdonare i propri debiti come egli perdona quelli dei propri debitori, è necessario che l'uomo creda che Dio vuole che egli abbia la forza di perdonarli. Anche il perdono delle offese è, dunque, qualcosa che l'uomo chiede a Dio, sapendo che anche questa sua capacità di perdonare è voluta da Dio e che, quindi, egli la otterrà. L'uomo è salvo solo se ha fede nel Figlio di Dio. Ma la fede è inseparabile dalla volontà che vuole quello che è voluto da Dio e la preghiera è quel mettersi in rapporto con Dio, dove non solo si dice di volere quel che Dio vuole, ma lo si vuole effettivamente, cioè si perdona il prossimo, lo si ama e si fa tutto ciò che Dio prescrive. E, volendo tutto questo, si è convinti di ottenerlo, giacché chi crede di volere quel che è voluto da Dio non può pensare che Dio non sia capace di ottenere quel che vuole. Ma è anche necessario che chi vuole che sia fatta la volontà di Dio, sia convinto di essere il giusto, il buono, il santo perché, se fosse incerto di esserlo, sarebbe in dubbio anche sul proprio star volendo quel che Dio vuole. Convinto di essere il giusto che perdona le offese e ama il suo prossimo, chi prega nel modo dovuto agisce nel mondo e si imbatte in situazioni via via diverse, portando sempre con sé quella convinzione. Agisce nel mondo, cioè nella polis. La «politica» è appunto questo suo agire tra gli individui, le istituzioni, i gruppi sociali. Per Gesù la politica è innanzitutto perdonare le offese e amare. Ma che una certa azione sia un'offesa, una cert'altra sia un perdono o una forma di amore è chi agisce nel mondo a doverlo decidere! A questo punto chi presta ascolto alla parola di Gesù si trova davanti a due strade. O rinuncia a credere che il modo in cui egli decide di considerare offesa, perdono, amore certe azioni sia esso stesso un volere ciò che Dio vuole; oppure non compie questa rinuncia e crede che tutto quello che egli vuole e fa sia voluto da Dio. Nel primo caso, non può più credere - in relazione alle valutazioni e decisioni che egli, da solo, deve adottare nel mondo - nell'identità tra la volontà propria e quella di Dio: rinuncia a credere e, quindi, a pregare nel modo autentico; rinuncia, pertanto, alla propria salvezza. Nel secondo caso, crede che ogni sua azione privata o pubblica sia la volontà di Dio e che, quindi, egli sia il giusto, il buono, il santo che sa capire quando un'azione è offesa, perdono, amore e, dunque, sa realizzare il regno di Dio in terra. Certo, il cristiano si ritrae da entrambe queste strade, anche se entrambe sono una tentazione costante. Tenterà di andare un po' sull'una e un po' sull'altra. Ma proprio per questo non tradirà forse la propria fede e coerenza?

    (Corriere della sera - 30 settembre 2010)


    La logica della preghiera
    Carlo Molari

    La preghiera è uno degli atteggiamenti spontanei della religiosità umana. Come lo stupore di fronte al creato si traduce in preghiera di lode e la gioia dei doni ricevuti si esprime in ringraziamento, la condizione di necessità e l'esperienza della propria insufficienza diventano preghiera di domanda. L’esperienza del bisogno e la certezza di un possibile aiuto da parte di poteri trascendenti conduce all'invocazione. Secondo, quindi, i diversi aspetti dell'esperienza religiosa, esistono molte forme di preghiera: l'adorazione, la lode, il ringraziamento, l'invocazione di misericordia ecc. Spesso però gli atteggiamenti interiori che accompagnano la preghiera sono inadeguati, perché corrispondono a un'immagine di, Dio molto imperfetta. La preghiera di domanda, in particolare, si esprime spesso secondo moduli inadeguati e si presta perciò a facili ironie.
    Il 30 settembre scorso il filosofo Emanuele Severino ha pubblicato sul “Corriere della sera” un articolo (Il dilemma della preghiera), nel quale argomentava, col rigore che gli è proprio, alcune contraddizioni della preghiera di domanda. Un amico lettore di Rocca, inviandomi l'articolo, mi ha chiesto di proporre una riflessione per chiarire il problema, che egli stesso diceva di percepire. Lo faccio volentieri. L’argomentazione di Severino si riferisce esplicitamente alla preghiera di domanda, che è la più frequente nella pratica di molti credenti: «Chiedere a Dio qualcosa è pregare». Ma la sua riflessione si sviluppa in un orizzonte più ampio secondo cui la preghiera è: «mettersi in rapporto con Dio» in modo da volere e da realizzare ciò che egli vuole. Egli argomenta: «il credente è convinto di potere ottenere ciò che domanda, giacché crede di volere ciò che vuole Dio». Sarebbe infatti assurdo chiedere a Dio di volere e di realizzare ciò che è contrario alla sua volontà. D'altra parte il credente non può «pensare che Dio non sia capace di realizzare ciò che vuole». Se lo vuole, egli pensa, lo può anche realizzare. Il credente perciò è sicuro di essere esaudito quando chiede ciò che corrisponde alla volontà di Dio. Ora, secondo Severino, il credente pregando in questa prospettiva, si troverebbe di fronte a un dilemma insuperabile: o egli ammette che i desideri per la cui realizzazione prega non siano corrispondenti al volere di Dio, oppure presume che tutto ciò che egli vuole e opera corrisponda al volere di Dio. Nel primo caso dovrebbe rinunciare a pregare, perché non potrebbe mai essere esaudito. Dio infatti non può accogliere la preghiera di chi chiede cose opposte al suo volere. Nel secondo caso egli dovrebbe ritenersi «il giusto, il buono e il santo», perché «se dubitasse di esserlo dubiterebbe anche di volere quel che Dio vuole». Al credente non resta che vivere la preghiera in contraddizione, essere incoerente e tradire la propria fede, continuare cioè a invocare Dio, pur nel dubbio della legittimità della propria azione. Questo è il dilemma della preghiera secondo Severino.
    Credo che il pensiero di Severino sia molto coerente e l'interrogativo con cui termiina sia legittimo all'interno dei suoi presupposti. Ma questi, anche se corrispondono ai reali atteggiamenti di molti credenti, di fatto non sono esatti. Vorrei perciò chiarire come dovrebbe svilupparsi la preghiera di domanda, a quali atteggiamenti interiori dovrebbe alimentarsi e a quali risultati dovrebbe mirare.
    Prima di tutto non sempre il credente sa se quello che egli chiede corrisponda realmente al volere di Dio oppure no. Egli è consapevole infatti di essere peccatore e di volere,spesso ciò che non è bene anche quando è convinto che lo sia. Egli prega appunto invocando la luce per discernere il bene, e la forza per compierlo. La consapevolezza della propria insufficienza e del proprio peccato è una componente essenziale della vita spirituale e quindi della preghiera. Lo stesso Gesù riconosce di non essere buono se non per l'azione del Padre che opera in Lui. Per questo al giovane che lo interrogava chiamandolo «maestro buono», egli ribatte: «perché mi chiami buono? nessuno è buono se non Dio solo» (Lc 18, 19). Tanto più il credente deve in ogni preghiera invocare misericordia.
    Tra i due corni del dilemma proposto da Severino esistono quindi vie intermedie, che consentono di formulare la preghiera in modo coerente e in un corretto esercizio di fede, cioè con fiducia in Dio.

    Presupposti insufficienti

    L’ambiguità maggiore dell'argomentazione però risiede in tre presupposti impliciti, spesso diffusi anche fra i credenti, che meritano un maggiore approfondimento. Il primo è la convinzione che la preghiera di domanda abbia la finalità di far conoscere a Dio i nostri bisogni e sollecitarLo a fare qualcosa che non sta facendo. Il secondo è che Dio nel cosmo e nella storia umana possa operare in modo autonomo, oltre quanto già opera come creatore per mezzo delle creature e che la preghiera abbia lo scopo di spingerLo ad agire. Il terzo è che Dio possa nel cosmo attuare sempre e subito ciò che vuole. Questi tre presupposti non sono esatti.

    1. La preghiera, anche quella di domanda, non serve per far conoscere a Dio ciò di cui abbiamo bisogno né vuole sollecitarLo a fare qualcosa che non sta facendo, ma è ordinata a cambiare la persona che prega, perché essa stessa sia in grado di capire ciò che la vita esige e di realizzarlo. Pregare è mettersi in sintonia con l'energia creatrice che alimenta lo sviluppo della creatura e la rende capace di accogliere, esprimere e comunicare forza vitale in modo più profondo. La preghiera per l'esercizio della fede che implica, amplia la capacità di accoglienza della forza vitale da parte della persona, che diventa così capace di agire in modo nuovo. La preghiera in conclusione non cambia Dio ma l'uomo. Per questo bastano poche parole ma molta concentrazione. Diceva Gesù: «non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (Mt 6,8). La continuità della preghiera è necessaria sia per la durezza del cuore da cambiare sia per la ricchezza dei doni vitali da interiorizzare. Più infatti la persona cresce interiormente, più la vita si espande e aumenta l'esigenza di aprirsi al flusso dello Spirito per accogliere e far fiorire i suoi doni. Gesù insegnava a pregare sempre (Lc 18,1), non tanto dicendo formule quanto incontrando Dio.
    2. Nel cosmo e nella storia Dio non fa nulla in più di ciò che operano le creature. La forza creatrice non agisce accanto o al posto delle cose o delle persone, ma le alimenta in modo che esse siano e possano operare. L’uomo sviluppa pienamente la propria dimensione interiore quando vive secondo questa consapevolezza. La preghiera è appunto il metodo :per realizzare la piena sintonia con l'attiva presenza di Dio nella persona in modo da far fiorire compiutamente le sue diverse dimensioni. Il miracolo, perciò, deve essere interpretato come l'accoglienza in forma straordinaria dell'energia divina da parte della creatura. Il miracolo accade quando una persona o una comunità, pregando, si aprono allo Spirito e accolgono la sua azione in modo più ricco e profondo. In ogni caso è sempre la creatura ad operare il miracolo. Anche Gesù, quando guariva diceva: «La tua fede ti ha salvato».
    3. Siccome opera nel cosmo e nella storia sempre e solo attraverso creature, Dio assume i loro limiti sia spaziali che temporali. Egli esprime attraverso di loro solo ciò che esse sono in grado di portare. il dono di Dio perciò si sviluppa nel tempo e non può essere accolto totalmente in un istante. Dio, perciò nella storia umana e nel cosmo può esprimere la sua perfezione solo a piccoli frammenti nella successione degli eventi storici. Dio è onnipotente in sé e nel compimento finale quando sarà tutto in tutti (1 Cor 15, 38). Severino non dà valore al tempo come dimensione reale del creato.
    Per tutti questi motivi la preghiera richiede almeno due condizioni da parte della persona per essere significativa ed evitare i rischi della presunzione: la fede in Dio, la consapevolezza di essere creatura e la disponibilità a interiorizzare l'azione divina in modo da rivelarla nella propria vita.
    La fede in Dio creatore significa ritenere che il Bene urge per diventare in noi amore umano, che la Verità cerca di esprimersi in idee, che la Giustizia sollecita progetti di condivisione, che la Bellezza vuole assumere inedite forme create, e aprire il cuore con fiducia per accogliere la vita. Pregare è appunto registrare le proprie capacità percettive perché la forza creatrice giunta a livello umano possa dispiegarsi in tutta la sua portata. La vita non diventa mai possesso definitivo della creatura, ma viene sempre offerta e richiede per questo accoglienza continua. Tutto è dono e resta sempre tale. L’uomo non diventa mai il Vivente. La condizione per realizzare una interiorizzazione piena è la consapevolezza che la creatura è un nulla attraversato continuamente da una forza creatrice, un vuoto che risuona sempre di una Parola originaria. Quando la persona opera con tale convinzione, si lascia investire dalla forza creatrice e consente alla Parola di attraversarla, rendendola viva. Anche le sue contraddizioni pian piano si dileguano. La preghiera esercita allora la sua completa funzione.

    (Rocca, 15 novembre 2010)


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