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    Modelli antropologici

    e modelli educativi

    Luciano Caimi

    Il punto di vista privilegiato dall'intervento, che farà emergere una prevalente sensibilità storico-pedagogica, può aiutare a cogliere la «lunga durata» del nostro tema. Modelli antropologici e modelli educativi: questione, dunque, antica e permanente.
    Quale antropologia, per quale educazione, oggi? È un interrogativo non semplice. Per rispondervi, occorre, tuttavia, guardarsi dalla «sindrome dell'anno zero», propria di chi reputa di dovere iniziare da capo l'indagine, dimenticando la ricchezza di un patrimonio a cui poter, seppur criticamente, attingere.
    Dall'antichità classica in poi, il rapporto fra antropologia e educazione ha interessato molti pensatori, incominciando dai maggiori. Ma v'è da dire che ogni teoria antropologica, anche se priva di esplicito riferimento al problema educativo, offre, in proposito, spunti impliciti.
    Nella stagione post-moderna, dove il cambiamento dei paradigmi culturali sembra avere definitivamente consumato antiche certezze e rimesso in discussione consolidati punti di riferimento, il dialogo interdisciplinare fra filosofia e pedagogia si rende quanto mai necessario.
    D'altra parte, l'esigenza di un simile rapporto dialogico non è nuova. Trova una testimonianza di notevole interesse anche nella storia di questo Centro Studi Filosofici. Vorrei, pertanto, prendere le mosse da qui.

    1) 1954: la prima volta della pedagogia a «Gallarate»

    Il X Convegno gallaratese (1954) recava come titolo: «Il problema pedagogico». L'aggancio a un dibattito ormai lontano nel tempo e in un contesto socio-culturale molto diverso dall'odierno può, nondimeno, fornire elementi utili per la nostra riflessione.

    Nel 1954 il Centro Studi aveva percorso un tragitto decennale. Anno dopo anno, si era dispiegato il programmatico intento di «ricostruzione» filosofica, iniziata dalla metafisica. Negli accesi e fruttuosi dibattiti, la comune matrice culturale (e religiosa) dei partecipanti non poteva, tuttavia, far velo alle obiettive diversità degli orientamenti teoretici. Metafisici neo-classici, neo-scolastici, spiritualisti, personalisti si cimentarono in vibranti confronti dialettici. Sin dall'inizio furono Gustavo Bontadini e Luigi Stefanini a catalizzare principalmente l'attenzione, rappresentando un'evidente divaricazione fra gli schieramenti in campo. «Metafisica dell'essere», da un lato, e «Metafisica della persona», dall'altro, costituirono le due cifre sintetiche che finirono con il polarizzare distinte posizioni teoretiche [1].
    Al Convegno del 1954 furono invitati i più rappresentativi esponenti della pedagogia cattolica, italiani (fra gli altri, G. Calò, G. Flores d'Arcais, N. Petruzzellis, A. Agazzi, F.M. Bongioanni, G. Corallo, G. Catalfamo, G. Nosengo) e stranieri (R. Buyse e A. Kriekemans di Lovanio, R. Savioz di Zurigo, A. Murioz-Alonso di Murcia, E. Planchard di Coimbra, J. Moreau di Bordeaux).
    Le relazioni introduttive vennero affidate a Calò, decano dei nostri pedagogisti, dell'Università di Firenze, e a Flores d'Arcais, dell'Ateneo di Padova.
    «Il problema pedagogico è problema filosofico quanto all'essenza del fatto o della realtà cui si riferisce - l'educazione -, come ogni problema relativo alla essenza di una realtà spirituale: è quindi problema dei fini e dei principi cui l'operare educativo deve informarsi» [2]. Questo l'incipit di Calò. Egli proseguiva insistendo sulla necessità, per la pedagogia, di porre a fondamento una «filosofia dello spirito», essendo l'educazione processo spirituale, volto a favorire nell'educando il «continuo passaggio dall'essere al dover essere» verso una progressiva e sempre più libera comprensione, nonché «attuazione dei valori» nella vita personale. Fra cura della dimensione soggettiva, con le intrinseche risonanze di natura psicologica, e attenzione alla componente socio-storica, l'azione educativa, sempre orientata «a coltivare tutto ciò che è umano nell'uomo», trovava, per Calò, pieno adempimento, quando riusciva a «sollevare» mente e cuore del soggetto sulla verticale dell'Assoluto personale auto-rivelatosi, fonte e pienezza del valore, datore di grazia. Così, nell'ottica dell'«umanismo cristiano», l'educazione attingeva al suo integrale significato e alla sua piena legittimità [3].
    L'intervento di Flores d'Arcais, di prevalente taglio storico-culturale, muoveva da una considerazione sul pensiero pedagogico dell'età classica (Platone, Aristotele), quale capitolo interno alla politica, per giungere a esplicitare alcuni "guadagni" conseguiti, in materia, dal cristianesimo antico-medioevale: riconoscimento dell'educando come persona umana, singolarità dell'atto educativo, necessità della comunicazione interpersonale fra maestro e alunno. Restavano approfondimenti da svolgere circa la natura propria della pedagogia e la dinamica intrinseca del processo di educazione nella sua concreta attualità. A partire dall'epoca moderna, la ricerca, sull'uno e sull'altro versante, non avrebbe tardato a compiere passi in avanti grazie allo sviluppo delle scienze empiriche, anche se - notava il relatore - da Rousseau in poi, con l'enfasi puerocentrica, si è assistito a una riduzione dell'«educare» allo «sperimentare» [4].
    Nel corso del dibattito, emersero, al di là delle differenze, punti significativi di convergenza. Quanto alla pedagogia, era apparso di da minio comune che si trattava di un sapere teorico-pratico, articolato al suo interno, ma con intrinseca istanza unitaria, come garanzia per un sintetico "sguardo" ermeneutico e prescrittivo sull'educazione. Il legame, inscindibile, con la filosofia, trovava universale conferma. Le divergenze interessavano la specificazione dei rapporti in ordine all'«enciclopedia filosofica», incominciando dal riconoscimento più o meno centrale della metafisica. Tutti, a ogni modo, convenivano sul fatto che la riflessione circa l'umano «evento» dell'educazione, il suo fine intrinseco, i valori portanti, le implicanze morali e storico-civili, necessitasse di specifico inquadramento teoretico.
    Il punto di vista antropologico e pedagogico assunto dai professori di Gallarate convergeva intorno alla visione dell'educando come persona. Stefanini esprimeva così la «formula» del suo personalismo pedagogico: «il fine immediato dell'educazione è la maieutica della persona e ogni altra finalità, essa stessa personalisticamente intesa, è da conseguirsi attraverso la mediazione della persona del singolo» [5]. Bontadini, non senza avere perorato la causa della metafisica anche in ordine al pensare pedagogico, era indotto a osservare che, dato l'argomento in discussione, questa volta, a differenza di quanto verificatosi nei precedenti Convegni, «l'accordo complessivo» tra «filosofi cristiani» non poteva mancare [6].
    Certo, la convergenza su una pedagogia di matrice personalistica e sulla necessità, per la riflessione educativa cristianamente ispirata, di alimentare il filo diretto con l'antropologia filosofica (oltre che, come qualcuno - giustamente - suggeriva, con quella teologica) furono acquisizioni importanti, ma bisognose di approfondimenti. In tal senso, le occasioni non mancarono. Basti ricordare le reiterate opportunità offerte da Scholé, il Centro di Studi Pedagogici fra i docenti universitari cristiani, avviato nel 1954 sul modello di Gallarate, con il contributo determinante dell'Editrice La Scuola di Brescia. Tuttora attivo, ha potuto sperimentare la validità del confronto interdisciplinare fra pedagogisti e altri studiosi, filosofi in primis, sensibili alla questione educativa [7].

    2) Modelli antropologici e educazione fra il 1945 e gli anni Sessanta

    Nella Théorie de l'éducation (1901), Lucien Laberthonnière affermava: «L'idea che ci si fa dell'educazione e dell'ufficio di educatore dipende evidentemente dall'idea che ci si fa dell'uomo e della sua destinazione» [8]. Era un'osservazione quasi ovvia. Stava a indicare che l'antropologia pre-ordina il disegno educativo, almeno nei fondamentali contorni teleologici e assiologici. Dal canto suo, Jacques Maritain, in Pour une philosophie de l'éducation (1959), asseriva che la domanda relativa all'uomo costituisce «il preambolo inevitabile» di ogni teoria dell'educazione [9].
    Non basta però dichiarare genericamente il legame fra il sapere antropologico e quello pedagogico. Occorre superare una linea giustappositiva a vantaggio di un confronto diretto con le questioni sollecitate dall'«evento» educativo, come esperienza umana di singolare e irriducibile tipicità. In quest'ottica, l'antropologia filosofica, proprio per lo specifico oggetto di ricerca (l'uomo, nella singolarità del suo essere, nell'originalità delle proprie funzioni simboliche e comunicative, nell'unicità del potere di auto-determinazione, nella «mondanità» dell'esistenza posta fra un'origine non decisa e una fine ineluttabile), racchiude in sé la possibilità di delineare le questioni di fondo e di sfondo necessarie agli sviluppi pedagogici [10]. Naturalmente, deve trattarsi di "buona" antropologia.
    L'affermazione di una linea di continuità, nella distinzione dei compiti, fra antropologia e pedagogia non può far dimenticare un problema centrale di epistemologia pedagogica. Ci rimanda alla pluridecennale discussione, fiorente anche in ambito cattolico, fra i sostenitori di un modello pedagogico "forte" e quelli di un modello "più temperato [11]. Per i primi, la pedagogia, ancorché articolata al suo interno e aperta ai contributi di altre discipline (psicologia, sociologia ecc.), si qualifica come autonoma «teoria e scienza» dell'educazione; per i secondi, più che scienza a sé stante, è da considerarsi alla stregua di un «sistema di scienze»11. Fra queste ultime, si colloca la filosofia dell'educazione, cui compete di approfondire, nel quadro di una prospettiva antropologica generale, natura, fondamenti, significato, contenuti, finalità, forme del processo educativo, cioè di quell'esperienza singolare attraverso la quale il «piccolo dell'uomo», sostenuto (e orientato) in maniera congrua, va via via definendo la propria, irripetibile personalità, sino a divenire, auspicabilmente, maître de soi.
    Sono rapide annotazioni di un discorso epistemologico complesso e in continua evoluzione, che negli ultimi decenni ha fatto registrare la prevalenza del modello «scienze dell'educazione», sempre più al traino delle discipline empiriche (psicologia, sociologia... sino alle neuroscienze), con il rischio d'illanguidire l'approccio propriamente teoretico del problema educativo [12].
    Ciò detto, conviene spendere una parola sulla nozione di modello, che figura nel titolo della relazione. Ha alle spalle una lunga storia e una pluralità di significati. Se in quello più antico riveste una connotazione metafisica e risulta, secondo quanto si evince dalla dottrina platonica delle idee, sinonimo di archetipo, idea esemplare, paradigma, negli sviluppi recenti si declina in senso prevalentemente epistemologico e scientifico-teorico. Nella sua principale accezione, il modello viene «assunto in funzione conoscitiva», precisamente come «correlato di una teoria» [13]. Lascio agli specialisti gli approfondimenti al riguardo, che interessano a un titolo speciale campi di applicazione logico-matematica e scientifica, senza dimenticare, per altro, l'impiego nelle stesse «scienze umane», compresa la ricerca pedagogica e educativa [14].
    Se restiamo sul piano antropologico, mi sembra di poter dire così: la nozione di modello costituisce un «costrutto concettuale», una «rappresentazione sintetica» della figura di uomo inscritta in una determinata antropologia; «costrutto» e «rappresentazione» d'indubbia utilità euristica, perché individuano «profili umani» ben definiti nei loro tratti distintivi, facilitando, fra l'altro, confronti incrociati, messa in luce di convergenze e dissonanze. Siamo dinanzi a una categoria prossima all'«idealtipo» weberiano.
    Nella storiografia pedagogica non mancano esempi a ciò riconducibili. Basti segnalare l'opera collettiva americana The educated man. Studies in the history of educational thought (1967). Dall'indice trascelgo qualche titolo per rendere l'idea: «Il Gentleman: Locke», «L'uomo di natura: Rousseau», «L'uomo sociale: Marx», «L'uomo esistenziale: Buber», «L'uomo pianificato: Skinner» [15]. In Italia, ha suggerito un'analoga proposta storiografica Cesare Scurati, con il volume Profili nell'educazione. Ideali e modelli pedagogici nel pensiero contemporaneo. Anche qui, ricordo, esemplificativamente, alcuni capitoli: «Anton S. Makarenko - L'uomo collettivo», «Alexander S. Neill - L'uomo naturale», «Antonio Gramsci - L'uomo onnilaterale», «Jacques Maritain - L'uomo integrale», «Emmanuel Mounier - L'uomo impegnato» [16].
    Ciò detto, mi sembra utile, procedendo, prevedere due momenti di periodizzazione: l'uno, concerne l'arco temporale fra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Sessanta, ancora contraddistinto da modelli antropologici e educativi coerenti con schemi concettuali ed epistemologici in larga parte debitori del «pensiero forte» della tradizione moderna, anche se già in quel periodo si andavano irrobustendo indirizzi e segnali rivelatori di un'incipiente linea di crisi; l'altro, riguarda la stagione successiva al 1968, data, quest'ultima, che sul piano storiografico ha finito con l'assumere un significato simbolico in ordine alla stessa affermazione della stagione post-moderna.

    Quanto al periodo 1945-'68, anche per economia di tempo, restringo il riferimento al contesto italiano, fermando l'attenzione su cinque modelli antropologici e pedagogici.
    Il primo attiene al profilo di uomo critico, tratteggiato, pur con accenti diversi, da autori come il problematicista Antonio Banfi (fra i cui allievi figurava il pedagogista Giovanni Maria Bertin), il "dialogista" Guido Calogero, il post-attualista Ugo Spirito. Eravamo in presenza di una figura antropologica debitrice, a vario titolo, del criticismo razionalistico. Questo modello, interno a una visione immanentistica della realtà, puntava: sul primato della ragione e della libertà, in un quadro di ricerca aperta e anti-dogmatica; sull'autodeterminazione etica, contro qualsivoglia forma di eteronomia; sulla rivendicazione della libertà personale, ma in una congiunta tensione di carattere socio-relazionale; su forme di convivenza democratica, interpretata secondo curvature di più o meno accentuata inclinazione liberale o socialista.
    All'educazione e alla scuola (pubblica di Stato) il compito di coltivare un simile profilo di uomo critico, restituito a se stesso come artefice del proprio destino e costruttore di un futuro libero da dogmatismi. Ragione e libertà costituivano, dunque, i termini del binomio posto a fondamento di un processo educativo costantemente orientato allo sviluppo della conoscenza e della capacità di autonomia decisionale, dove la saldatura fra le istanze del singolo e quelle degli altri trovava composizione nel quadro di un'eticità socialmente sensibile [17].
    Un secondo modello antropologico e pedagogico era quello pragmatico-democratico. Doveva molto all'inserimento sulla nostra scena culturale delle opere di John Dewey, tradotte da La Nuova Italia di Firenze. Naturalismo umanistico e sperimentale, strumentalismo logico, "migliorismo" etico e sociale costituivano gli assi portanti di un vasto disegno teorico, cui corrispondeva, sul piano politico-istituzionale, la fiducia verso l'ideale della democrazia. L'antropologia deweyana trovava così larga accoglienza nel dibattito filosofico dell'immediato dopoguerra, particolarmente sensibile ai temi connessi alla prassi di cambiamento. Ciò ebbe riscontri anche in campo pedagogico. Il pensatore americano fu ispiratore di un modello educativo e scolastico incentrato sulla libera attività del minore, aperto alle sue istanze psicologiche e sociali, stimolatore di una ponderata strategia di ricerca intellettuale (problem solving), orientato ai valori della comunità democratica. Lungo questa direzione operarono, accentuando, per la verità, toni di tenore laicistico, i pedagogisti facenti capo alla rivista fiorentina «Scuola e Città» (Ernesto Codignola, Lamberto Borghi, Aldo Visalberghi, Raffaele Laporta...) [18].
    Siamo a un terzo modello: quello storicistico-rivoluzionario. La visione dell'uomo come «trasformatore» radicale della società e dei suoi rapporti di classe trovava affermazione decisa nella ripresa marxiana del dopoguerra (ancora Banfi, Galvano Della Volpe, Cesare Luporini e sul piano pedagogico Dina Bertoni Jovine, Mario Alighiero Manacorda). In quel quadro, la rilettura gramsciana del marxismo andò assumendo un posto sempre più rilevante. Com'è noto, nell'interpretazione del pensatore sardo, la filosofia della prassi, lungi dal ridurre il processo storico-dialettico al fattore economico, lo allargava piuttosto all'interdipendenza fra «struttura» e «sovrastruttura». Per il superamento della società capitalistico-borghese, occorreva determinare un inedito «blocco storico», con l'egemonia del proletariato, sotto la guida del partito (il «nuovo principe») e con l'apporto culturale d'«intellettuali organici». Da metà anni Cinquanta la lezione di Gramsci ebbe crescente rilevanza per l'elaborazione di un modello educativo inscritto entro il nesso dialettico di storia e politica, cultura e società, antifascismo e liberazione umana. Fuori da visioni "spontaneistiche" e "idealistiche", l'educazione doveva edificare personalità «onnilaterali», in grado di affrontare la vita come lotta contro i dinamismi istintuali, la natura (da conoscere e dominare attraverso la scienza e il lavoro), la società borghese. Dunque, una pedagogia rivoluzionaria, che richiedeva passione ideale, esperienza condivisa di socialità, apertura culturale. In tale senso, il ruolo della scuola (laica, democratica, culturalmente seria) diveniva di capitale importanza [19].
    A differenza di questi tre modelli, il quarto, qui in esame, ossia l'uomo esistenzialistico, considerato come individuo singolo, «gettato nel mondo», radicalmente finito, non più semplice «momento» del processo di una Ragione onnicomprensiva o pura «deduzione» da un Sistema di pensiero totalizzante o, ancora, membro di una Classe rimpiazzatile da un altro esemplare del medesimo genere, stemperava entro la cifra della «crisi» l'ottimismo storico-progressistico. Heidegger e Sartre, pur da posizioni distinte, costituivano gli autori di maggiore riferimento, intorno ai quali si era acceso, anche da noi, un ampio dibattito (di nuovo Luporini, Enrico Castelli, Nicola Abbagnano, Luigi Pareyson, Michele Federico Sciacca...) [20]. Fra gli intervenuti, Stefanini era indotto a considerare le conclusioni dell'esistenzialismo «ateo» (distinto da quello «teistico», per esempio, di Marcel) come «un gesto di spietata sincerità», dove il pensiero moderno «sfronda tutti gli allori e riduce il regno dell'umano alla "deiezione", alla "caduta", all'"abbandono": constata lo sfaldamento della persona, la sconnessione della socialità [...] la dissoluzione del valore e della norma» [21]. Su queste basi, quali possibilità si dischiudevano all'educazione? Per il filosofo di Padova, occorreva, quanto meno, provare a ri-trascrivere in chiave pedagogicamente plausibile le categorie antropologiche di esistenza, libertà, finitudine, io-altri... Un'impresa non semplice, perché negli autori più radicali della «filosofia della crisi» risultava difficile rinvenire il preliminare sguardo "promettente" sulla vita, di cui l'educazione ha assoluto bisogno.
    Il quinto modello antropologico e pedagogico da ricordare è quello personalistico. Come abbiamo visto parlando del Convegno gallaratese del 1954, fra filosofi e pedagogisti cattolici dell'epoca, la nozione di persona fungeva, in tema di antropologia, da richiamo coagulante.
    Maritain e Mounier i due autori di maggior riferimento. Più il primo del secondo. Mounier, con la sua «dvolution personnaliste et communautaire», restava pur sempre un «non-conformista» da sinistra cristiana [22]. Riconoscere l'uomo come persona significava affermarne l'ontologica dimensione spirituale. Occorreva però, passando al piano storico-fattuale ed esistenziale, far sì che la persona potesse gradualmente maturare l'intera gamma delle sue potenzialità intellettive, relazionali, affettive ecc.: ciò chiamava in causa l'educazione. A tale proposito, fra i secondi anni Quaranta e la prima metà degli anni Sessanta, l'impegno dei pedagogisti cattolici per promuovere una riflessione personalisticamente articolata nei profili epistemologici, teoretici e metodologico-didattici fu considerevole. Sul piano editoriale, La Scuola rappresentava un importante riferimento per l'elaborazione e la divulgazione di questa prospettiva [23]. L'educazione al bivio di Maritain, per citare un testo fra i più rappresentativi del personalismo pedagogico, tradotto nel 1950, divenne un autentico best-seller. Vi risuonava esplicito l'invito a scegliere se collocarsi in favore di un progetto educativo orientato in senso personalistico o secondo gli indirizzi di matrice intellettualistica, pragmatistica, sociologistica, volontaristica. Di mezzo stava, per l'autore francese, il senso e il destino, oltre che dell'educazione, anche del cammino di civiltà [24].

    3) 1968 e dintorni: nell'orizzonte del post-moderno

    Dal "mitico" Sessantotto, assunto come spartiacque convenzionale nella nostra periodizzazione, ci separano ormai più di quarant'anni. È una data rispetto alla quale l'evento storico risulta diluito in cifra simbolica di un profondo mutamento dei paradigmi socio-culturali e del costume diffuso. La fine degli anni Sessanta rappresenta, dunque, un importante momento di snodo, che ha definitivamente dischiuso la via al post-moderno.
    Quest'ultimo termine, di carattere polisemico, più che esprimere una precisa proposta teorica, legata all'uno o all'altro autore, può fungere da «descrittore di campo», non privo di valore ermeneutico, e da «indicatore» dei tratti distintivi dell'odierna temperie culturale. Com'è noto, per Jean-Francois Lyotard, nell'epoca attuale, segnata da cambiamenti strutturali, con incidenza anche sullo statuto del sapere, sempre più informatizzato e "mediatizzato", i «grandi racconti» e le «meta-narrazioni», in grado, nel passato, di legittimare sfondi comuni di riferimento veritativo-valoriale, ricchi di risvolti pedagogici, hanno esaurito la loro funzione. Sono così sfumati i quadri d'insieme entro i quali l'individuo poteva ravvisare il significato condiviso di categorie come ragione, verità, storia, umanità, educazione, rispondendo, in tal modo, all'ineludibile esigenza di posizionamento dinanzi alla realtà e alla vita [25]. Da questa descrizione/interpretazione del post-moderno parrebbe, insomma, delinearsi uno sfaldamento degli "ingredienti" di base del tessuto connettivo, che sino a non molti decenni fa avevano garantito una certa tenuta in ordine ai processi di socializzazione culturale. È allora evidente che lo scenario prefigurato, intriso, non di rado, da un insuperabile «senso della fine» e «della crisi», generi fenomeni di «spaesamento» individuale e collettivo [26]. In quanto «descrittore di campo», il post-moderno allinea al suo interno vari orientamenti teorici e antropologie, alcuni dei quali si segnalano per una particolare incidenza sulla sensibilità corrente [27].
    Armido Rizzi ravvisa nella parabola dell'«erba voglio» la traiettoria della rivoluzione antropologica degli ultimi decenni. In epoca moderna - osserva - la coscienza culturale più avanzata aveva avuto il punto di forza nella conquista della «sovranità» individuale, a seguito dell'uso consapevole di una ragione liberata da dogmatismi e censure. L'individuo, sottratto agli impedimenti fissati da autorità a lui esterne e guidato dalla legge interiore, si trovava nella condizione di esercitare libertà di giudizio e scelte autonome, rischiarando, in modo razionalmente fondato, il vivere e il convivere, con conseguente freno a pulsioni e desideri anarchici. Nella transizione al post-moderno, segnata dalla crisi della ragione illuministica, sarebbe stato, invece, il desiderio a insediarsi al centro dell'io, divenendo suo sovrano. In tal modo, l'«erba voglio», che non cresceva nel giardino del re delle favole, né in quello dell'uomo "maggiorenne" dell'illuminismo, incominciò a fiorire nei territori abitati dalla coscienza post-moderna [28].
    Quando i provocatori graffiti sessantottini dichiaravano, ad esempio, «Siate realisti, chiedete l'impossibile» oppure, con eloquente sarcasmo anti-razionalistico, «Coito, ergo sum», si aveva plastica conferma di come una generazione edotta da Maestri "impertinenti" stesse affermando la voglia di rottura radicale con modelli antropologici ed etici tradizionali, per liberare la sfera pulsionale da inibizioni censorie. Del resto, l'auspicata rivoluzione socio-politica non avrebbe avuto successo, se non procedendo di conserva con quella relativa alle pratiche di vita quotidiana, specialmente nella sfera affettivo-sessuale. S'imponeva, insomma, una radicale «liberazione erotica», su cui Herbert Marcuse già nel 1955 (Eros e civiltà) aveva scritto, insistendo sulla conciliazione fra «principio del piacere» e «principio di realtà» in una società di avanzata industrializzazione, dal momento che il progresso tecnologico consentiva di limitare l'invasività del lavoro, a vantaggio della fruizione di spazi di tempo libero e del soddisfacimento dei bisogni/desideri personali [29].
    Nella temperie sessantottina si sono avute anche da noi esperienze pedagogiche e scolastiche alternative, all'insegna cioè di una soggettività interpretata secondo canoni antropologici di radicalismo libertario, adducenti a pratiche non-autoritarie [30]. In quella particolare congiuntura socio-culturale, va ricordato il successo del volume di Alexander S. Neill, Summerhill, forse la testimonianza più chiara del libertarismo educativo, in anticipo di qualche decennio sui tentativi degli anni Sessanta e Settanta [31].
    Con il graduale sviluppo della società affluente, la dinamica espansiva del desiderio si sarebbe diretta su obiettivi di soddisfazione immediata dei bisogni, molti dei quali indotti dalla logica suadente del mercato. Il modello dell'homo consumens esprime bene questo tipo di propensione, dove il desiderare finisce con l'essere ridotto a semplice voglia di possedere per consumare. Le problematiche conseguenze sul piano educativo sono sotto gli occhi di tutti.
    Sappiamo quanto l'effervescente milieu intellettuale francese a cavallo fra anni Sessanta e Settanta abbia influito sulla sensibilità postmoderna. Ne L'anti-Œdipe (1972), Gilles Deleuze e Félix Guattari sferravano un duro attacco alla teoria e alla pratica psicoanalitiche, con l'accusa di «castrare il desiderio», da esse reputato a rischio «deviazione» e perciò da sospingere verso un «adattamento» al mondo. In tal modo, per i due autori, si smarriva il dato originariamente produttivo e creativo del desiderio stesso. Da qui lo sviluppo di una rappresentazione dell'uomo come «macchina desiderante», coinvolto in un incessante processo di scambi, articolazioni e disarticolazioni con gli altri, sospinti dalla medesima propensione desiderativa [32].
    Certo, chi considera un simile modello antropologico per un'interlocuzione pedagogica è indotto ad arrestarsi su una soglia alquanto dubbiosa. Sotto il profilo educativo, la «regolazione» del desiderio, ancorché fuori da inclinazioni meramente censorie, non sembra questione eludibile. Purtroppo, l'attenzione a questa fondamentale dimensione dell'umano ha avuto scarsa cittadinanza nella pedagogia e nell'educazione (in primis, cattolica). Ragione per cui, occorre uscire da prolungati e imbarazzanti silenzi.
    Nella riflessione filosofica, la figura del desiderio ha ricevuto specifica tematizzazione in epoca relativamente recente, anche a seguito delle sollecitazioni di matrice psicoanalitica. Al pedagogista interessa molto il profilo ermeneutico del problema. Il desiderio è da concepirsi come «elemento pulsionale», mosso solo da una sorta di vis a tergo o va posto anche in relazione con una dinamica attrattiva in avanti e coinvolgente l'atto deliberativo della coscienza [33]? Sono interrogativi importanti e meritevoli di approfondimento nello stesso ambito pedagogico.
    A livello educativo, le perplessità connesse all'immagine di uomo suggerita da Deleuze e Guattari permangono quando ci accostiamo a un'altra espressione della cultura post-moderna quale la decostruzione di Jacques Derrida. Siamo dinanzi a una teoria che, come pratica di scrittura su scritture, non si riduce a puro gioco filologico, ma mira a colpire l'idea di totalità organizzata attorno a un centro, con sviluppi in direzione di una radicale critica alla metafisica, sottoposta a processi di «smascheramento» delle opposizioni concettuali (corpo/anima, natura/spirito, essere/divenire, bene/male, vero/falso...) e di «spiazzamento», per ri-scrivere il tutto con un procedimento argomentativo ormai privo dell'ambizione alla trasparenza e della pretesa di fondazione [34]. Negli sviluppi di più specifica connotazione antropologica, la prospettiva decostruzionista rischia di perdere di vista la sostanziale unitarietà, ancorché internamente articolata, propria del soggetto [35]. Di conseguenza, anche se si sta a questo indirizzo, diventa non semplice elaborare un progetto educativo coerentemente organizzato.
    Le perplessità pedagogiche non sembrano scemare, qualora si allarghi il discorso al profilo d'insieme della Stimmung post-moderna, dove l'indubbia sensibilità nichilistica, intercorrente dalla complessa linea di collegamento fra Nietzsche e Heidegger, trova sviluppi nel «pensiero debole» di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo. Certo, la seguente e celebre sentenza nietzschiana continua a risuonare in tutta la sua problematicità: «Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al "perché?"; che cosa significa nichilismo? - che i valori supremi si svalorizzano» [36]. Con ciò, il rischio è che venga meno o, comunque, risulti fortemente depotenziata la possibilità di un «orizzonte di senso», indispensabile anche in ambito educativo [37].
    Sotto la spinta delle sempre più strabilianti affermazioni scientifico-tecniche, la prospettiva di un umanesimo tecnocentrico sembra avere condotto a compimento il "lungo viaggio" dell'antropologia: dal teocentrismo medioevale all'antropocentrismo moderno. Cadute le ideologie (ma perché si ricorre sempre al plurale, fingendo d'ignorare il trionfo di un sempre più agguerrito capitalismo, da qualche studioso definito «tecnonichilista»?) [38], le risposte di cui abbisogniamo, come singoli e come collettività - si argomenta da varie parti -, risiedono ormai nella tecnoscienza. In questo modo, però - è appena il caso di notare -, lo sconfinamento di campo diventa palese. Si pretenderebbe, infatti, di assegnare al discorso scientifico-tecnico pronunce non di sua pertinenza, come la definizione del significato e del valore delle varie forme e attività dell'esperienza umana, compresa quella educativa.
    Un dato, insomma, mi sembra fuori discussione: senza un plausibile «orizzonte di senso», la riflessione pedagogica e la prassi educativa sono minate alla radice [39]. Occorre però domandarci: quale «orizzonte di senso»? All'interrogativo reputo sia possibile offrire una risposta "plurale", purché elaborata entro i confini della fedeltà all'umano costitutivo, sulla struttura del quale torneremo. Entro quest'ottica, è allora naturale che il pedagogista, dinanzi alle teorie risalenti all'indirizzo culturale qualificato come post-umano, si premuri di verificarne la portata antropologica e le relative ripercussioni sul piano educativo.
    In circolazione dalla fine degli anni Settanta del Novecento, il termine post-umano si addice ad alcuni indirizzi antropologici perlopiù debitori delle scienze cognitive e delle neuroscienze, ma con alle spalle prodromi importanti, come la Neue Anthropologie (Max Scheler, Arnold Gehlen, Helmuth Plessner), e agganci significativi con il filone evoluzionistico. La mappa delle posizioni è variegata. Basti dire che su categorie decisive del discorso antropologico (persona, io, coscienza) si va dagli «eliminativisti», negatori di una specifica consistenza di tali realtà esterna all'organo-cervello, ai «riduzionisti moderati», propensi a non risolvere tutto in una semplice espressione biologico-neuronale. Dopo Marx, Nietzsche, Freud, siamo in presenza di nuovi «Maestri del sospetto», per i quali il «disincanto del mondo» assume la forma di «disincanto del sé» [40].
    Fra le ascendenze teoriche prossime al post-umano risulta anche Michel Foucault, che, nella complessa analisi di Les mots et les choses (1966), ravvisava il tramonto della moderna figura epistemologica d'interpretazione dell'umano, lungo la linea risalente da Kant a Hegel. Ne conseguiva l'affermazione di una sorta di «morte dell'uomo», per altro, già preconizzata da Nietzsche. Secondo l'autore francese, solo con la fine dell'«ingombrante» metafisica dell'umano si sarebbe potuto aprire lo spazio per l'esercizio di un autentico pensare antropologico [41]. «La premessa ontologica di questo decesso dell'uomo - osserva un attento commentatore - è la negazione dell'essere come partecipazione ontologica che accomuna i soggetti, a favore di una pluralità di esistenti meramente differenti» [42].
    Con la linea foucaultiana trovava motivi di convergenza lo stesso Deleuze, per il quale il «superamento» dell'uomo, frutto di una «scomposizione ibridativa» e della sempre più invasiva incidenza del fattore tecnologico, conduce alla rottura di rigidi e impermeabili confini dell'umano. In Mille plateaux (1980), scritto sempre con Guattari, la dirompente prospettiva antropologica andava ulteriormente precisandosi tramite il ricorso alla nozione di rhizome: un'immagine arborea che, riferita all'uomo, azzerava qualsivoglia concezione organico-unitaria del medesimo. Dal rizoma il passaggio successivo conduceva alla figura del «corpo senz'organi», intriso di un desiderio privo di limiti e di forma. Ciò consentiva ai due autori di prefigurare una corporeità umana «denaturalizzata», in connessione e contiguità con corpi animali e fisici, prodotti testuali e culturali, attraverso concatenazioni «macchiniche» [43].
    Sono tutti motivi presenti, con accenti e sviluppi diversi, nelle riflessioni ascrivibili al post-umano. Rispetto alle prospettive antropologiche da esso emergenti, è da accogliere, per quanto qui ci interessa, l'invito a superare una visione «fissistica» dell'uomo, definito una volta per sempre in un'essenza che ne determina rigidamente l'identità. Va, quindi, sottoscritta l'immagine dell'essere umano come realtà plastica, evolutiva, aperta in orizzontale verso le altre forme di vita e sempre più plasmata dal dato «culturale-tecnologico» rispetto all'elemento «naturale». Ma - e ribadisco -, quando si constata il venir meno di una figura di uomo unitaria, a vantaggio di una nella quale egli si presenta in forma disaggregata, perennemente "fluida" e "rimodellabile" a piacimento, diventa difficile individuare persuasivi fondamenti e direzioni di marcia per l'educazione.
    A questo punto, ci si rende conto che la complessità dei problemi antropologici sollevati da espressioni significative della cultura postmoderna rafforza l'esigenza del dialogo interdisciplinare fra filosofia e pedagogia. Sul versante filosofico, vanno rimesse al centro dell'analisi le nozioni di persona, soggetto, io, coscienza, identità, libertà, sottoposte al setaccio di una critica abrasiva, incline a insinuare dubbi radicali e a smentire certezze di lunga durata. Discorso simile occorre svolgere per le categorie di corporeità, genere, sessualità, differenza, alterità, relazionalità. Ancora: sfera razionale-cognitiva, con la sua aspirazione alla verità, sovente frustrata da un «disincanto» scettico, e sfera affettiva, con la fitta trama di emozioni, sentimenti, desideri, sono altre due facce costitutive del profilo antropologico, meritevoli di attenta "rivisitazione". Per non dire, poi, del capitolo etico, con i suoi temi centrali (valore, bene, felicità, virtù...) da riconsiderare alla luce del "debolismo" post-moderno. A tutto ciò, sempre in chiave filosofica, si affianca anche la necessità d'indagare su momenti e forme cruciali dell'esistenza umana, dove aspirazioni, speranze e successi s'intrecciano, ineluttabilmente, con delusioni, fallimenti e dolori, aprendo così il cerchio degli interrogativi circa il significato complessivo del vivere, della finitudine e della speranza di un (eventuale) «oltre» la vicenda terrena [44].
    Insomma, nel tempo della post-modernità, la pedagogia ha quanto mai bisogno di tenere acceso il dialogo con la filosofia, per poter approfondire sempre meglio i «fondamentali» del discorso sull'uomo, indispensabili all'elaborazione di una progettualità educativa "sensata" e storicamente adeguata. Compete, poi, al sapere pedagogico, muovendo da una visione dell'educando come realtà singolare, unitaria, complessa ed evolutiva, delineare un programma teorico-pratico, affinché egli, attraverso tappe graduali e progressive, possa, debitamente "accompagnato", giungere a definire la propria identità personale, condizione necessaria per "rivelarsi" come protagonista sulla scena del mondo. È un'esperienza da vivere entro un rapporto intenso ed empatico con l'educatore, chiamato all'esercizio di un'autorità promozionale del minore [45].
    A questo punto, conviene precisare che ogni modello educativo va validato nella prassi, per certificarne la bontà o meno. In tal senso, l'educazione funziona da banco di prova dell'antropologia e della pedagogia di riferimento. Naturalmente, occorre individuare indicatori attendibili per una simile verifica, tenendo presente che si tratta di valutare un evento umano complesso, non riducibile a semplificazioni... da laboratorio. Detto questo, è ragionevole ravvisare nel criterio di umanizzazione quello che fa al caso nostro. Se lo facessimo reagire, per esempio, con i modelli educativi del Novecento, avremmo risultati interessanti e in non pochi casi sconcertanti. Basti un accenno. Potevano dirsi rispondenti a un criterio di umanizzazione quei modelli che, prefiggendosi, ciascuno a suo modo, di formare un «uomo nuovo», puntavano su programmi di massificazione collettivistica (comunismo sovietico) o di autoritarismo nazionalistico (fascismo) o di razzismo statolatrico (nazismo) [46]? In campi completamente diversi: che garanzie erano in grado di offrire, sempre ai fini di umanizzare il minore in crescita, proposte all'insegna o di una gaia, quanto ingenua, «rivoluzione sessuale», nella linea preconizzata da Wilhelm Reich [47], o di un certo «decadentismo» esistenzialistico? Ma si potrebbe continuare, chiamando in causa teorie e pratiche educative ispirate a pessimismo antropologico, con conseguenti paure e sospetti verso l'autonomia personale, la libertà di espressione, la dimensione affettiva: ne abbiamo ampi riscontri anche nelle cronache del secolo appena trascorso.

    4) Linee per una «ricostruzione» personalistica

    Dal mio punto di vista, il (presunto) «congedo dal moderno», per qualcuno inevitabile dopo l'ascesa del post-moderno, non deve significare dimenticanza di fondamentali acquisizioni antropologiche (e pedagogiche) della modernità. Infatti, l'uomo laico, figlio dell'età moderna, si qualifica con tratti irrinunciabili anche per la pedagogia. Sono quelli rappresentati da categorie come razionalità, libertà, autonomia, eticità, socialità, storicità (cui si affianca, in vari casi, anche la religiosità, seppur «naturale»: si veda, ad esempio, la professione di fede del Vicario savoiardo, nell'Émile di Rousseau). Occorre, semmai, svincolare quei tratti caratteristici dai limiti interpretativi nei quali, non di rado, sono stati forzati (pensiamo, soprattutto, a ragione e libertà). Mi sembra un'indicazione metodologica da tenere presente, procedendo nel dialogo fra antropologia filosofica e pedagogia, al fine di prospettare alcune linee di un modello educativo non immemore di quanto ereditato dal pensiero moderno, ma, nel medesimo tempo, consapevole dei complessi e nuovi interrogativi dischiusi dalla post-modernità.
    Dinanzi agli esiti dell'odierna stagione culturale, marcata, quasi a dispetto dei prorompenti successi scientifico-tecnologici, da propensione al «declino» e al «tramonto», più d'uno sembra portato a concludere, sconsolatamente, sul destino infausto per l'educazione. Educare si deve ma si può?, recita il titolo di un bel testo di Giuseppe Angelini, che, ad ogni buon conto, non offre responso dubbioso (e tantomeno negativo) all'intrigante domanda. Anzi, rilancia in grande stile l'urgenza dell'impegno educativo [48]. Una posizione che incontra motivi di convergenza con quella dell'illustre pedagogista tedesco Wolfgang Brezinka, quando allo slogan «fine dell'educazione» contrappone il «coraggio di educare bene» [49].
    I giochi, in effetti, sono del tutto aperti. Ma si tratta di avere piena avvertenza della difficoltà oggettiva di elaborare una paideia sufficientemente organica per un tempo «frammentato» come il nostro, dove, fra l'altro, l'educazione di tipo informale, derivante dagli influssi dei media e della «rete», nonché dalle relazioni con i pari, sembra prevalere su quella formale, dovuta agli ambienti familiare, scolastico, ecclesiale [50]. Occorre inoltre trovare, anche sotto il profilo antropologico-pedagogico, una prospettiva idonea per ri-dire la cifra dell'umano, rifuggendo, tuttavia, dall'ingenua convinzione secondo cui, in un tempo di tensioni deboli e di «passioni tristi» [51], la risposta stia nella semplice declamazione di principi/valori «forti».
    Dobbiamo allora domandarci come configurare, oggi, una progettualità educativa "sostenibile". Questo richiede, da una parte, di evitare un atteggiamento «ipermoderno», che indurrebbe a ripercorrere acriticamente i sentieri battuti dalla modernità, puntando, anche nell'educazione e nella scuola, solo sull'incremento del dato razionale di sviluppo scientifico-tecnologico, dall'altra, di non trascurare le opportunità di revisione critica offerte dalla cultura post-moderna, in modo da raccogliere indicazioni utili per un programma di «ricostruzione» pedagogica [52].
    Tutto ciò premesso, rimango dell'idea che l'opzione antropologica (sì, perché, a un certo punto, si tratta di scelta, ancorché razionalmente giustificata) meglio in grado di offrire alla pedagogia i presupposti di un realistico profilo del soggetto da educare nell'odierna temperie culturale debba restare ancorata, seppur con critica duttilità, alla tradizione personalistica [53]. In questa maniera, nonostante la distanza temporale e di contesto storico, si viene anche a compiere una sorta di saldatura ideale con il Convegno gallaratese del 1954.
    Al di là del problema relativo all'identità del personalismo (per Maritain, «un fenomeno di reazione» contro totalitarismi e individualismo, per Lacroix semplice «anti-ideologia»: ma non è di questo avviso Armando Rigobelli [54]), la questione che ci interpella da vicino concerne piuttosto la persona. Nei primi anni Ottanta, Paul Ricoeur, con il noto saggio Meurt le personnalisme, revient la personne, dichiarava conclusa la parabola storica della proposta mounieriana, ma nel medesimo tempo, dinanzi alla crisi di nozioni come soggetto, io, coscienza, individuava nel «ritorno alla persona» la possibilità di una rinnovata responsabilità ermeneutica, in grado di confrontarsi con i mutati paradigmi antropologici [55].
    Da quel periodo il termine persona entrò con sempre maggiore frequenza anche nel lessico degli studiosi "laici" (pedagogisti compresi), sin lì restii a impiegarlo, perché reputato proprio di un'antropologia (e di una pedagogia) "spiritualistica", tendenzialmente "evasiva". Va però detto che un impiego troppo disinvolto della nozione in para la può favorire sia la ridondanza retorica sia il rischio dell'equivocità. In questo senso, Giuseppe Flores d'Arcais, in un Colloquio interuniversitario tenutosi a Padova nel 1992, notava: «Avvicinandoci ai na stri tempi, tra solipsismo, relativismo, esistenzialismo e fenomenologia, l'uso, e spesso l'abuso, del termine persona non trova certo chiarificazione concettuale» [56].
    Fortunatamente, occasioni per approfondimenti, in seguito, non sono mancate. Penso, ad esempio, agli specifici seminari interdisciplinari promossi dal Dipartimento di Filosofia dell'Università Cattolica di Milano (1993), i cui atti sono stati curati da Virgilio Melchiorre, autore - rammento - di un'ulteriore ripresa del tema nel recente Breviario di metafisica [57]. Al pedagogista preme di essere confermato dal filosofo nella possibilità di «dire» ancora oggi, plausibilmente, la figura dell'uomo come essere educabile attraverso la cifra della persona. Siamo - notoriamente - dinanzi a un vocabolo che, già nei suoi risvolti semantici, risalenti alla maschera del teatro antico, sembra rinviare alla costitutiva «ambiguità» umana. Infatti, la maschera rappresenta, a un tempo, strumento di «rivelazione», ma anche di occultamento e, perché no?, di infingimento, legato alle parti da recitare sulla scena. Qui, in senso metaforico, è adombrato il mistero dell'uomo-persona, con le sue tonalità solari e quelle umbratili. Di lui non tutto viene alla luce. Al di là delle trasparenze, che il volto, la parola, il gesto comunicano, sussistono vaste zone d'ombra, sovente indecifrabili per lo stesso soggetto [58].
    Se ne trae una fondamentale lezione pedagogica. L'incontro con il minore (ma dovremmo dire anche con l'adulto, in definitiva, con l'«altro») resta sempre avvolto in un gioco di chiaroscuri, bisognoso di perspicace, anche se mai compiuta, opera di decifrazione. Con specifico riferimento all'infanzia, Janusz Korczak, eroico educatore ebreo-polacco finito con i suoi ragazzi nei campi di sterminio nazisti, ha scritto: «Il bambino è una pergamena completamente ricoperta di geroglifici minuti, di cui tu potrai decifrare solo una parte» [59]. La frase suona come invito alla discrezione, al rispetto, all'abbandono della pretesa di conoscere esaustivamente l'altro, quasi preludio al desiderio, consapevole o meno, di potere esercitare su di lui qualche forma di dominio. Già Lambruschini, a metà Ottocento, scriveva: «L'autorità sui cuori ci è consentita, la non si estorce; e chi la pretende, non l'ottiene» [60]. Era così efficacemente tratteggiata la questione pedagogica del rapporto autorità-libertà, a tutt'oggi di palpitante attualità [61]. Vi è anche da aggiungere, contro rischiosi equivoci, che fra educatore e educando, come in tutte le relazioni umane, comprese le più intime, una sorta di membrana sottile, eppure infrangibile, si frappone a qualsivoglia ipotesi di "fusione" delle anime. Conviene ricordare tutto questo in un tempo di molteplici e subdoli tentativi manipolatori ai danni dei minori.
    «Interno» ed «esterno», ovverosia «profondità» e «orizzontalità»: due dimensioni indisgiungibili della struttura personale. La prima, relativa alla tendenza della persona a stare e a rientrare in sé, indica la dimensione dell'interiorità. Altra categoria classica del pensiero occidentale, che dalle inarrivabili suggestioni agostiniane è andata via via rimodellandosi nel tragitto speculativo moderno, pervenendo alla piena affermazione della soggettività, anche se, non di rado, nel segno di un insuperabile immanentismo. L'interiorità rimanda al tema della coscienza. Oggetto di plurisecolare attenzione, negli ultimi decenni, è entrata nel raggio di ricerca delle filosofie della mente, delle scienze cognitive e delle neuroscienze. Notano gli esperti che, sebbene persista ancora «incertezza sulla natura della coscienza», questa ha però cessato «di essere un mistero insondabile per divenire un normale problema scientifico» [62]. L'osservazione ha una sua pertinenza. Ma, se si considera la coscienza nell'obiettiva estensione ontologica ed evolutiva, ricca d'implicanze etiche e psicologiche, risalta in tutta evidenza, anche sulla scia di un autore come Bernard Lonergan, l'irriducibilità della medesima a mere interpretazioni naturalistiche [63]. Con indubbia efficacia, un testo del magistero ecclesiastico contemporaneo la definisce «il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo» [64].
    Le implicanze pedagogiche derivanti dal profilo interiore/coscienziale della persona sono considerevoli. Non si dà educazione, se non come "accompagnamento" del soggetto verso una graduale e progressiva capacità di stare/rientrare in se stesso. È un esercizio ricco di molteplici e interagenti risvolti. Intanto stimola la dimensione riflessiva. La persona è logos, pensiero, ragione e, come tale, portata a interrogarsi e a interrogare, aprendosi intenzionalmente sull'intera cifra del reale. Risuona sempre efficace l'invito di Agostino: «noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas» [65]. Certo, il vescovo d'Ippona poteva affermare questo anche sulla scorta del convincimento secondo cui la struttura originaria dell'umano risulta indelebilmente segnata da una «Presenza», che è essa stessa «Verità», ossia parola definitiva di senso sulla realtà. Ma, quand'anche ci si fermi prima del passaggio specificamente teologico, il richiamo all'interiorità, come condizione necessaria per attivare il dinamismo coscienziale/riflessivo, che ha sempre pertinenza con la ricerca del vero, assume indiscutibile rilevanza antropologica e pedagogica [66].
    Sappiamo quanto sia forte, oggi, e non solo nel caso dei minori, il rischio della dispersione e della superficialità, favorita da numerosi fattori socio-culturali. Per questo occorre dedicare speciale cura all'opera di «risveglio» della capacità di pensare, riflettere, argomentare. Essa richiede, innanzitutto, uno sblocco della mente dall'assuefazione alla caleidoscopica cascata di segnali, messaggi, immagini, ingigantita dalla comunicazione mass-mediale e informatica, in direzione di una progressiva disponibilità per l'analisi paziente e il discernimento critico delle informazioni. Siamo (giovani e adulti) dinanzi a un paesaggio infestato da una molteplicità di idòla, che bisogna imparare a riconoscere e nominare. Questo movimento, per così dire, di pars destruens, va accompagnato con quello complementare di pars construens. L'educando deve essere indotto gradualmente a scoprire l'intera estensione e potenzialità della propria ragione, in grado, fra l'altro, di aprirsi alle domande «ultime» (o «prime»), attinenti alla verità, al bene, alla giustizia, ossia, all'«orizzonte di senso» [67]. In una stagione venata da intonazione nichilistica, ciò costituisce un punto pedagogicamente decisivo. Certo, al problema del senso, come ho già detto, si può rispondere in vari modi. Però, sul piano educativo, occorre saperne proporre uno che, agli occhi del minore, abbia un grado convincente di plausibilità. «Educare - è stato scritto con grande finezza - significa anticipare giudizi sul senso che avranno per altri le parole e le cose, gli scontri e le gioie dell'esistenza» [68].
    S'inserisce qui con logica conseguenza il tema della coscienza morale e dei valori, rispetto ai quali l'educazione non può restare afasica. Naturalmente, la questione si carica di tutta la complessità e problematicità di una temperie culturale come la nostra, dove i quadri di riferimento assiologici sono sfocati e instabili. Però, a stemperare esagerati toni allarmistici e insistenti appelli retorico-moralistici, giova ricordare che forse mai come oggi, almeno per certi aspetti, si sono compiuti passi di significativa rilevanza etica: li possiamo sintetizzare nel riconoscimento, non solo giuridico, della dignità di ogni persona, a prescindere da genere, età, cultura, religione. Se ne hanno importanti risvolti anche in ambito educativo e scolastico. Il fatto, poi, che il principio/valore possa essere disatteso, non ne intacca l'intrinseca validità. Sul piano educativo, occorre suscitare nel minore, contro il rischio del «sonnambulismo» assiologico, una coscienza desta, tale da consentirgli di comprendere progressivamente come la figura etica del «dover essere», che sollecita ad aderire al bene e al plesso di valori correlati, abbia corrispondenza con il compito indeclinabile della propria umanizzazione [69].
    A tale compito obbligante la persona può sottrarsi per vari motivi, compresa la colpevole negligenza. Di mezzo vi è sempre la decisione della libertà. Questa categoria chiave dell'antropologia, che la cultura moderno-contemporanea ci consegna con il carico di evidenze illuminanti, per altro, non disgiunte da ambiguità, resta il "cuore" anche della riflessione pedagogica. Infatti, se l'educazione si prefigge come fine quello di «condurre l'uomo verso la sua manifestazione» [70], ciò non potrà avvenire senza che egli dia prova di un adeguato impiego della libertà. Ma il cammino in direzione di una simile meta è lento e tortuoso. Richiede, in ogni caso, due movimenti interconnessi: l'uno (libertà da), di progressiva presa di distanza da lacci, vincoli, condizionamenti, interni ed esterni, che imbrigliano l'autonomia decisionale; l'altro (libertà per), di tensione verso un bene ritenuto meritevole della propria dedizione. In definitiva, si tratta di una libertà da liberare [71]. Di sicuro, il contesto socio-culturale non facilita l'approntamento di simili percorsi educativi. L'enfasi martellante sul potere di scelta individualistica, propiziato anche dagli interessi del mercato, crea presupposti sfavorevoli per un discorso "ragionevole" sulla libertà, che consenta di coglierne, fra l'altro, il nesso con la responsabilità da esercitare verso se stessi, gli altri, la società, la terra. Accanto ai messaggi "scientifici", che, enfatizzando il peso dei determinismi bio-neuronali, tenderebbero a smorzare le «ingenue narrazioni» sugli effettivi margini decisionali dell'individuo [72], si registra una diffusa propensione a interpretare la libertà come reiterata voglia di disporre di sé, dei propri simili e delle cose con un atteggiamento soggettivistico, di possesso e consumo brucianti. Da lì, l'inevitabile rischio di scivolamento in una percezione autoreferenziale della propria soggettività. Con tutte le difficoltà del caso per intraprendere percorsi educativi di qualche respiro.
    Dalla definizione boeziana in poi, l'interpretazione della persona ha puntato sulla componente razionale [73]. È un'acquisizione importante, ma meritevole, sul piano antropologico, d'integrazione. A tale proposito, va ricordato che la cultura post-moderna, con la presa di distanza dalla cosiddetta «ragione forte», ha impresso, fra l'altro, una decisa virata verso la dimensione affettiva. Il recupero di questa componente strutturale dell'umano costituisce un forte guadagno. Emozioni e sentimenti sono stabilmente al centro della riflessione culturale e della ricerca scientifica. Tuttavia, bisogna pur dire che nei vissuti personali essi, non di rado, plasmano un modo di sentire riduttivo, prossimo all'«io minimo» narcisistico di cui parla Christopher Lasch [74]. Il pericolo, in tale caso, è quello di abbandonarsi a un emozionalismo errabondo, chiuso nell'insaziabile consumo di esperienze auto-alimentatrici, sciolto da riferimenti e legami in grado di oltrepassare l'effervescenza momentanea. Ne abbiamo conferma dai comportamenti e dagli stili di vita di parecchi adolescenti e giovani [75]. Ovviamente, la messa in risalto della possibilità di simili sbocchi scivolosi non deve costituire motivo di diffidenza pedagogica nei riguardi della sfera affettiva. Anzi, va sottolineato con forza che un'educazione convincente muove da una prospettiva antropologica «olistica», dove trovano contemperato equilibrio l'homo rationalis e l'homo sentiens.
    Non senza una robusta dose di vena critica, i neurobiologi fanno notare come sin dalla più tenera infanzia si dia maggior credito ad attività congruenti con lo sviluppo dell'emisfero sinistro (quello del logos), a scapito dell'emisfero destro (quello del pathos). Pertanto, assistiamo con una certa frequenza a prassi educative incompetenti nell'accompagnamento affettivo. Vi è qui una sfida pedagogica di rilievo. Si tratta, infatti, di dare vita a un modello di educazione contraddistinto, nel medesimo tempo, da un pensare emotivo e da un sentire intelligente. Del resto, gli studi sull'apprendimento hanno da tempo posto in risalto la stretta circolarità fra la sfera intellettiva e quella affettiva [76]. Occorre, insomma, educare il e al «sentire». Esso implica, fra l'altro, la maturazione dell'attitudine all'ascolto di sé, del proprio mondo interiore, delle aspirazioni personali, dei desideri più intimi. Tutto questo si configura come aspetto importante dell'«educazione del cuore», capitolo ben noto nella tradizione educativa, ma bisogna so di essere ripreso con nuovo slancio, anche alla luce degli avanzamenti investigativi su affettività e sessualità [77].
    In tale ordine di considerazioni, si può opportunamente tornare sulla figura del desiderio. Hanno ragione Benasayag e Schmit quando scrivono che, in un tempo di globalizzazione, dove campeggia, sovente, l'invito a considerare l'altro (soprattutto se straniero) e il futuro come minaccia, diventa difficile proporre un'educazione orientata a «desiderare il mondo» [78]: cioè a far crescere nelle nuove generazioni aspirazioni grandi, capaci di misurarsi con il senso di realtà e di responsabilità nell'ampiezza dei loro significati e articolazioni.
    Dicevo della non infrequente accusa, mossa da parte "laica" al modello personalistico, di finire in uno "spiritualismo" astratto. Nulla di più discutibile. Per il personalismo, la persona è «spirito incarnato». Non sussiste, dunque, margine per un'antropologia evanescente; così come viene superato ogni retaggio di dualistiche separazioni fra «spirito» e «carne». In questa direzione va, fra le altre, la lezione di Mounier [79]. Nella composita sintesi di spirito e corpo, nonché nell'inestricabile gioco della loro reciproca interferenza sta l'unicum dell'essere umano. Una pedagogia della persona, pertanto, tiene ben vivo questo dato di fatto e muove da lì per un progetto educativo all'insegna della concretezza antropologica. Benché non esente da unilateralismi interpretativi ed enfatizzazioni discutibili, la «riscoperta» della corporeità, figlia, per molti versi, della cultura post-moderna, ci consegna importanti acquisizioni, avendo consentito di comprendere meglio i profili simbolico, comunicativo, sessuale del corpo [80].
    Sul versante pedagogico, l'attenzione alla componente corporea ha avuto particolare spazio in esperienze di educazione e scuola «attiva» del primo Novecento, con avvaloramento dell'educazione fisica, dei giochi all'aperto, di pratiche sportive, nonché di esercizi, almeno per i più piccoli, all'insegna di un certo «naturalismo», in controtendenza rispetto alla tradizionale prassi censoria e di rimozione delle problematiche relative alla sessualità [81]. Puritanesimo borghese e proibizionismo religioso hanno concorso nel determinare modelli educativi bloccati riguardo alla corporeità. La situazione è notevolmente migliorata, ma i problemi sussistono. Il principale mi sembra quello di favorire nei minori una graduale comprensione del significato «umano» del corpo-sessuato. Ciò implica un preliminare sguardo positivo su di esso. Solo così possono trarre slancio percorsi formativi in grado di far cogliere il valore intrinseco della corporeità, sottolineando, tuttavia, l'esigenza di un progressivo "controllo" del magmatico substrato pulsionale che la contrassegna. Risulta altresì importante definire, meglio forse di quanto sin qui fatto, proposte educative capaci di avvalorare le specificità di genere. Naturalmente, l'accento sulle differenze fra «maschile» e «femminile», a tutela da indistinti processi di omologazione, deve guardarsi dal riprodurre inveterati stereotipi socio-culturali [82].
    Entro queste considerazioni, non possiamo poi dimenticare il difficile rapporto di numerosi adolescenti e giovani con il proprio corpo, all'origine di patologie complesse da debellare, come l'anoressia e la bulimia. Né sono da sottostimare le varie forme di dipendenza del mondo giovanile da sostanze, videogiochi ecc., clamorosamente in contrasto con il pur conclamato desiderio personale di poter scegliere, in ogni circostanza, con piena libertà. Autonomia versus dipendenze: è un problema urgente e delicato, che tocca da vicino l'opera educativa rivolta alle nuove generazioni. Ugualmente da ricordare sono i non univoci effetti, sul piano personale, del processo, per così dire, di "protesizzazione" del corpo (enfatizzato dalla cultura del post- umano), con il prolungamento della mente e degli arti nell'oggettistica info-tecnologica (computer, cellulari, tablet). Assodati gli strabilianti vantaggi consentiti da tali strumenti, il punto in questione resta quello di favorire nel minore la comprensione delle loro logiche intrinseche, delle modificazioni da essi introdotte ai livelli relazionale e comunicativo, dei rischi di dipendenza assorbente e di rapporto avvolgente con il «virtuale» a detrimento del «reale» [83].
    Alla dimensione «interna», la persona - come si ricordava - affianca quella «esterna», di tipo «orizzontale». In quanto logos, l'essere personale è «parola» che parla non solo a se medesimo, ma anche agli altri, a loro volta produttori di «parole». Pertanto, la vita della persona risulta sotto il segno del dialogo. I personalisti del secolo scorso, pur con diversi accenti, hanno notoriamente insistito sulla dimensione dialogica. Al Convegno di Gallarate del 1950, dedicato a «Persona e società», Stefanini osservava: «Quanto più discendo in me tanto più trovo gli altri: e quanto più mi apro agli altri tanto più approfondisco me stesso» [84]. Era un'affermazione non "fideistica", ma conseguente a un'analisi onto-fenomenologica della persona. Quest'ultima, per dirla con Maritain, ha nell'«indigenza» e nella «sovrabbondanza» i caratteri che ne giustificano l'apertura orizzontale: la prima esprime la necessità di uscire da sé per completarsi con ciò di cui manca; la seconda indica la naturale propensione a comunicare all'esterno la propria ricchezza interiore, mediante atti di conoscenza, di volontà e d'amore [85]. Certo, la riflessione lévinasiana sul «volto» dell'altro, come «sguardo» e «presenza» funzionali alla definizione della stessa identità personale in un vincolo di reciproco «riconoscimento», ha ampliato suggestivamente il discorso sulla struttura relazionale del soggetto [86]. Tutto ciò autorizza a sostenere, diversamente da alcuni esiti pessimistici della riflessione contemporanea, la pertinenza di una visione antropologica aperta e "disponibile" (ancorché non ingenua) nei confronti dell'«alterità». Dunque, l'intrinseca dialogicità induce la persona a stabilire con l'altro e con gli altri un circolo discorsivo [87]. Si fonda su questa innata disposizione la possibilità dei legami interpersonali. Con ciò, tocchiamo un aspetto nevralgico dell'attuale sensibilità diffusa (a livello giovanile e non), dove spicca il desiderio di rapporti, salvo pregiudicarli rapidamente. È vero, come viene detto da più parti, che si tende a cercare relazioni, ma si rifugge dai legami. Una connotazione «liquida» - per dirla con Zygmunt Bauman - contrassegna in modo sempre più marcato l'odierna esperienza socio-relazionale [88].
    Di un simile stato di cose occorre tenere conto in un programma di educazione al senso dell'alterità e della socialità. Punto d'avvio resta la sensibilizzazione del minore alla cura dei «rapporti brevi», incominciando da quelli con il «tu» e con il «noi» dei gruppi di riferimento (famiglia, classe scolastica, associazioni). A questo proposito, diventa fondamentale la progressiva maturazione di virtù come rispetto, lealtà, cooperazione, convivialità. L'adolescenza, con l'insopprimibile bisogno di amicizia, costituisce snodo evolutivo di singolare rilevanza per sperimentarsi lungo quella direzione. Dalla cura per le «relazioni brevi» deve poi svilupparsi un percorso educativo nel segno di una socialità allargata, che, di gradino in gradino, salga sino all'idea e alla pratica di cittadinanza. Ad essa si collega il capitolo delle virtù civiche, con in cima partecipazione e legalità (quest'ultima, così negletta a livello nazionale [89]). L'educazione alla cittadinanza implica, nel caso nostro, anche adesione ai valori costituzionali. Su tale punto insiste la riflessione pedagogica, prospettando, specialmente con riguardo alla scuola, itinerari educativi per l'edificazione di un cittadino democratico, attivo e responsabile, in un'ottica aperta agli orizzonti meta-nazionali: un profilo - è il caso di osservare - meritevole di continui approfondimenti anche alla luce dei cambiamenti in atto nella società [90].
    Resta un ultimo passaggio. Oltre alle dimensioni dell'«interiorità» e dell'«orizzontalità», sulle quali non sembra difficile scorgere una convergenza di massima, ci si domanda se sia possibile ravvisare nella struttura ontologica della persona anche la linea della «verticalità», dell'intrinseca tensione verso l'Assoluto. Il pedagogista chiede ancora una volta soccorso al filosofo. Nel caso di risposta favorevole (e la migliore riflessione personalistica ne dà ampia conferma), si deve allora concludere che un'antropologia sporgente sulla trascendenza dischiude orizzonti inediti anche alla riflessione pedagogica e alla prassi educativa. Se poi, tramite Rivelazione, si arriva ad assegnare un «nome» e un «volto» «affidabili» all'Assoluto trascendente [91], allora l'auto-comprensione dell'uomo assume slarghi tanto insperati quanto sorprendenti. A questo punto, l'intonazione espressamente cristiana della prospettiva antropologica dovrebbe indurre a riprendere da capo la riflessione progettuale sopra suggerita. Per la pedagogia si porrebbe la necessità di tessere dialoghi interdisciplinari anche con l'antropologia teologica, in vista dell'edificazione dell'homo christianus [92]. Quanto acquisito dalla ricerca filosofica in chiave personalistica verrebbe allora integrato e "ri-compreso" in un'ottica ricca di nuovi significati. Va da sé che per incamminarci in tale direzione, dovremmo incominciare un altro, lungo discorso.

    NOTE

    1 Sul primo decennio dell'esperienza gallaratese, cfr. C. Giacon, Il Movimento di Gallarate. I dieci Convegni dal 1945 al 1954, CEDAM, Padova 1955.
    2 G. Calò, "Il problema pedagogico", in AA.VV., Il problema pedagogico. Atti del X Convegno del Centro di Studi Filosofici tra professori universitari - Gallarate 1954, Morcelliana, Brescia 1955, p. 19.
    3 Ivi, pp. 20-22. Le citazioni si rifanno al testo di sintesi presentato dal Calò. Per la relazione integrale, cfr. pp. 29-45.
    4 Cfr. G. Flores d'Arcais, "Il contributo del pensiero classico-medioevale alla pedagogia", in Il problema pedagogico, cit., pp. 23-25.
    5 L. Stefanini, "L'alternativa pedagogica", in Il problema pedagogico, cit., p. 46.
    6 G. Bontadini, "Pedagogia e metafisica", in Il problema pedagogico, cit., p. 101.
    7 Cfr.: G. Mari (a cura di), I Convegni di Scholé 1954-2004. Indici, La Scuola, Brescia 2004; Cinquant'anni di Scholé tra memoria e impegno, XLIII Convegno di Scholé, ivi, 2005; N. Galli, "Nel ricordo di cinquant'anni di Scholé", in L'educazione tra reale e virtuale, 50° Convegno di Scholé, ivi, 2012, pp. 17-28.
    8 L. Laberthonnière, Teoria dell'educazione con tre saggi minori (trad. dal francese), La Nuova Italia, Firenze 1968 (III ed.), p. 1.
    9 J. Maritain, L'educazione della persona (trad. dal francese), La Scuola, Brescia 1972 (V ed.), p. 33.
    10 Cfr. J. Gevaert, Il problema dell'uomo. Introduzione all'antropologia filosofica, ElleDiCi, Leumann (Torino), 1984 (V ed.); A. Margaritti, Antropologia fondamentale. Scritti, Glossa, Milano 2009, pp. 3-176.
    11 A rappresentare le due posizioni bastino i nomi di Aldo Agazzi (cfr. Saggio sulla natura del fatto educativo in ordine alla teoria della persona e dei valori, La Scuola, Brescia 1951, pp. 175-189) e di Pietro Braido (cfr. Filosofia dell'educazione, PAS-Verlag, ZUrich 1967, p. 5).
    12 Si veda G. Minichiello (a cura di), L'epistemologia pedagogica: stato dell'arte, Pensa MultiMedia, Lecce 2006.
    13 Cfr. le voci "Modello" (A. Pieretti) e "Modello. Concetto generale di" (S. Galvan), in Enciclopedia Filosofica. Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, Bompiani, Milano 2006, Volume ottavo, pp. 7513-7514, 7514-7522 (citazioni pp. 7517, 7519).
    14 Cfr. G. Dalle Fratte (a cura di), Teoria e modello in pedagogia, Armando, Roma 1986.
    15 Cfr. P. Nash, A.M. Kazamias, H.J. Perkinson (a cura di), Gli ideali educativi. Saggi di storia del pensiero pedagogico (trad. dall'inglese), La Scuola, Brescia 1972.
    16 Cfr. C. Scurati, Profili nell'educazione. Ideali e modelli pedagogici nel pensiero contemporaneo, Vita e Pensiero, Milano 1991.
    17 Per approfondimenti, si vedano: G. Cives, La filosofia dell'educazione in Italia oggi, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 71-77, 80-81; R. Fornaca, La pedagogia italiana contemporanea, Sansoni, Firenze 1982, pp. 227-234. Sul problematicismo banfiano e bertiniano, cfr. C.M. Bertin, "Introduzione. La filosofia dell'educazione di Antonio Banfi", in A. Banfi, La problematicità dell'educazione e il pensiero pedagogico, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. IX-XXXIII; S. Calvetto, Tra ragione ed esistenza. La filosofia dell'educazione di Giovanni Maria Bertin, Anicia, Roma 2007.
    18 Cfr. E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900/1943. In appendice Quindici anni dopo 1945/1960, Laterza, Bari 1966, volume secondo, pp. 567-577; F. Cambi, La «scuola di Firenze» (da Codignola a Laporta 1950-1975), Liguori, Napoli 1982; L. Bellatalla, John Dewey e la cultura italiana del Novecento, ETS, Pisa 1999; Id., "Dal laicismo deweyano agli interpreti laici nell'Italia dell'immediato dopoguerra", in G. Spadafora (a cura di), John Dewey. Una nuova democrazia per il XXI secolo, Anicia, Roma 2003, pp. 383-397; F. Cambi, M. Striano (a cura di), John Dewey in Italia. La ricezione/ripresa pedagogica. Letture pedagogiche, Liguori, Napoli 2010.
    19 Si vedano, in proposito: M.A. Manacorda, "Introduzione" ad A. Gramsci, L'alternativa pedagogica, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. IX-XXXIX; T. Tomasi, Scuola e pedagogia in Italia 1948-1960, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 117-143; G. Cives, La filosofia dell'educazione in Italia oggi, cit., pp. 109-127; R. Fornaca, La pedagogia italiana contemporanea, cit., pp. 246-253.
    20 Per un primo accostamento al dibattito sull'esistenzialismo nel secondo dopoguerra, cfr. E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900/1943. In appendice Quindici anni dopo 1945/1960, cit., pp. 538-561.
    21 L. Stefanini, Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico. Esposizione e critica costruttiva, CEDAM, Padova 1952, p. 97.
    22 Cfr. J.-L. Loubet Del Bayle, I non-conformisti degli anni Trenta (trad. dal francese), Edizioni Cinque Lune, Roma 1972.
    23 Cfr.: L. Caimi, La pedagogia cristiana in Italia fra totalitarismi e democrazia (1929-1954), in La pedagogia cristiana nel Novecento tra critica e progetto, XXX-VIII Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia 2000, pp. 56.70; F. De Giorgi, Alla ripresa della vita democratica e L. Caimi, Nell'Italia contemporanea, in Editrice La Scuola 1904-2004, Catalogo storico, a cura di L. Pazzaglia, ivi, 2004, pp. 60-68, 69-92.
    24 Cfr. J. Maritain, L'educazione al bivio (trad. dal francese), ivi, 1950.
    25 Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione post-moderna. Rapporto sul sapere (trad. dal francese), Feltrinelli, Milano 1981.
    26 Si veda la voce Postmoderno, a cura di R. Diodato, in Enciclopedia Filosofica, cit., Volume nono, pp. 8845-8848.
    27 Una panoramica degli indirizzi antropologici post-moderni è nel testo di I. Sanna, L'antropologia cristiana tra modernità e postmodernità, Queriniana, Brescia 2001, capp. III-VI.
    28 Cfr. A. Rizzi, Oltre l'erba voglio. Dal narcisismo postmoderno al soggetto responsabile, Cittadella, Assisi 2004 (II ed.), capp. I-111.
    29 Cfr. H. Marcuse, Eros e civiltà (trad. dal tedesco), Einaudi, Torino 1968.
    30 Cfr. E. Facchinelli, L. Muraro Vaiani, G. Sartori (a cura di), L'erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola, Einaudi, Torino 1971.
    31 Cfr. A.S. Neill, Summerhill. Una proposta contro la società repressiva (trad. dall'inglese), Forum, Milano 1969. Su questo autore, segnaliamo: G. Snyders, Le pedagogie non direttive (trad. dal francese), Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 3872; J.-F. Saffange, Libres regards sur Summerhill. L'œuvre pédagogique de A.-S. Neill, Peter Lang, Berne 1985; F. Codello, «La buona educazione». Esperienze libertarie e teorie anarchiche in Europa da Godwin a Neill, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 640-676.
    32 Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Capitalisme et schizophrénie. L'anti-Œdipe, Les Éditions de minuit, Paris 1972, pp. 7-50.
    33 Si vedano: R. Mancini, "Godimento e verità. La vocazione metafisica del desiderio", C. Vigna, "Desiderio e metafisica", M. Fornaro, "Il desiderio dal punto di vista psicoanalitico", in C. Ciancio (a cura di), Metafisica del desiderio, Vita e Pensiero, Milano 2003, rispettivamente alle pp. 3-21, 23-38, 53-76; Desiderio, a cura di C. Vigna, P. Bettineschi, M. Fornaro, G. Faggin, in Enciclopedia Filosofica, cit., Volume terzo, pp. 2730-2736; M. Signore, Economia del bisogno ed etica del desiderio, Pensa MultiMedia, Lecce 2009, pp. 195-222; M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2012.
    34 Cfr., di J. Derrida: De la grammatologie, Les gditions de minuit, Paris 1967; Margini della filosofia, a cura di M. Iafrida, Einaudi, Torino 1977, pp. 153-185.
    35 Per un'analisi critica di questo indirizzo, cfr. R. Diodato, Decostruzionismo, Bibliografica, Milano 1996.
    36 F.W. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Id., Opere (trad. dal tedesco), a cura di G. Colli, M. Montinari, Adelphi, Milano 1971, Volume VIII, Torno II, p. 12.
    37 Una disamina fortemente critica degli effetti pedagogici del nichilismo è offerta da G. Acone, Declino dell'educazione e tramonto d'epoca, La Scuola, Brescia 1994 (cfr., in particolare, capp. I-111).
    38 Cfr. M. Magatti, "La persona al tempo del capitalismo tecno-nichilista", in G. Mauri, G. Sbardella (a cura di), Personalismo oggi. La persona nell'era della bio-politica e del capitalismo tecno-nichilista, Effatà, Cantalupa (Torino) 2009, pp. 25-77. Di quest'autore, insieme con C. Giaccardi, si veda anche l'articolo "La sfida educativa al tempo del capitalismo tecno-nichilista", in Pedagogia e Vita, Annuario 2012, pp. 96-114.
    39 Cfr. G. Mollo, La via del senso. Alla ricerca dei significati dell'esistenza per un'autentica formazione culturale, La Scuola, Brescia 1996, passim.
    40 Fra la vasta letteratura in argomento, segnaliamo: I. Sanna (a cura di), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, Studium, Roma 2005; M. Farisco, Ancora uomo. Natura umana e postumanesimo, Vita e Pensiero, Milano 2011.
    41 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane (trad. dal francese), Rizzoli, Milano 1967 (II ed.), pp. 361-368.
    42 M. Farisco, Ancora uomo. Natura umana e postumanesimo, cit., p. 53.
    43 Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Capitalisme et schizophrénie. Mille plateaux, Le Éditions de minuit, Paris 1980, pp. 9-37, 185-204.
    44 Per approfondimenti, cfr. P. Sequeri, L'umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita e Pensiero, Milano 2002; L. Alici, Filosofia morale, La Scuola, Brescia 2011, passim.
    45 Di A. Bellingreri, cfr. Per una pedagogia dell'empatia, Vita e Pensiero, Milano 2005; Scienza dell'amor pensoso. Saggi di pedagogia fondamentale, ivi, 2007, Parte seconda.
    46 Cfr. E. Mann, La scuola dei barbari. L'educazione della gioventù nel Terzo Reich (trad. dall'inglese), Giuntina, Firenze 1997; L. La Rovere, "«Rifare gli italiani»: l'esperimento di creazione dell'«uomo nuovo» nel regime fascista" e S. Sheshunova, "L'idea dell'«uomo nuovo» nel comunismo sovietico", in Annali di storia dell'educazione e delle istituzioni scolastiche, 9, 2002, pp. 51-77, 79-96.
    47 Cfr. W. Reich, La lotta sessuale dei giovani (trad. dal tedesco), Samonà e Savelli, Roma 1972.
    48 Cfr. G. Angelini, Educare si deve ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002.
    49 Cfr. W. Brezinka, Educazione e pedagogia in tempi di cambiamento culturale (trad. dal tedesco), ivi, 2011, pp. 51-56. Riflessioni interessanti in argomento offre anche D. Demetrio, L'educazione non è finita. Idee per difenderla, Raffaello Cortina, Milano 2009.
    50 Cfr. L. Santelli Beccegato, Educare non è una cosa semplice. Considerazioni e proposte neo-personalistiche, La Scuola, Brescia 2009; N. Galli, L. Pati, "Il difficile compito di educare", in Pedagogia e Vita, Annuario 2012, pp. 19-50.
    51 Cfr. M. Benasayag, G. Schmit, L'epoca delle passioni tristi (trad. dal francese), Feltrinelli, Milano 2011 (VII ed.).
    52 Cfr. C. Scurati, "Spunti per una pedagogia della postmodernità", in G. Dalle Fratte (a cura di), Postmodernità e problematiche pedagogiche. Volume I. Modernità e postmodernità tra discontinuità, crisi e ipotesi di superamento, Armando, Roma 2003, pp. 143-156. Si veda anche F. Cambi, Abitare il disincanto. Una pedagogia per il post-moderno, UTET, Torino 2006.
    53 In questa direzione, cfr. G. Acone, Antropologia dell'educazione, La Scuola, Brescia 1997; V. Melchiorre, "Per un'antropologia pedagogica", in Pedagogia e Vita, Annuario 2012, pp. 51-62.
    54 Cfr. A. Rigobello, "Introduzione", in Id. (a cura di), Il personalismo, Città Nuova, Roma 1975, pp. 73-83.
    55 Cfr. P. Ricoeur, Muore il personalismo, ritorna la persona... (trad. dal francese), in Id., La persona, a cura di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 1998 (II ed.), pp. 21-36.
    56 G. Flores d'Arcais, "Personalismo pedagogico o pedagogia della persona?", in Id. (a cura di), Pedagogie personalistiche e/o pedagogia della persona, La Scuola, Brescia 1994, p. 134.
    57 Cfr.: V. Melchiorre (a cura di), L'idea di persona, Vita e Pensiero, Milano 1996; Id., Breviario di metafisica, Morcelliana, Brescia 2011, pp. 121-143.
    58 Cfr. la voce "Persona", a cura di L. Stefanini e F. Riva, in Enciclopedia Filosofica cit., Volume nono, pp. 8526-8535.
    59 J. Korczak, Comment aimer un enfant, R. Laffont, Paris 1978, p. 28.
    60 R. Lambruschini, Della educazione, a cura di M. Casotti, La Scuola, Brescia 1983 (XVII ed.), p. 85 (è il caso di notare che questo scritto incominciò a uscire a puntate nel 1836 sulla rivista «Guida dell'educatore», promossa dallo stesso studioso).
    61 Cfr. L. Pati, L. Prenna (a cura di), Ripensare l'autorità. Riflessioni pedagogiche e proposte educative, Guerini, Milano 2008. Di notevole penetrazione filosofica è il volume di S. Biancu, Saggio sull'autorità, EDUCatt, Milano 2012. Nella scia di queste considerazioni si colloca oggi, con una particolare densità, il problema dei rapporti intergenerazionali. Al riguardo, significativi spunti pedagogici si possono vedere in: I. Lizzola, Di generazione in generazione. L'esperienza educativa tra consegna e nuovo inizio, Franco Angeli, Milano 2009; G. Savagnone, A. Briguglia, Il coraggio di educare. Costruire il dialogo educativo con le nuove generazioni, ElleDiCi, Leumann (Torino) 2009.
    62 Cfr. la voce "Coscienza", a cura di A. Guzzo e S. Nannini, in Enciclopedia Filosofica, cit., Volume terzo, p. 2324.
    63 Cfr. P. Triani, Il dinamismo della coscienza e la formazione. Il contributo di Bernard Lonergan ad una «filosofia» della formazione, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 105-215.
    64 Concilio Ecumenico Vaticano II, Lumen gentium, 16.
    65 S. Agostino, De vera religione, in Id., De Magistro - De vera Religione, a cura di D. Bassi, Edizioni testi cristiani, Firenze, 1930, Cap. XXXIX, 72.
    66 Cfr. P. Triani, Il dinamismo della coscienza e la formazione. Il contributo di Bernard Lonergan ad una «filosofia» della formazione, cit., pp. 285-296.
    67 Cfr. Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana (a cura di), La sfida educativa. Rapporto-proposta sull'educazione, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 5-6, 19-20.
    68 M. Léna, Lo spirito dell'educazione (trad. dal francese), La Scuola, Brescia 1986, p. 91.
    69 Sul tema, cfr., ad esempio: E. Giammancheri, M. Peretti (a cura di), L'educazione morale, La Scuola, Brescia 1977; L'educazione morale nella società attuale, XXIX Convegno di Scholé, ivi, 1991.
    70 M. Léna, Lo spirito dell'educazione, cit., p. 38.
    71 Cfr.: O. Dühr, Educazione alla libertà (trad. dal tedesco), La Scuola, Brescia 1971 (II ed.); G. Sovernigo, Divenire liberi. Educazione alla libertà, ElleDiCi, Leumann (Torino) 1978. Si veda anche E. Colicchi, A.M. Passaseo (a cura di), Educazione e libertà nel tempo presente. Percorsi, modelli, problemi, Armando Siciliano, Messina 2008.
    72 Cfr. M. Santerini, Educazione morale e neuroscienze. La coscienza dell'empatia, La Scuola, Brescia 2011, in particolare capp. I-III.
    73 «Persona est naturae rationalis individua substantia»: A.M.S. Boetii, Liber de persona et duabus naturis, in J.-P. Migne, Patrologiae Latinae, Tomus LXIV, Caput III, Col. 1343.
    74 Cfr. C. Lasch: L'io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un'epoca di turbamenti (trad. dall'inglese), Feltrinelli, Milano 2004; La cultura del narcisismo. L'individuo in fuga dal sociale in un'età di disillusioni collettive (trad. dall'inglese), Bompiani, Milano 1992 (III ed.).
    75 Istruttivo, in proposito, è il saggio di U. Galimberti, L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2010 (XIII ed.). Cfr. anche L. Caimi (a cura di), Il confine sottile. Culture giovanili, legalità, educazione, Vita e Pensiero, Milano 2012.
    76 Si vedano, a titolo esemplificativo: F. Montuschi, Vita affettiva e percorsi dell'intelligenza, La Scuola, Brescia 1983; D. Goleman, Intelligenza emotiva (trad. dall'inglese), Rizzoli, Milano 1996; F. Cambi, Mente e affetti nell'educazione contemporanea, Armando, Roma 1996; M. Franco, L. Tappatà, Intelligenza socio-emotiva. Cos'è, come si misura, come svilupparla, Carocci, Roma 2007.
    77 Cfr. B. Rossi, Avere cura del cuore. L'educazione del sentire, Carocci, Roma 2006, pp. 9-152. Vi si aggiunga: F. Cambi (a cura di), Nel conflitto delle emozioni. Prospettive pedagogiche, Armando, Roma 1998.
    78 M. Benasayag, G. Schmit, L'epoca delle passioni tristi, cit., p. 57.
    79 Cfr. E. Mounier, Il Personalismo (trad. dal francese), a cura di G. Campanini e M. Pesenti, AVE, Roma 2004 (XII ed.), pp. 43-56.
    80 Per un inquadramento filosofico-culturale del tema, cfr.: X. Lacroix, Il corpo di carne. La dimensione etica estetica e spirituale dell'amore, EDB, Bologna 1997; A. Margaritti, Antropologia fondamentale. Scritti, cit., pp. 273-287. Sul versante pedagogico, si veda A. Mariani (a cura di), Corpo e modernità. Strategie di formazione, Unicopli, Milano 2004.
    81 Cfr. A. Ohayon, D. Ottavi, A. Savoye (Eds.), L'Éducation nouvelle, histoire, présence et devenir, Peter Lang, Bern 2004, passim.
    82 Cfr. L. Santelli Beccegato, Educare non è una cosa semplice. Considerazioni e proposte neo-personalistiche, cit., pp. 181-206.
    83 Per uno sguardo d'insieme in un'ottica interdisciplinare sulle tematiche accennate, si veda: L'educazione tra reale e virtuale, 50° Convegno di Scholé, cit.
    84 L. Stefanini, Personalismo sociale, Studium, Roma 1952, p. 62.
    85 Cfr. J. Maritain, La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 1963 (II ed.), pp. 29, 46.
    86 Cfr. E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità (trad. dal francese), Jaca Book, Milano 2010, pp. 199-224.
    87 Cfr. F. Riva, "Una possibilità per l'altro. Lévinas, Marcel, Ricoeur", in Id. (a cura di), Il pensiero dell'altro con un dialogo tra E. Lévinas e P Ricoeur, Edizioni del Lavoro, Roma 1999, pp. VII-LXVI. Si tenga presente anche M. Buber, Il principio dialogico (trad. dal tedesco), Edizioni di Comunità, Milano 1958.
    88 Di Z. Bauman, cfr Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi (trad. dall'inglese), Laterza, Roma-Bari 2004; Vita liquida (trad. dall'inglese), ivi, 2011.
    89 Cfr. L. Caimi, Fondamenti pedagogici per una cultura della legalità, in Id. (a cura di), Per una cultura della legalità. Dinamiche sociali, istanze giuridiche e processi formativi, I.S.U. Università Cattolica, Milano 2005, pp. 67-87; I. Di Dedda, Educare alla legalità. Sui sentieri della «vita buona», AVE, Roma 2012.
    90 Segnaliamo, a titolo esemplificativo: A. Cavalli, G. Deiana, Educare alla cittadinanza democratica. Etica civile e giovani nella scuola dell'autonomia, Carocci, Roma 1999; M. Santerini, Educare alla cittadinanza. La pedagogia e le sfide della globalizzazione, ivi, 2001; L. Corradini, W. Fornasa, S. Poli (a cura di), Educazione alla convivenza civile. Educare istruire formare nella scuola italiana, Armando, Roma 2003.
    91 Cfr. P. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996.
    92 Si veda il saggio di F.G. Brambilla, Antropologia teologica. Chi è l'uomo perché te ne curi?, cit., 2005.

    (da: Mario Signore, a cura, Ripensare l'educazione, 2013, Pensa MultiMedia editore, pp. 29-60)


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