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    L'esperienza "storica"

    della risurrezione

    di Gesù

    Rinaldo Fabris

    risurrezionetintoretto
    In nessun testo canonico si racconta la risurrezione di Gesù. Solo nello scritto apocrifo, noto come Vangelo di Pietro, si descrive la risurrezione di Gesù che in piena notte esce dal sepolcro, accompagnato da due figure grandiose, davanti agli occhi attoniti dei capi Giudei, del centurione romano e dei soldati di guardia. In uno scenario apocalittico Gesù lascia il sepolcro e ascende al cielo, seguito da una croce (Ev.Pt. IX-X,34-42). Non ha senso chiedersi "quando" e "dove" è avvenuta la risurrezione di Gesù. L'indicazione temporale, "il primo giorno della settimana", riguarda l'esperienza di Maria di Magdala e delle altre donne che, dopo il sabato, al mattino presto, si recano al sepolcro di Gesù e lo trovano aperto e vuoto. Nella tradizione che sta alla base dei racconti dei Vangeli, la tomba vuota è un segno che Gesù è risorto. La risurrezione di Gesù non coincide con la sua uscita dal sepolcro come nel caso di Lazzaro. L'autore del quarto Vangelo accosta i due eventi per mettere in risalto la novità della risurrezione di Gesù. A differenza di Lazzaro, che torna a morire, Gesù, risorto dei morti, non muore più, vive per sempre in rapporto con Dio (cf. Rm 6,9). La realtà della risurrezione di Gesù, come azione potente di Dio, sta oltre l'orizzonte della storia umana, scandita dalle dimensioni del tempo e dello spazio. Della risurrezione di Gesù si possono cogliere gli effetti dentro la storia umana, dove stanno quanti lo hanno conosciuto e visto morire in croce. Sotto questo profilo si parla dell'esperienza "storica" della risurrezione di Gesù. I due percorsi d'indagine, indicati dalla tradizione che sta a monte dei documenti cristiani sulla risurrezione, sono l'esperienza del sepolcro e quella delle apparizioni di Gesù risorto. Applicando ai dati attestati dalla tradizione i criteri della ricerca storica, si può verificarne l'attendibilità.

    1. Storicità della tradizione della tomba vuota

    La documentazione relativa all'esperienza della tomba di Gesù si trova solo nei Vangeli. Nella sua testimonianza sulla risurrezione di Gesù, Paolo accenna alla sepoltura dopo la morte, ma non dice nulla della tomba vuota in rapporto all'esperienza di risurrezione. Solo nei quattro Vangeli si ha una testimonianza concorde, ma non uniformata, della visita di Maria di Magdala e di altre donne del seguito di Gesù che, al mattino del primo giorno della settimana, vanno alla sua tomba a Gerusalemme e la trovano aperta e vuota (Lc-Gv). Si tratta di una tradizione sorta nell'ambiente culturale siriaco-palestinese, perché l'espressione il "primo giorno della settimana" è estranea al modo di computare il tempo nel mondo greco-romano. Si potrebbe pensare anche alla diaspora giudaica, dove, nei primi decenni della storia del movimento cristiano, sono sorte comunità cristiane nelle grandi città, soprattutto per iniziativa di Paolo. Nella prima Lettera ai Corinzi si parla del "primo giorno della settimana" – katà mían sabbàtou – a proposito della raccolta di fondi a favore dei fratelli di Gerusalemme (1 Cor 16,2). Questa espressione temporale, di matrice ebraica, potrebbe alludere al ricordo dell'esperienza della risurrezione di Gesù, connessa con la scoperta della sua tomba, trovata aperta e vuota a Gerusalemme "il primo giorno della settimana". Negli Atti degli apostoli si racconta che la comunità cristiana di Troade, assieme a Paolo, si riunisce "il primo giorno della settimana" – en tê miâ tôn sabbàtōn – per spezzare il pane (At 20,7). Nel testo lucano l'espressione temporale richiama quella della visita delle donne alla tomba di Gesù a Gerusalemme (Lc 24,1). In questo caso Luca attesta che nelle comunità cristiane, sorte nella diaspora giudaica grazie all'azione missionaria di Paolo, la riunione, in cui si fa memoria di Gesù risorto, avviene nel "primo giorno della settimana". Nel racconto lucano dei due discepoli di Emmaus il riconoscimento di Gesù risorto avviene nello spezzare il pane (Lc 24,30-31.35).
    Un argomento a favore dell'attendibilità storica dell'esperienza della tomba di Gesù, trovata aperta (e vuota) a Gerusalemme, è il fatto che protagoniste sono le donne, Maria di Magdala e altre donne, che hanno assistito alla morte di Gesù e alla sua sepoltura. Questo fatto crea un certo imbarazzo nella tradizione documentata nei Vangeli di Luca e Giovanni, dove si cerca di integrare o sostituire la testimonianza di Maria di Magdala e delle altre donne con quella di Simon Pietro e di alcuni discepoli che vanno a vedere la tomba di Gesù. D'altra parte il fatto della tomba di Gesù, trovata aperta e vuota, nella tradizione comune dei Vangeli è avvertito come un segno ambivalente, che ha bisogno di essere interpretato. Nella tradizione sinottica il racconto della tomba è incentrato sull'annuncio di un angelo – due in Luca – che interpreta la tomba vuota come segno che Gesù, il Nazareno, il crocifisso, è risorto. Nel quarto Vangelo il racconto della visita al sepolcro di Simon Pietro e dell'altro discepolo, quello che Gesù amava, si conclude con una nota redazionale, dove si afferma che la fede nella risurrezione di Gesù dai morti non si fonda sull'ispezione della tomba, ma sulla Scrittura (Gv 20,9). L'esperienza della tomba vuota non cambia la vita dei due discepoli, che tornano a casa loro (Gv 20,10; cf. Lc 24,12).
    L'attendibilità storica del ricordo della tomba vuota di Gesù a Gerusalemme sarebbe confermata dal fatto che nei primi tempi essa non è un luogo venerato. I primi testimoni della risurrezione di Gesù non fanno della sua tomba un luogo di culto, come avviene per le tombe di altri fondatori di movimenti religiosi. Questo fatto potrebbe essere connesso con la tradizione biblica, dove si tende a nascondere la tomba di Mosè, perché non diventi un luogo di culto (Dt 34,6). Invece nella tradizione giudaica sono note e venerate le tombe dei profeti e dei giusti (cf. Mt 23,29; Lc 11,47). In questa prospettiva, il racconto di Mc 16,18 sarebbe l'eco di una celebrazione della comunità cristiana presso la tomba di Gesù. Questa ipotesi però non trova riscontro nella testimonianza dell'opera lucana, dove la tomba non è il luogo dove si deve cercare Gesù che è vivo. Nel discorso del giorno di Pentecoste, parlando ai Giudei abitanti di Gerusalemme, Pietro contrappone la tomba di Gesù a quella dove è sepolto il re Davide, «che è ancora oggi fra noi» (At 2,29). Alla luce della Scrittura – Sal 15; 132 – Pietro interpreta la tomba vuota di Gesù come segno che il Messia, discendente di Davide, «non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide la corruzione» (At 2,31; cf . 13,14.35-36).
    Nel Vangelo di Matteo la tomba vuota di Gesù a Gerusalemme è un segno ambivalente, interpretato in modi contrapposti nella tradizione cristiana e in quella giudaica. Per i Giudei di Gerusalemme – "capi dei sacerdoti e anziani" – la tomba di Gesù è vuota perché i suoi discepoli ne hanno trafugato di notte il corpo, per proclamare davanti al popolo che egli è risorto dai morti (Mt 28,11-15; 27,64). Nella polemica tra la comunità cristiana di Matteo e i rappresentati del giudaismo, non si menzionano altre ipotesi per spiegare il fatto della tomba di Gesù, trovata vuota a Gerusalemme. Solo nel racconto del quarto Vangelo, Maria di Magdala pensa che qualcuno abbia preso il corpo di Gesù per portarlo altrove. In nessun testo della prima tradizione cristiana si accenna alla possibilità che non esista la tomba di Gesù a Gerusalemme, perché il suo corpo sarebbe finito nella fossa comune riservata come estrema infamia ai crocifissi. Questa ipotesi è smentita dalla testimonianza concorde dei Vangeli, dove si parla della sua sepoltura per iniziativa di un notabile giudeo di Arimatea – Giuseppe – che non fa parte dei discepoli di Gesù. Nella Giudea occupata, i Romani rispettano la consuetudine degli Ebrei di dare sepoltura ai corpi dei crocifissi (G. Flavio).
    In conclusione, la testimonianza dei Vangeli sulla tomba di Gesù a Gerusalemme, trovata aperta e vuota all'indomani della sua morte e sepoltura, non è stata finora smentita sulla base di dati sicuri e argomenti stringenti. Il fatto che la tomba, dove è stato deposto il corpo di Gesù dopo la sua morte in croce, sia stata trovata vuota può essere interpretato in modi diversi. In ogni caso non può essere inteso come evento creato dalla fede in Gesù risorto. Secondo l'antropologia giudaica la risurrezione riguarda il corpo della persona morta. Sarebbe impossibile proclamare che Gesù è risorto, se il suo corpo fosse ancora nella tomba dove è stato deposto. La tomba di Gesù a Gerusalemme doveva essere ad ogni costo vuota, perché altrimenti non si sarebbe potuto annunciare la sua risurrezione dai morti. Questa spiegazione della tomba vuota – sarebbe stata inventata dai predicatori cristiani – non sta in piedi, perché le prime testimonianze su Gesù Cristo risorto nell'area siro-palestinese – 1 Cor 15,3-5 – prescindono dalla tomba in cui è stato sepolto il suo corpo.

    2. La storicità delle "apparizioni" di Gesù

    Sulle "apparizioni" di Gesù risorto le testimonianze sono molteplici e diversificate. Si elencano circa dodici apparizioni, sommando quelle dei Vangeli con quelle degli Atti degli apostoli e delle Lettere di Paolo. Al primo posto è menzionata l'esperienza di Cefa o Simon Pietro, associato, nell'elenco di Paolo, al gruppo dei "Dodici" (1Cor 15,5). Nei Vangeli di Matteo e di Luca lo stesso gruppo di discepoli è chiamato "gli Undici", perché manca il dodicesimo, Giuda, del quale si racconta la fine tragica. Nell'elenco delle apparizioni di Paolo non compaiono le donne, presenti invece nel racconto di apparizione di Gesù risorto del Vangelo di Matteo. Nella finale canonica di Marco si dice che «risorto al mattino, il primo giorno dopo il sabato, Gesù apparve prima – próton – a Maria Maddalena...» (Mc 16,9). La priorità attribuita a Maria di Magdala dipende dal quarto Vangelo, dove si racconta la sua ricerca del corpo del Signore e l'incontro con Gesù risorto nel giardino presso la tomba, a Gerusalemme (Gv 20,11-18). Da questa tradizione dipende anche quello che dice il "giudeo", informatore di Celso.
    Oltre all'apparizione a Cefa e ai Dodici, Paolo segnala un'apparizione collettiva "a più di cinquecento fratelli in una sola volta", e una singola «a Giacomo» (1Cor 15,6-7) [1]. Nei Vangeli canonici non si parla dell'apparizione a Giacomo. Questa invece è ricordata in un frammento del Vangelo secondo gli Ebrei, riportato da Girolamo: «Dopo aver dato il sudario al servo del sacerdote, il Signore andò da Giacomo e gli apparve». Giacomo infatti aveva detto che, dopo avere bevuto al calice del Signore, non avrebbe più preso cibo fino a quando non l'avesse visto risorto dai morti. Il testo del Vangelo apocrifo, secondo Girolamo, continua: «Dice il Signore: "Preparate la mensa e il pane". E subito prese il pane, benedisse e lo spezzò e lo diede a Giacomo, il giusto, e gli disse: "Fratello mio, mangia il tuo pane, perché il figlio dell'uomo è risorto dai morti"» (Girolamo, De viris illustribus 2; PL 23, 641B-643A).
    Nell'elenco della prima Lettera ai Corinzi, Giacomo è unito al gruppo di "tutti gli apostoli". Nella Lettera ai Galati Paolo ricorda di aver incontrato Giacomo, "il fratello del Signore", a Gerusalemme, assieme all'apostolo Cefa-Pietro e Giovanni (Gal 1,19; 2,9). Nella stessa Lettera riconosce il ruolo autorevole di Giacomo, che condiziona il comportamento di Cefa (Pietro) e degli altri giudeo-cristiani nella chiesa di Antiochia (Gal 2,11-14). Nella prima Lettera ai Corinzi, Cefa è menzionato assieme agli altri apostoli e ai "fratelli del Signore" (1Cor 9,5). Il rapporto e il ruolo di Pietro e di Giacomo nella chiesa di Gerusalemme sono confermati dall'autore degli Atti degli apostoli (At 12,17; 15,13; cf. 21,18). Dato questo alto profilo di Giacomo nei documenti delle origini cristiane, la presenza del suo nome, accanto a quelli di Cefa e di Paolo, tra i destinatari delle apparizioni di Cristo risorto, poggia su una tradizione storicamente molto attendibile [2].
    Nell'elenco di Paolo non s'intravede un ordine cronologico preciso delle sei apparizioni. Sembra che la sua elencazione seriale – eîtaépeita...épeita... eîta – non segua un ordine di successione temporale, come risulta dall'introduzione della sua esperienza, collocata alla fine in rapporto con la sua condizione di "apostolo": «Ultimo fra tutti apparve anche a me... infatti sono il più piccolo tra gli apostoli» (1Cor 15,8.9). La sequenza delle apparizioni riportata da Paolo non offre nessun appiglio per collocarle a Gerusalemme o in Galilea, come nei racconti dei Vangeli. Da altre testimonianze risulta che l'apparizione di Cristo risorto a Paolo avviene nei dintorni di Damasco. Quello che Paolo scrive nella Lettera ai Galati della "rivelazione di Gesù Cristo", il Figlio di Dio – «poi ritornai a Damasco» (Gal 1,17) – coincide con la testimonianza lucana negli Atti degli apostoli, dove si racconta la sua visione del Signore Gesù sulla via di Damasco: «Mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco...» (At 9,3; cf. 22,6; 26,12-13). Nei Vangeli i racconti di apparizione di Gesù risorto ruotano attorno ai due poli geografici: Gerusalemme e la Galilea. A Gerusalemme si ha l'esperienza centrata attorno alla tomba di Gesù, nella quale hanno un ruolo preminente le donne, Simon Pietro e alcuni discepoli. L'esperienza dei discepoli riuniti con gli "Undici" o i "Dodici", oscilla tra Gerusalemme (Lc-Gv) e la Galilea (Mt).
    Sulla base degli elementi delle diverse e molteplici testimonianze si può tentare di ricostruire lo sviluppo dell'esperienza della risurrezione di Gesù. Dopo la morte e la sepoltura di Gesù al venerdì sera, vigilia del sabato, i discepoli e le donne si fermano a Gerusalemme per la festa di Pasqua-azzimi, dal 15 al 21 di Nisan. Nel "primo giorno della settimana", dopo il sabato, alcune donne vanno al sepolcro di Gesù e lo trovano aperto e vuoto. Anche Pietro con altri discepoli va a vedere il sepolcro di Gesù e costata la stessa cosa. Le prime esperienze di apparizione-incontro di Gesù risorto avvengono a Gerusalemme. Gesù, il Signore, appare prima a (Simon) Pietro, poi ai Dodici, riuniti con altri discepoli, comprese le donne. Le esperienze di apparizione-incontro di Gesù risorto si ripetono in Galilea, dove Pietro e i discepoli sono ritornati dopo la festa di Pasqua-azzimi. Qui Gesù appare a diversi gruppi di discepoli e agli Undici. In occasione della festa pellegrinaggio di Pentecoste – sette settimane dopo la Pasqua – i discepoli, con le donne e i parenti di Gesù, si recano a Gerusalemme. Dalle Lettere di Paolo e dal racconto lucano degli Atti degli apostoli risulta che Gerusalemme è il punto di riferimento del nuovo movimento imperniato sulla fede in Gesù Cristo, il Signore risorto. Su Gerusalemme converge anche l'esperienza di Paolo, nato a Tarso in Cilicia, ma educato nella capitale della Giudea. Dopo l'esperienza di rivelazione-visione di Gesù Cristo risorto, nei pressi di Damasco, Paolo si reca a Gerusalemme, dove incontra Cefa (Pietro) e Giacomo.

    3. La realtà dei racconti di apparizione di Gesù risorto

    Nella storia dell'interpretazione dei Vangeli, dal filosofo Celso fino ai critici dell'epoca moderna e Contemporanea, sono state formulate diverse teorie per spiegare il fenomeno delle apparizioni di Gesù risorto. Le più comuni e diffuse sono quelle che fanno leva sulla psicologia individuale e collettiva. L'esperienza di Pietro sta all'origine della suggestione di tutti gli altri. Si tratterebbe di un caso classico di elaborazione del lutto, con l'aggiunta del complesso di colpa per il rinnegamento di Gesù. Invece per Paolo, che non ha conosciuto direttamente Gesù, la "rivelazione", fatta risalire all'iniziativa di Dio, sarebbe il punto di arrivo di una crisi di coscienza, connessa con la sua attività di persecutore dei seguaci del falso Messia, morto in croce a Gerusalemme. Per tutti i discepoli, a partire da Maria di Magdala e dal gruppo delle donne di Galilea, entra in gioco uno stato alterato di coscienza. Nei discepoli di Gesù, il trauma della sua morte in croce provoca una grande emozione, che sta all'origine delle loro visioni-allucinazioni individuali e collettive. Chi cerca di spiegare in questo modo le apparizioni di Gesù risorto legge e interpreta in modo corretto i testi dei Vangeli che ne parlano? Per rispondere a questo interrogativo si devono ripercorre ancora una volta i racconti dei Vangeli, per coglierne la dinamica e l'intenzione primaria.
    I racconti di apparizione di Gesù risorto seguono uno schema o modello fisso. L'iniziativa parte da Gesù che entra, sta in mezzo, si manifesta, si avvicina ai discepoli, compie alcuni gesti per farsi riconoscere, e prende la parola. Nella testimonianza di Paolo l'iniziativa risale a Dio, che gli rivela il Figlio suo. I destinatari delle apparizioni di Gesù risorto – Maria di Magdala, le donne, i discepoli – non sono ansiosi di incontrarlo né pensano di poterlo vedere. Nel racconto del quarto Vangelo si dice che Maria di Magdala è tutta presa dal dolore per la morte di Gesù. I due discepoli di Emmaus sono tristi per la delusione e la fine della loro speranza messianica. Nella finale canonica di Marco si dice che Mariadi Magdala, dopo la prima apparizione di Gesù risorto, va ad annunciarlo ai discepoli «che erano in lutto e pianto» (Mc 16,10). Nell'incontro con Gesù risorto, i discepoli passano dallo sconvolgimento e dalla paura allo stupore e alla gioia. Solo alla fine si prostrano in adorazione nel pieno riconoscimento del Signore risorto (Lc). Nel racconto di Matteo, fin dall'inizio gli Undici, quando vedono Gesù si prostrano in adorazione, ma nello stesso tempo sono presi dal dubbio. Solo Gesù, che si avvicina e parla loro, dissipa ogni ombra del dubbio. Nel racconto del quarto Vangelo i "Dodici", che sono chiusi in una stanza, con le porte sbarrate per paura dei Giudei, gioiscono al vedere il Signore. Nei vari racconti di apparizione si pone in risalto il fatto che l'esperienza d'incontro dei discepoli con Gesù risorto deriva da un'iniziativa "esterna", che fa superare le loro resistenze.
    Per cogliere l'intenzione primaria dei racconti di "apparizione" di Gesù risorto, si deve tener conto del loro genere letterario. Mentre nei racconti della visita al sepolcro, chi dà l'annuncio di Gesù risorto alle donne si presenta con tratti teofanici – "vestito di bianco", "il volto luminoso come folgore", "in abito sfolgorante" –, nel racconto dell'apparizione di Gesù risorto, questi elementi, tipici delle visioni apocalittiche, non compaiono. Nei racconti di "apparizione" di Gesù si dice semplicemente che egli "apparve", "fu rivelato", "si manifestò", "si accostò", "venne", "stette in mezzo". I discepoli "lo videro", "lo riconobbero". Non si presenta né l'aspetto del volto né la condizione del corpo di Gesù risorto. Nei racconti dei Vangeli di Luca e Giovanni, dove si richiama l'attenzione sul realismo del corpo di Gesù risorto e si pone l'accento sull'identità del Signore con Gesù crocifisso, non si descrive la sua figura. Per farsi riconoscere dai discepoli come il "crocifisso", Gesù mostra loro le mani e i piedi (Lc) o le mani e il fianco (Gv).
    Per raccontare le apparizioni di Gesù risorto ai discepoli, gli autori del Nuovo Testamento hanno a disposizione alcuni modelli narrativi sia nella tradizione biblico-giudaica sia nell'ambiente greco-romano. Nella Bibbia i racconti di visione, apparizione-incontro con persone morte sono censurati. Nella Toràh si condannano severamente le pratiche di consultazione dei morti, considerate un abominio come l'idolatria (Dt 18,10-12; cf. Lv 19,31; 20,6.27) [3]. Sono invece noti nella Bibbia i racconti di apparizione–visione di Dio, il Signore, o del suo angelo, che si manifesta e parla ai patriarchi, a Mosè e ai profeti. Ma nel caso delle apparizioni di Gesù risorto si tratta di una persona concreta, conosciuta dai protagonisti prima della sua morte. Solo Paolo, che non ha avuto rapporti diretti con Gesù di Nazaret, parla della «conoscenza eminente di Cristo Gesù, mio Signore» (Fil 3,8; cf. 2Cor 5,16).
    Nell'ambiente greco-romano circolano a livello popolare e letterario racconti di persone morte, che appaiono a parenti e amici, del ritorno di persone care – figlie, spose, amanti – dal regno dei morti e della visita di divinità nel mondo umano. Il "giudeo" informatore di Celso richiama alcuni racconti di carattere leggendario per screditare le apparizioni di Gesù risorto. Egli cita il caso di alcune persone che, dopo una dimora sottoterra per qualche tempo, riemergono facendo credere alla gente di essere immortali o ritornati dal regno dei morti. Nell'ambiente semitico è diffuso il mito di Tammuz, amante di Ishtar, che diventa Adonis nell'ambiente fenicio e Attis nella Frigia, mentre Ishtar s'identifica con Afrodite. Il mito di Tammuz-Adone, che passa una parte dell'anno con la divinità dell'Ade, Plutone, e una parte con Ishtar-Afrodite, rappresenta l'alternanza delle stagioni. Un significato analogo ha la leggenda di Persefone (Proserpina, dei latini), rapita da Plutone, re dell'Ade, che, dopo i sei mesi passati nel regno dei morti, riemerge per volere della madre Demetra, Cerere dei latini (Cicerone, De natura deorum 11,66; Ps-Apollodoro, Biblioteca 11,122). Le leggende e i miti dell'ambiente greco-romano, in rapporto ai racconti di apparizione di Gesù risorto, sono un motivo di polemica, più che fonte di ispirazione. Per prevenire le insinuazioni e i sospetti dell'ambiente greco-romano, dove l'incontro di Gesù risorto con i discepoli potrebbe essere scambiato per la visione di uno spirito o di un fantasma, Luca pone l'accento sul realismo del corpo di Gesù risorto, che si può toccare, ha carne e ossa; egli mangia una porzione di pesce arrostito e incontra i discepoli a mensa come una persona viva.
    L'interpretazione delle esperienze d'incontro con Gesù risorto da parte dei discepoli come fenomeni di suggestione e allucinazione individuale o collettiva, deve essere posta a confronto con la documentazione dei testi vagliati criticamente. Un'argomentazione a favore dell'attendibilità storica generale dell'esperienza della risurrezione di Gesù si fonda sul confronto con altre esperienze dell'ambiente giudaico contemporaneo. Dopo la morte dei capi carismatici dei movimenti di riforma religiosa o d'insurrezione antiromana in Galilea o in Giudea, di cui parla Flavio Giuseppe, i seguaci si disperdono o scelgono un altro leader. L'autore degli Atti degli apostoli riporta l'intervento di Gamaliele, maestro della legge e portavoce dei farisei, davanti al Sinedrio, dove Pietro e gli apostoli sono accusati di avere trasgredito l'ordine di non insegnare nel nome di Gesù. Dopo aver ricordato i due capi della rivolta antiromana, finiti nel nulla – Tèuda e Giuda, il Galileo – propone al Sinedrio di rimettere in libertà i due discepoli di Gesù, perché non accada di trovarsi «a combattere contro Dio» (At 5,34-39). Per Luca, il fatto che i discepoli di Gesù, dopo la sua condanna alla morte di croce, non si disperdano, ma trovino nuovo e più forte impulso per parlare in suo nome, si spiega solo con l'azione potente di Dio, che l'ha risuscitato dai morti e lo ha fatto incontrare "vivo" a quelli che sono stati con lui.
    L'interpretazione psicologica delle apparizioni di Gesù come allucinazioni non tiene conto del genere letterario dei racconti, del lessico e dei modelli religiosi e culturali utilizzati. Le testimonianze che precedono i racconti dei Vangeli non lasciano trasparire nessun processo psicologico assimilabile alla suggestione o allucinazione. Nel caso di Pietro l'affermazione: "Cristo apparve Cefa", "il Signore è apparso a Simon Pietro", non presuppone l'elaborazione del lutto, né il superamento di un trauma. Solo nei racconti del rinnegamento nella notte dell'arresto di Gesù, si parla del "pentimento" di Pietro. Nell'appendice del quarto Vangelo, si presenta l'incontro di Gesù risorto con Simon Pietro sullo sfondo del suo rinnegamento. La domanda di Gesù: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?», ripetuta tre volte, rimanda al suo triplice rinnegamento nel cortile del palazzo del sommo sacerdote. Nel racconto del quarto Vangelo la riabilitazione di Simon Pietro, nell'incontro con Gesù risorto, è in funzione del suo mandato pastorale. Nei Vangeli sinottici si raccontano il rinnegamento e il pentimento di Pietro per incoraggiare e sostenere il cammino di fede dei destinatari del Vangelo.
    Nel caso di Paolo, che non è stato al seguito di Gesù, per spiegare la sua visione del Signore o apparizione di Cristo, si ricorre alla teoria della "crisi di coscienza" del persecutore dei cristiani. Questa ipotesi potrebbe trovare uno spunto nei racconti lucani della "conversione" di Saulo, dove Gesù, che gli appare sulla via di Damasco, lo interpella: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4; cf. At 22,7; 26,14). L'immagine di Paolo, "convertito" da persecutore dei cristiani a predicatore del Vangelo, rientra nel progetto di Luca che vuole legittimare il suo ruolo di testimone nell'espansione del movimento cristiano. Nella tradizione paolina l'apostolo del Vangelo è presentato come il prototipo dei peccatori salvati dalla misericordia di Dio (1Tm 1,13-16). Invece nelle sue Lettere autentiche Paolo non adopera mai il lessico di "conversione" per parlare della sua esperienza d'incontro con Gesù Cristo, il Signore risorto, anche se riconosce apertamente di aver perseguitato la Chiesa di Dio. Nei brani autobiografici dell'epistolario paolino autentico non si riscontra nessun sintomo della crisi di coscienza. Paolo non ha mai rinnegato la sua appartenenza ebraica, né il suo impegno etico-religioso come fariseo (Gal 1,13-14; Fil 3,3-6; Rm 11,1)
    L'ipotesi dell'allucinazione o suggestione non si concilia con la dinamica dei racconti di apparizione di Gesù risorto ai discepoli. L'iniziativa "esterna" porta al superamento delle resistenze dei destinatari delle apparizioni. Dall'insieme delle testimonianze non risulta che i discepoli di Gesù aspettassero la sua risurrezione. Le sentenze di Gesù sul destino del Figlio dell'uomo sono troppo enigmatiche per fondare e alimentare nei discepoli l'attesa della sua risurrezione. Gli annunci sul Figlio dell'uomo, che "risusciterà al terzo giorno" o "dopo tre giorni", sono formulati alla luce dell'esperienza di fede post-pasquale. Per un giudeo del primo secolo dell'era cristiana, la categoria "risurrezione", riferita a una persona concreta, è ambivalente. Può significare che dopo la sua morte egli vivrà per sempre con Dio, oppure che risorgerà alla fine dei tempi per il giudizio ultimo (cf. Gv 11,24). Nell'esperienza d'incontro con Gesù risorto i discepoli non solo riconoscono che il crocifisso è risorto e vivo, ma scoprono la sua nuova identità. Chi si manifesta e li incontra in modo inatteso e improvviso è il Cristo, il Signore e il Figlio di Dio, che inaugura la risurrezione per tutti gli esseri umani. Perciò si afferma che Gesù Cristo è risorto "dai morti".
    Il processo di "riconoscimento" di Gesù risorto da parte dei discepoli non è solo un espediente letterario, mutuato dai modelli dell'ambiente biblico o greco-romano, ma trascrive un itinerario di fede, che va dal dubbio alla certezza, dalla paura alla fiducia. A differenza dei racconti di riconoscimento della Bibbia – il Signore, che appare ad Abramo alle querce di Mamre, l'angelo Raffaele nel libro di Tobia –, nel caso di Gesù risorto si tratta di una persona che i discepoli hanno conosciuto prima della morte, avvenuta a Gerusalemme alla vigilia di un sabato del tempo di pasqua, degli anni trenta. Il rapporto dei discepoli con Gesù prima della sua morte condiziona la loro esperienza della sua risurrezione e il modo di comunicarla agli altri. Quelli che sono stati con Gesù sono in grado di "riconoscere" nel Signore risorto l'annunciatoredel regno di Dio e il profeta che ha affrontato la morte come massimo segno di fedeltà a Dio e di solidarietà con gli uomini.
    Per "riconoscere" Gesù risorto, non basta constatare che egli è il crocifisso e che il suo corpo è reale. Nei racconti dei Vangeli di Luca e Giovanni il riconoscimento di Gesù, il Signore, non si fonda sulla constatazione fisica delle ferite del crocifisso o sulla verifica della sua corporeità. L'iniziativa di Gesù, con i suoi gesti e la sua parola, stabilisce la continuità tra la promessa di Dio, testimoniata dalla Scrittura, e la sua missione d'inviato di Dio. Il riconoscimento di Gesù risorto come il Signore sta alla base e all'origine della missione dei discepoli. Il rapporto dei discepoli con il Gesù terreno, richiamato dai suoi gesti e dalle sue parole, rende possibile il rapporto nuovo con il Signore risorto, ma a un altro livello, come fa capire l'incontro di Maria di Magdala presso la tomba. Quando i due discepoli di Emmaus, preparati dalla parola di Gesù, lo riconoscono nel segno del pane spezzato, non possono disporre della sua presenza come prima della sua morte.
    L'incontro che sfocia nel riconoscimento di Gesù come Cristo e Signore presuppone una sintonia con il suo annuncio del regno di Dio, nell'orizzonte delle promesse di Dio, attestate nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (Lc 24,44). In questa prospettiva si capisce perché Gesù risorto non si manifesta a tutti, ma solo a «testimoni prescelti da Dio», e ai discepoli che ascoltano le sue parole e le osservano, come parola di Dio (At 10,40; Gv 14,22-24). In una concezione "miracolistica" delle apparizioni di Gesù risorto, s'immagina che egli possa farsi vedere a quanti sono ostili e refrattari all'azione di Dio, che si rivela nella storia umana. Il "giudeo" che suggerisce le obiezioni al filosofo Celso, riguardo alle apparizioni di Gesù risorto, dice: «Se peraltro Gesù desiderava rivelare realmente una potenza divina, avrebbe dovuto farsi vedere da coloro che lo avevano oltraggiato e da colui che lo aveva condannato, in breve da tutti»» (Origene, Contro Celso II, 63). A questo riguardo è paradigmatica l'esperienza di Paolo. Da giudeo militante, impegnato nel sostenere le tradizioni dei padri, Paolo ha perseguitato ferocemente la Chiesa di Dio, tentando di distruggerla. Dio però, con la sua iniziativa gratuita, gli ha rivelato il "Figlio suo", aprendo una nuova prospettiva per la salvezza di tutti gli esseri umani (Gal 1,13-16). L'azione benigna e gratuita di Dio verso Paolo coincide con la sua illuminazione di fede, che gli fa riconoscere Gesù crocifisso come "il mio Signore". L'autore degli Atti degli apostoli distingue l'esperienza di Paolo, al quale è apparso il Signore sulla via di Damasco, non solo dalle apparizioni fondanti di Pietro e degli apostoli, ma anche dall'esperienza di quelli che sono con lui sulla via di Damasco. I compagni di viaggio di Paolo sentono la voce, ma non vedono nessuno, o viceversa vedono la luce, ma non percepiscono le parole (At 9,7; 22,9; 26,14). Con questi particolari narrativi, Luca fa capire che l'esperienza di rivelazione di Gesù risorto è riservata a Paolo.
    In che cosa consiste la "realtà" dell'esperienza della risurrezione di Gesù da parte dei suoi discepoli? Per rispondere a questo interrogativo, si deve affrontare una questione previa di carattere metodologico: si può passare dal piano letterario dei racconti di apparizione di Gesù risorto a quello della realtà vissuta dai protagonisti? Certamente chi ha raccolto le tradizioni e chi hanno redatto i racconti intende presentare esperienze "reali". Di quale realtà si tratta? In linea di massima si riconosce che qualche cosa è capitato tra il venerdì sera e la mattina del primo giorno della settimana. Grazie a questa esperienza, per i discepoli cambia il modo di percepire l'identità di Gesù e il loro rapporto con lui. Essi comprendono in un'altra prospettiva la sua attività terrena e il suo messaggio. Si modifica anche il loro modo di leggere e interpretare le Scritture ebraiche. In Gesù si compiono le promesse di Dio riguardo alla speranza messianica ebraica. Le apparizioni di Gesù risorto fondano una nuova identità dei discepoli che guardano al futuro. Si sentono responsabili di una missione universale, che va oltre i confini di Israele. Per esprimere la consapevolezza e la responsabilità della missione dei discepoli si fa ricorso alla categoria dello "Spirito di Dio", promesso dai profeti per gli ultimi tempi. La presenza e l'azione dello "Spirito di Dio" o "Spirito santo" corrispondono al dinamismo interiore, donato da Dio ai discepoli e ai credenti per mezzo di Gesù Messia e Signore, Figlio di Dio, costituito nella pienezza di suoi poteri (cf. Mt 28,18; Gv 20,22; At 1,8; Rm 1,4).
    Tenendo presente la specificità dell'esperienza dei discepoli nell'incontro con Gesù risorto, appare sfasato o fuori posto chiedersi se le apparizioni sono esperienze soggettive o oggettive, esteriori o interiori. Si tratta di una curiosità altrettanto sterile come quella di chi si chiede se l'esperienza di Dio, della sua parola e del suo Spirito è interiore o esteriore, soggettiva o oggettiva. Molti eventi raccontati nella Bibbia sono storicamente verificabili sulla base dei documenti letterari e dei riscontri archeologici. La realtà del mondo creato – il sole, la luna, le stelle e il sistema dei viventi, di cui si parla nella prima pagina della Genesi – è sotto gli occhi di tutti. Ma ciò non basta per cogliere in queste realtà e negli eventi della storia l'azione creatrice di Dio e la sua presenza che salva. In modo analogo si può dire che le parole e le azioni di Gesù, il suo rapporto con i discepoli, la sua morte in croce e anche il suo sepolcro a Gerusalemme, sono realtà ed eventi accessibili e accertabili attraverso i documenti che ne parlano. Tutto questo non rivela ancora il volto di Gesù Cristo, il Signore, che si manifesta invece nella risurrezione. Come azione potente di Dio, che, in Gesù di Nazaret, il crocifisso a Gerusalemme, manifesta la sua signoria sul mondo e sulla storia umana, la risurrezione sta oltre la possibilità di verifica intramondana. Dio e la sua azione non sono circoscritti nell'orizzonte del mondo creato e della storia degli esseri umani. Tuttavia l'esperienza della manifestazione di Dio in Gesù, vissuta dai suoi discepoli nella fede e trascritta nel linguaggio della tradizione biblica, può essere documentata e accertata nella storia. In questo senso si può parlare di esperienza "storica" della risurrezione di Gesù.

    NOTE

    [1] L'apparizione a "più di cinquecento fratelli, in una sola volta" non ha riscontri nei racconti dei Vangeli. Si fa l'ipotesi che essa corrisponda all'esperienza di Pentecoste – effusione dello Spirito santo e dono del parlare in lingue – raccontata da Luca negli Atti degli apostoli (At 2,1-41). A parte il numero – in At 1,15, si parla di 120 fratelli, che arrivano a circa tremila, dopo la Pentecoste (At 2,41) – l'autore degli Atti degli apostoli distingue le apparizioni di Gesù risorto, concluse con la sua ascensione al cielo, dall'effusione dello Spirito santo. È preferibile leggere in modo autonomo i testi di 1Cor 15,6 e At 2, senza cedere alla tentazione del concordismo.
    [2] Un'eco del ruolo preminente di Giacomo nella Chiesa delle origini si ha nel Vangelo di Tommaso: «I discepoli dissero a Gesù: "Sappiamo che te ne andrai da noi. Chi tra di noi sarà il più grande?". Gesù ripose loro: "Dal luogo dove sarete giunti, andate da Giacomo, il giusto, per il quale sono stati fatti il cielo e la terra"» (Ev. Tom. 12).
    [3] Un esempio di consultazione di un morto è raccontato nel primo Libro di Samuele, dove il re Saul, alla vigilia dello scontro con i filistei sulle alture di Gèlboe, fa evocare dalla negromante di Endor, lo spirito di Samuele per sapere l'esito della battaglia (1 Sam 28,7-25).

    (Gesù il "Nazareno", Cittadella 2011, pp. 822-835)




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