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    (NPG 1969-10-83)

    LA SCUOLA NON È ANCORA PER TUTTI

    A dodici anni rinunciano alla scuola

    Scrive «Epoca» dell'i 1-5-1969: «Quasi la metà dei ragazzi italiani rinuncia a studiare fra i 12 e i 13 anni. A questa conclusione è giunto un recente sondaggio della DOXA, condotto su un vasto campione che rappresenta le regioni e classi italiane. Il risultato coincide con quello di un'altra indagine eseguita nel 1963, e il fatto che in sei anni nulla sia sostanzialmente mutato depone a sfavore della scuola e delle famiglie, che non avvertono ancora la necessità di una istruzione adeguata per i propri figli. Ma ecco alcuni dati emersi dall'inchiesta. I ragazzi che appartengono a famiglie borghesi o medioborghesi continuano gli studi fino ai 18 anni e oltre, mentre il cinquanta per cento dei ragazzi della piccola borghesia e del proletariato cessano di studiare a 12 anni, e II limite si abbassa fino a II anni nelle famiglie di operai non specializzati, di lavoratori agricoli, di piccoli artigiani, di venditori al dettaglio. Sul fenomeno non incidono in misura rilevante le differenze geografiche, come si potrebbe pensare, ma quelle esistono fra i piccoli centri e le grandi città. Nel corso del sondaggio è stato chiesto ai ragazzi – soprattutto a quelli che hanno smesso di studiare – quali sono, in realtà, le loro aspirazioni indipendentemente dalle possibilità economiche della famiglia e dalla situazione ambientale. Ebbene, il 53,4 per cento ha risposto che completerebbe gli studi, almeno fino all'ultima classe della media Inferiore, il 12,4 per cento vorrebbe continuarli fino a 16 anni, il 13,4 per cento fino a 18 anni e il 3,5 per cento anche oltre questo limite. Soltanto il 7,3 per cento è convinto che sia sufficiente andare a scuola fino al quattordicesimo anno d'età. "Poi", ha detto un ragazzo, "dobbiamo pensare a noi stessi o alle nostre famiglie"».

    Discriminazione scolastica

    E S.G. in «La Tecnica della Scuola» (16-2-1969) scrive:
    «In una città all'avanguardia del fatto educativo, a Milano, abbiamo seguito l'iter dell'obbligo scolastico di una classe di trenta ragazzi di sesso maschile, di leva alla prima elementare fino alla terza media. I risultati sono allarmanti e degni di considerazione, specie quando si tien conto della situazione degli altri posti dove non esistono doposcuola o comunque corsi di recupero. Ebbene, in prima classe la maestra, di ruolo, ne respinse 4; in seconda la commissione ne respinse 3; le cose non cambiarono quando, all'inizio del secondo ciclo, la classe fu affidata a un maestro, di ruolo. Egli ne respinse 2 in terza e 2 in quarta classe; in quinta la commissione ne respinse 5.
    Giunti alla scuola media le cose peggiorarono: 6 furono respinti in prima; 2 in seconda; nessuno in terza. E così, dei trenta ragazzi, solo 6 giunsero a completare l'iter dell'obbligo scolastico senza alcuna bocciatura, cioè appena il 20%; mentre il rimanente 80% venne sistematicamente liquidato nel corso degli anni. Dei ragazzi respinti, due non ottennero la licenza elementare e 7 quella media. Attualmente 3 di essi frequentano le scuole serali del Comune.
    Dei trenta ragazzi, 16 provenivano da famiglie di operai, di cui 10 con oltre due figli; 10 da famiglie di impiegati e diplomati; 2 da benestanti; 3 da padre laureato; 1 da madre laureata. Ironia della... sorte: mantennero costantemente la leva scolastica proprio gli ultimi 6 ragazzi!».

    Azione pastorale ed educativa

    Dinanzi a questi fatti dobbiamo dire che Lettera ad una Professoressa aveva la sua ragion d'essere!
    Ma dopo lo scalpore di pochi mesi, tutto resta come prima. Ma che c'entra tutto questo con la nostra azione pastorale?
    Come sacerdoti ed educatori non possiamo essere insensibili al problema: sono anime che soltanto attraverso una istruzione e formazione più ampia ed efficace potranno sentirsi più uomini e quindi più cristiani.
    Se sacerdoti in cura d'anime, dobbiamo sensibilizzare anzitutto le famiglie, affinché sentano il dovere di dare ai figli una istruzione più ampia possibile, anche a costo di sacrifici. Nessun capitale sarà meglio impiegato che nel dare ai figli una cultura e una preparazione specifica che li abiliti domani ad un impiego, ad una professione sicura e proficua.
    Nella predicazione alle categorie professionali, dobbiamo agli insegnanti saper dire che il loro primo dovere, che nasce dalla loro vocazione di maestri, è – secondo il vangelo – istruire i più poveri, i più bisognosi di cultura, i più impreparati ad un linguaggio proprio ed efficace, anche se è più facile lasciarsi prendere dalla tentazione di correre dietro ai molti Pierini fortunati, che già fuori dalla scuola hanno potuto imparare ad esprimersi, a dire con prontezza ed efficacia, e conoscono tutto, perché già informati dalla televisione, dalle enciclopedie, dal viaggiare continuo assieme ai genitori fortunati.
    Se poi siamo educatori e insegnanti, domandiamoci se anche noi non abbiamo soggiaciuto alla tentazione di vedere solo i più bravi fra i nostri scolari, i quali non sempre sono i veri dotati di particolari doni di natura, ma soltanto hanno avuto, per le condizioni sociali dei genitori, una istruzione ampia, chiara, efficace fin dai primi anni della loro infanzia. Sono pronti, spigliati, perché sanno parlare, perché conoscono già molte cose di quel nozionismo che noi crediamo sia l'apice della cultura, mentre non ci accorgiamo come talora brilli agli occhi dei nostri scolari «più poveri» una idea capita, ma che noi crediamo ch'essi non abbian neppur afferrata, perché non la sanno esprimere.
    Davanti al numero di questi «poveri intellettuali», che sono ancor tanti nella fascia della scuola d'obbligo, un vero insegnante proprio perché dovere inerente alla sua missione, non li può trascurare con disinvolta faciloneria, non li può buttar fuori o tenere da parte come una classe che non gli appartiene, ma nello spirito della nuova scuola – che è anzitutto spirito di autentico vangelo – deve ritenere questi tali come la porzione più cara, cui deve andare tutto lo sforzo della sua preparazione e della sua didattica, per poter dire, come Gesù, il primo Maestro: Non voglio, o Padre, che nessuno di quanti mi hai affidato, vada perduto... per colpa mia.
    (Ivo Paltrinieri)

    Le scuole cattoliche in crisi

    L'imponente sistema delle scuole cattoliche in USA (più di 10.000) ha registrato in questi anni un primo rilevante ribasso del numero degli scolari con evidente tendenza ad aggravarsi nei prossimi anni. Il fenomeno è stato segnalato e illustrato da mons. Danohue, direttore della commissione episcopale per l'insegnamento primario e secondario, il quale ha affermato che «comunque lo si affronti, entro il 1975 il sistema delle scuole cattoliche in questo paese sarà ridotto alla metà di quel che era 5 anni fa».
    La crisi denunciata si basa sulle cifre: nel 1964-1965 più di 6 milioni di allievi, nel 1966-1967 si passa a 5.485.000, nel 1967-1968 a 5.241.000, nel 1968-1969 a 5.000.000. Per il 1975 si prevede un ribasso fino a 3 o 3 milioni e mezzo di allievi. La crisi tocca quasi esclusivamente le scuole primarie. Di queste ne sono state chiuse 50 nel 1967, 152 nel 1968, 225 nel 1969, più 93 in vista entro l'autunno.
    Sono stati anche individuati i motivi della crisi, di cui i principali sono: 1) diminuisce il numero dei religiosi insegnanti e aumenta quello dei laici, il che comporta maggiori oneri finanziari; 2) cresce l'esodo dai centri urbani verso la periferia, che spesso è priva di scuole cattoliche; 3) si cerca di ridurre il numero di allievi nelle singole classi, il che eleva le quote scolastiche; 4) diminuisce la natalità tra i cattolici; 5) alcuni ritengono le scuole cattoliche come dei doppioni di quelle di stato; 6) cresce sempre il dubbio sul valore di un insegnamento esclusivamente cattolico. Da notare che in USA le scuole libere non ricevono nessuna sovvenzione dallo stato.
    Nella prospettiva di evitare il peggio, che sarebbe la chiusura delle scuole cattoliche, si tentano delle soluzioni sperimentali. Una è di agganciarle alle scuole di stato per alcune materie, un'altra è di fonderle il più possibile. A S. Francisco, per esempio, in media su 4 scuole, 3 si sono fuse per impartire l'insegnamento fino a un determinato livello, e la quarta lo continua fino al termine. Manca tuttavia un piano organico di riforma e soprattutto la disponibilità di affrontarlo realisticamente in molti parroci tenacemente attaccati alle loro scuole parrocchiali.
    (Settimana del Clero)

    I professori non credono più nella missione dell'insegnamento

    Gli insegnanti appaiono troppo spesso come dei personaggi contraddittori, frustrati, teorizzatori, delusi da una realtà che tuttavia hanno volontariamente scelto». Questa è la sintesi di un'inchiesta, apparsa su «Panorama» (n. 161 - 15 maggio 1969) in un articolo a firma di Luigi Vacchi. Sono stati intervistati 720 professori della scuola d'obbligo nelle province-campione di Milano e Bari, da parte del prof. Vincenzo Cesareo, assistente di sociologia all'Università Cattolica di Milano. Dalla massa delle risposte sono emersi alcuni punti interessanti.
    In primo luogo, il 40% degli intervistati non si considerava affatto come «professionisti», ma come «semplici impiegati»: è la caduta totale dell'insegnamento inteso come missione. Le affermazioni contrarie («Questo lavoro mi piace perché mi permette di stare a contatto con i ragazzi e di dare loro qualcosa di mio») sono troppo poche.
    Grave (pur se non nuova) anche l'affermazione «all'inizio della propria attività professionale si è trovato impreparato a trattare con gli allievi» (1 insegnante su 4).
    Questo è uno dei motivi della caduta della stima e dell'apprezzamento di cui una volta godeva il professore. Ad esso vanno aggiunte molte altre cause tra le più disparate e contrastanti: dalla poca considerazione del governo agli scioperi scolastici, dalla disistima generale per la cultura all'innalzamento del livello medio di istruzione.
    Un altro punto di notevole importanza riguarda il capo d'istituto; esso, infatti, «appare secondo un buon numero di intervistati come un funzionario prevalentemente conservatore, preoccupato del mantenimento della stabilità del sistema piuttosto che aperto alle innovazioni». Di conseguenza, solo 404 docenti su 713 si dichiarano in buoni rapporti col preside, mentre 122 si dicono «in rapporti apertamente conflittuali col capo d'istituto».
    Degni di maggior considerazione appaiono altri due rilievi.
    Quello delle famiglie, «che non hanno una precisa collocazione nell'istituzione e recitano un ruolo appena periferico». Il 30% degli intervistati ha affermato che i genitori vanno a parlare con i professori quattro o più volte all'anno, mentre il 40% è dell'opinione che i familiari non si muovano più di due o tre volte, più raramente ancora secondo un altro 30%». Non solo: «Si tratta di rapporti che spesso si risolvono in un conflitto aperto. Non ci si comprende. I genitori considerano l'insegnante come un giudice». Tutto si potrebbe risolvere, secondo il 55% degli intervistati, con la partecipazione dei genitori alla gestione dell'istruzione pubblica.
    «Ma il punto più dolente rivelato dall'inchiesta, riguarda la nuova scuola media». La grande maggioranza dei professori si rivela più o meno apertamente classista e legata a concezioni sociali ormai superate. «Cinque anni dopo la riforma, solo 249 dei 720 insegnanti intervistati (uno su 3) l'approvano. Le motivazioni di coloro che la rifiutano a volte sono agghiaccianti: «Con la riforma si è voluto andare contro natura, imponendo a ragazzi non dotati di accedere alla istruzione media»; «La scuola si è abbassata di livello perché è frequentata da un più vasto ceto popolare»; «La riforma è stata una grossa fregatura. Hanno eliminato la riforma Gentile solo perché era stata fatta in tempo di regime mentre andava benissimo». Sono risposte del nord industrializzato. I docenti del sud si rivelano più pittoreschi, parlano di scuola-Upim, di scuola-Standa, di ciucciaggine più diffusa, ma la sostanza non cambia: il classismo nell'istruzione ha ancora radici tenaci. aggiungiamo noi, i professori – o almeno quelli responsabili delle affermazioni sopra riportate – non si sono affatto preoccupati non solo di adeguarsi, ma nemmeno di studiare i metodi e i fini della nuova scuola media, limitandosi ad un cambiamento di programmi e di moduli da compilare.
    (Umberto Bardella)

    Movimenti di ragazzi di A.C.

    Si è svolto a Roma il Convegno unitario dei quattro Movimenti di ragazzi di A.C. e cioè Aspiranti GIAC e GF; Beniamine della GF e Fanciulli dell'UDACI. È la prima volta che i responsabili diocesani del Movimento che rappresentano attualmente l'Azione Cattolica dei ragazzi si trovano insieme per un impegno di così grande importanza.
    È un fatto molto significativo che i quattro Movimenti abbiano trovato una occasione tanto densa di conseguenze, qual è un Convegno Nazionale, per convergenze di idee, di programmi, di intenti, di impegno comune. Non è casuale che nel momento stesso in cui va prendendo corpo il nuovo statuto dell'A.C., i quattro Movimenti abbiano badato a dare un segno di unità sostanziale nella ricerca e nell'approfondimento del comune obiettivo: l'educazione dei ragazzi nel senso della Chiesa. La collaborazione dei quattro Movimenti assume l'aspetto e la forza di un gesto significativo sia per l'A.C. sia per la Chiesa italiana per sollecitare l'attenzione sopra uno dei problemi più gravi e più urgenti della nostra società, cioè l'educazione dei ragazzi.
    Due sono stati i temi di fondo sui quali il Convegno ha dibattuto: la Carità, come fondamento della vita dei gruppi, dei Movimenti e lo Statuto dell'Azione Cattolica dei ragazzi.
    Il tema Crescere nella Carità era un invito alla coscienza di ogni partecipante sia come persona sia come responsabile di un movimento educativo.
    La Carità è la vita stessa della Chiesa e si pone come perenne offerta alla maturazione di una spiritualità viva di giovani responsabili. In questo senso il Convegno ha inteso stimolare i presenti a «Crescere nella Carità»; cioè ad essere sempre più consapevolmente «uomini delle fonti», a saper cogliere il nucleo essenziale del messaggio cristiano e farlo proprio come modo di essere non come dato culturale da acquisire. A questo scopo mirava da una parte la relazione introduttiva e fondamentale del Convegno e dall'altra lo spirito di ogni altro momento (relazioni, gruppi di lavoro, dibattiti, liturgia, vita comunitaria) del Convegno stesso.
    Inoltre il tema ha permesso un più particolareggiato esame dei temi tipici dei movimenti.
    I delegati e le delegate Aspiranti GIAC e GF hanno potuto rivedere con attenzione critica la globalità del loro «discorso» alla luce della Carità, soffermandosi in distinti gruppi di lavoro sulle finalità, sul gruppo e i suoi momenti di vita, sull'educatore con la decisa volontà di riscoprire i modi più consoni attraverso i quali poter rendere il Movimento un'occasione per i ragazzi di «Crescere nella Carità».
    Le delegate Beniamine e Fanciulli, in successive relazioni e discussioni, hanno esaminato la capacità di amare nel bambino, il posto della delegata nel gruppo e il modo col quale la Carità viene assunta nel programma per il prossimo anno.
    L'ultima giornata del Convegno ha visto di nuovo i partecipanti dei quattro Movimenti insieme per discutere il problema dello Statuto, per quello che specificamente riguarda l'Azione Cattolica dei Ragazzi. Ha introdotto i lavori il professor Vittorio Bachelet, Presidente Generale dell'A.C.I.
    Bachelet ha esordito rilevando la «crisi delle vocazioni educative», quindi ha fatto il quadro dello Statuto notando come si sia partiti dalla 4 note dell'A.A., per poi seguire una triplice esigenza di semplificazione, di pluralità, di distinzione. Infine ha sottolineato l'importanza che da sempre l'A.C. ha assegnato ai ragazzi e che la stessa Commissione incaricata di preparare una prima bozza dello Statuto ha sancito riconoscendo al «Movimento Ragazzi un posto di certo rilievo. 
    Dopo la prolusione del Presidente Generale i lavori sono proseguiti dapprima con un breve dibattito in gruppi-studio sulla base di un'apposita traccia elaborata dagli Uffici Centrali, indi con una discussione comune, infine con le conclusioni dei lavori fatte da Lucio Capoccia, Delegato Centrale Aspiranti GIAC. Egli, dopo aver insistito sull'importanza che riveste l'argomento dello Statolo al punto del «pretendere» da parte di tutti la necessaria attenzione, ha Indicato gli elementi positivi che è doveroso rilevare nella bozza di Statuto. «Ma la responsabilità con la quale ci pare di dover agire – ha detto – ci autorizza a non ritenerci soddisfatti di quanto ci viene riconosciuto». Ha quindi ripreso i tre punti in cui si articola la richiesta degli Uffici Centrali alla Commissione per lo Statuto sui quali già la discussione precedente aveva trovato larghi consensi (legittimità dell'Azione Cattolica dei Ragazzi, autonomia del Settore Ragazzi nell'unità dell'A.C.I., il problema degli educatori). L'intervento (e con esso i lavori relativi alla discussione dello Statuto) si è chiuso con un invito ai Convegnisti da una parte a continuare il dibattito sul problema dell'A.C.R. in diocesi a tutti i livelli in modo da saper giudicare e prepararsi all'imminente futuro con la saggezza necessaria, con la serietà che l'argomento merita e con la mai troppa cognizione di causa, dall'altra a prendere sempre più chiara coscienza dell'importanza che ha oggi l'educazione dei ragazzi per la società e per la Chiesa.
    (Gioventù)

    La comparsa di un nuovo essere umano è un momento sacro, in cui la potenza creatrice di Dio si manifesta in maniera tutta particolare. Infatti, i miei genitori non hanno voluto proprio«me». Desideravano un maschietto, una femminuccia.
    Soltanto Dio ha voluto me.

    Il Nuovo Catechismo Olandese

     


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