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    Come studiare un gruppo in crisi



    Silvana Bottignole

    (NPG 1979-10-57)


    PREMESSA

    «Siamo in crisi» è divenuta un'espressione di moda tra i componenti di vari gruppi. Pare, però, che il prendere sul serio tale espressione – equivalente in un certo senso alla frase «siamo ammalati» – sia un po' meno di moda. Una persona ammalata deve in primo luogo riconoscere di essere tale, cercare di stabilire i sintomi del male, ricorrere se necessario al medico e sottoporsi con serietà e costanza alle cure adatte. Tale procedura dovrebbe essere sostenuta dalla ferma intenzione di guarire e non di crogiolarsi nello stato di malattia. Così un gruppo che si dica «in crisi» dovrebbe riuscire a definire questa crisi con fatti e dati concreti, tentare rimedi resi efficaci soltanto dalla forte volontà di tutti o della maggior parte dei componenti del gruppo di uscire dallo stato di «crisi» ed, eventualmente, consultare qualche esperto. Come una malattia può essere mortale così la «crisi» di un gruppo può essere di tale portata che ci si trova di fronte ad un «non c'è più niente da fare». Però, prima di darsi per vinti, è sempre consigliabile analizzare accuratamente le cause della crisi non fosse altro che per trarne insegnamenti utili per il futuro (l'autopsia non ha sempre avuto una sua validità?)... e, poi, se qualche componente del gruppo (che dice di essere cristiano) prega veramente, chissà, ci si potrebbe trovare di fronte a situazioni, che sanno del miracoloso e sfuggono perciò a tutte le tecniche di studio.
    Ho studiato con la collaborazione di parecchi dei suoi componenti un gruppo, che ha fatto veramente epoca ma che al momento della ricerca era in uno stato di «crisi», reso ancora più profondo dalla gloriosa eredità. Presenterò i sintomi della crisi, come percepiti e descritti dai componenti del gruppo, i presupposti teoretici sui quali si è basata la ricerca, il piano della ricerca, la metodologia e le tecniche usate ed, infine, alcuni dei risultati più rilevanti e le decisioni alle quali i componenti del gruppo sono pervenuti. Dove necessario mi soffermerò in spiegazioni un po' più dettagliate e darò qualche suggerimento per aiutare coloro che, eventualmente, volessero ripetere la nostra esperienza.

    I SINTOMI DELLA «CRISI»

    Il gruppo, sorto dieci anni fa in una parrocchia periferica di una grande città industriale, era, al momento della ricerca (aprile-maggio 1979), composta da circa un'ottantina di persone, che suddivise per età (1518, 19-22, 23-30 anni) formavano tre gruppi distinti. I componenti dei vari gruppi erano impegnati in alcuni servizi sia in parrocchia che in quartiere e, suddivisi ulteriormente in dieci comunità avrebbero dovuto incontrarsi per momenti di revisione di vita ed approfondimento della Parola. Dopo dieci anni di vita attivissima anche se la composizione numerica, la struttura ed il tipo di attività potevano sembrare notevoli a chi avesse confrontato questo con altri gruppi ecclesiali, la crisi del gruppo si presentava con sintomi abbastanza evidenti.
    Il primo sintomo macroscopico era rivelato dalla composizione numerica: nell'agosto del '78 i ragazzi al disotto dei 23 anni erano circa ottanta ed al momento della ricerca (maggio '79) raggiungevano a mala pena la cinquantina, di cui meno di dieci dichiaravano di avere 15 o 16 anni. Il gruppo, perciò, non solo non aveva attratto altre persone ma aveva subìto, soprattutto tra i più giovani, un grave salasso.
    Il morale bassissimo di tutti i «superstiti» era un altro sintomo visibile e chiaramente denunciato. Perché il morale era così basso? Qualcuno attribuiva la causa al cambiamento dell'assistente ecclesiastico, che aveva seguito il gruppo dal suo nascere, altri sottolineavano il fallimento di alcuni servizi, resi in parrocchia, ed altri ancora (i più vecchi) addossavano gran parte della colpa ai più giovani, che pareva non sapessero più impegnarsi come loro.
    Infine l'ultimo grave sintomo, denunciato soprattutto dai più giovani, era costituito dall'indifferenza quasi totale verso coloro che se ne erano andati e dall'ignorare la «crisi» di alcune comunità, che non avevano «girato» per tutto l'anno.
    In un'assemblea, tenutasi a fine aprile ed a cui parteciparono circa 40 persone, chiesi ai componenti del gruppo se erano coscienti che il gruppo aveva «il polso molto basso». La risposta positiva fu unanime. Appurato che lo stato di crisi era, almeno verbalmente, riconosciuto, proposi a tutti i membri di mettere se stessi ed il gruppo «in ricerca» con l'ausilio della mia esperienza e di tecniche sociologiche ben precise. La maggioranza accettò la proposta molto volentieri e soltanto alcuni dei più «anziani», pur accettando, si dimostrarono alquanto scettici al riguardo.

    TEORIA E PIANO DELLA RICERCA

    I componenti del gruppo non sono stati considerati oggetti di ricerca ma autori della ricerca. La sociologa ha svolto, perciò, il ruolo di coordinatrice tecnica, che ha sì stimolato e studiato il gruppo ma che, a sua volta, si è lasciata stimolare e studiare. Si è quindi seguito il tipico approccio della sociologia riflessiva-radicale.
    Il piano della ricerca è stato formulato in modo conseguente a queste presupposti teoretici. Infatti, sempre durante l'assemblea quando fu accettato lo «status» di gruppo «in ricerca», invitai, formalmente ma senza forzare nessuno, i componenti di alcuni gruppi di servizio a presentarsi il giorno dopo (sabato pomeriggio) per discutere e mettere a punto insieme un piano di lavoro. Alla riunione parteciparono circa una dozzina di persone e tutte insieme decidemmo di:
    – rilanciare la preghiera serale tutti i giovedì ed i sabati del mese di maggio (due ragazze si impegnarono per la preparazione);
    – invitare le dieci comunità a rispondere, entro quindici giorni, ad un questionario preparato appositamente per loro;
    – indagare sulle attività, svolte negli ultimi dieci anni dai gruppi giovanili delle parrocchie limitrofe per poter meglio valutare l'attività del nostro gruppo in un preciso momento storico a confronto di realtà simili sullo stesso territorio;
    – sensibilizzare tutti gli altri membri del gruppo ed invitarli ad una data prefissata (due sabati dopo) nel salone giovanile per rispondere ad un questionario individuale;
    – elaborare tutto il materiale di ricerca;
    – presentare i risultati della ricerca durante una giornata di ritiro, che avrebbe dovuto avere luogo l'ultima domenica del mese. Tutti i partecipanti a questa riunione si assunsero un compito ben preciso e furono nominati «assistenti di ricerca» mentre due ragazze, incaricate soprattutto di mantenere i contatti, divennero «segretarie di ricerca». Gli altri membri del gruppo furono informati delle decisioni con una circolare, in cui li si invitava a partecipare alle varie fasi della ricerca e si sottolineava che il futuro del gruppo sarebbe anche dipeso dal loro tipo di partecipazione.

    METODOLOGIA E TECNICHE DI RICERCA

    L'avere abbozzato un piano di lavoro, caratterizzato da obiettivi chiari, scadenze precise e persone responsabili, risponde a precise esigenze di metodo. Senza un piano di lavoro dettagliato è, forse, possibile iniziare un qualunque processo di ricerca ma è impossibile pretendere di ottenere dei risultati. Tale piano, però, soprattutto quando, come in questo caso, è portato avanti da volontari, deve essere possibilmente steso insieme, comprensibile e convincente. Importantissima è, inoltre, la carica e la «grinta» che la riunione preparatoria riesce ad imprimere ai volontari impegnati nella ricerca. Infatti la buona riuscita di questa dipende da loro. Se ci credono faranno «faville» e riusciranno a superare gli inevitabili ostacoli e sorprese, che si incontrano in ogni ricerca ben fatta, se non ci credono tutto o quasi si fermerà al primo intoppo. Anche in questo caso è, però, essenziale un minimo di conoscenza delle tecniche e degli strumenti più comunemente usati dai ricercatori, quali ad esempio:
    – osservazione partecipante
    – interviste preliminari
    – interviste con questionario.

    Osservazione partecipante

    L'osservazione partecipante è la tecnica più comunemente usata dagli antropologi quando studiano le culture di gruppi etnici a loro completamente sconosciuti. Lo studioso (potrebbe anche essere uno psicologo sociale o sociologo), che applica questa tecnica, assume generalmente il ruolo di osservatore pur essendo presente ed in parte coinvolto nelle attività del gruppo studiato.
    Con un minimo di addestramento è abbastanza semplice applicare questa tecnica però, per ottenere risultati di un certo rilievo, occorrono anni di esperienza od una buona guida. Infatti non è possibile voler osservare tutto perché si andrebbe a rischio di non vedere nulla ma è, però, necessario sapere cogliere quei comportamenti ed atteggiamenti, che potrebbero poi rivelarsi significativi perché, ad esempio, verificatisi più volte in circostanze diverse.
    Nello studio specifico del gruppo citato stimolai gli assistenti di ricerca ad acuire il loro spirito di osservazione per poi riferirmi anche quei particolari, che a loro potevano apparire irrilevanti ma che ai fini della ricerca avrebbero potuto divenire importantissimi. Da parte mia, invece, adottai decisamente questa tecnica analizzando perciò, per quanto possibile, atteggiamenti, comportamenti ed interazioni dei vari componenti del gruppo.

    Interviste preliminari

    Questo tipo di intervista, molto spesso a «ruota libera», è qualificante per ottenere tutte le informazioni circa la struttura, le attività, i problemi, il linguaggio ed anche i pettegolezzi più frequenti all'interno di un gruppo. Soltanto con tutti questi dati sarà poi possibile formulare un questionario dettagliato dal quale si otterranno informazioni sistematiche.
    Prima di imbarcarsi nell'intervista è, però, vitale stabilire che cosa si desidera sapere, chi si vuole intervistare ed, infine, conoscere alcune regole essenziali sul come condurre un'intervista.
    – Una breve traccia scritta od alcune domande chiave, stabilite a priori e ben stampate in testa, dovrebbero divenire la griglia su cui, in modo scorrevole ed informale, si svolgerà tutta l'inchiesta.
    – I responsabili del gruppo, l'assistente ecclesiastico e tutti i membri, che all'interno del gruppo hanno influenze sia positive che negative (sono cioè creatori di opinioni e di fazioni), devono essere ascoltati.
    – L'intervistatore chiede sempre un favore ad altre persone e sta, forse, per scoprire fatti e realtà che potrebbero anche essere poco piacevoli per l'intervistato; è perciò essenziale che sappia creare un clima di fiducia e riservatezza. Di conseguenza la scelta dell'ambiente, il modo di presentarsi, di considerare l'intervistato e di formulare le domande sono fattori determinanti per eliminare ogni imbarazzo e disagio ed invogliare l'intervistato a dire ciò che pensa veramente.
    Per riuscire a penetrare un po' nella realtà del gruppo studiato e decifrare i problemi più scottanti feci dieci interviste preliminari mentre gli assistenti di ricerca, muniti di un semplice schema ed istruiti sul comportamento di un buon intervistatore, ottennero informazioni e dati qualitativamente buoni da dodici gruppi giovanili di parrocchie limitrofe.

    Interviste con questionario

    Viviamo nell'epoca delle interviste, delle inchieste e di conseguenza, dei questionari. Un buon questionario, però, è paragonabile ad un progetto architettonico. Come il progetto di una semplice casa richiede la conoscenza di alcuni dati essenziali così la stesura di un questionario necessita di informazioni preliminari e di una chiara visione di ciò che si desidera conoscere.
    Alcune domande essenziali per stabilire sesso, età, grado di istruzione, professione, credo religioso, ecc., sono di prammatica in ogni questionario un po' serio non fosse altro che per avere quelle variabili, chiamate «indipendenti», che serviranno di base per l'analisi delle altre informazioni. Le altre domande, formulate in modo semplice, chiaro, e completo, dovrebbero sviscerare a fondo il problema che si desidera studiare ed, eventualmente, sondare possibilità future.
    Nel caso dello studio di un gruppo ecclesiale in «crisi» le domande del questionario dovrebbero essere formulate in modo tale da analizzare:
    – la fede dell'intervistato (domande su Cristo, la Chiesa, frequenza e contenuto della preghiera, lettura della Bibbia, ecc.);
    – la percezione che l'intervistato ha del gruppo (motivazioni che lo hanno spinto a farne parte, interazione con gli altri componenti, cause della crisi, suggerimenti per migliorare la situazione, costi e gratificazioni del gruppo);
    – le strutture del gruppo viste dall'intervistato (eventuali gerarchie, giochi di potere, comportamento di leaders o animatori, tipo di comunicazione e rapporti).
    Appunto secondo questi criteri fu redatto il questionario individuale per lo studio del gruppo in questione. Non si scelse un campione perché, trattandosi di un gruppo, l'ideale sarebbe stato di intervistare tutti i componenti. La risposta fu buona: il questionario fu compilato da 76 membri del gruppo, di cui più di 50 si presentarono nel salone parrocchiale alla data prefissata. Infatti anche la risposta ai questionari individuali, effettuata sotto controllo, è una garanzia in più circa la serietà del lavoro. Inoltre un secondo questionario molto semplice con l'obiettivo di analizzare il funzionamento delle «piccole comunità» fu compilato comunitariamente dai membri di ogni comunità.

    ANALISI DEI DATI E RISULTATI PRELIMINARI

    L'osservazione partecipante, da me effettuata con cura e metodo all'interno del gruppo, mi portò a risultati abbastanza sorprendenti. Risultò, infatti, chiaro che a volere veramente la ricerca ed a prenderla sul serio furono soprattutto gli appartenenti ai due gruppi più giovani: cioè i ragazzi al disotto dei 23 anni. Solo tra di loro emersero gli «assistenti e segretarie di ricerca» ed «animatori della preghiera serale». Inoltre tutti loro risposero al questionario individuale nel salone parrocchiale mentre a circa una quindicina dei «più vecchi» il questionario fu recapitato da amici. Ma il comportamento più sorprendente fu indubbiamente quello dei «più vecchi», reputati gli animatori ufficiali del gruppo giovanile. Infatti, pur avendo accettato formalmente la ricerca, in effetti usarono consce ed inconsce tecniche di sabotaggio nei confronti della stessa. Ecco alcuni esempi del loro comportamento scorretto: cercarono di disdire appuntamenti per l'intervista preliminare, non furono presenti all'incontro in cui si stabiliva il piano di ricerca senza giustificare a priori la loro assenza, non vennero nel salone a rispondere al questionario individuale ed, infine, anche di fronte all'evidente crisi del gruppo, emersa dall'analisi dei questionari, cercarono di imporre i loro piani, completamente alieni alla realtà del gruppo.
    Anche le interviste, effettuate dagli assistenti di ricerca, nelle parrocchie limitrofe, fornirono informazioni non incoraggianti ma decisamente interessanti: lo stato di crisi dei gruppi giovanili era, in talune parrocchie, ormai cronico. Infatti, nella maggior parte dei casi, il gruppo giovanile, al momento della ricerca, non contava più di quindici persone effettive ed aveva una storia travagliata alle spalle. Anche i gruppi, che denunciavano un numero alto di appartenenti, erano in effetti composti per la maggior parte da gente impegnata in attività sportive con poco o nessun aggancio con la realtà ecclesiale. Tirate le somme, il gruppo in «ricerca» era ancora uno di quelli se non quello che aveva retto meglio sul territorio. Indubbiamente si era, però, in piena epidemia per quanto concerneva l'attività dei gruppi ecclesiali giovanili; non si potevano, perciò, sottovalutare le cause sociali che avevano portato a questa situazione.
    Ma le informazioni più folgoranti si ottennero dall'analisi accurata dei questionari individuali, compilati da 76 persone (27 dai 15-18 anni, 25 dai 19-22 anni, e 24 con più di 23 anni). Ad ogni risposta fu assegnato un numero codice per permettere di elaborare le informazioni, seguendo la procedura tipica dell'analisi al calcolatore.
    Il mancato riconoscimento dell'ecclesialità del gruppo da parte di circa il 50% degli intervistati denunciò la prima spaccatura macroscopica al suo interno. Infatti le risposte alla domanda «Il gruppo ti fa sentire parte della Chiesa?» contarono 37 «sì», 36 «no» e 5 astensioni, distribuiti in parti più o meno uguali nei tre gruppi mentre alla domanda: «Il gruppo ti fa sentire parte della parrocchia?» i «sì» scesero a 32 ed i «no» salirono a 42 con ben 12 astensioni.
    Queste due risposte, che presentano indubbi campanelli d'allarme circa l'identità del gruppo, come percepito dai suoi membri, furono rafforzate dalle impressioni sul gruppo stesso. Per circa il 40% degli intervistati il gruppo era disorientato e mancava di una chiara identità, per un altro 40% nel gruppo aleggiava pessimismo e stanchezza, acuito dal formalismo dei rapporti tra i suoi membri mentre solo 1'8% (esclusivamente costituito dai più giovani) dichiarava «il gruppo non vuole morire perché può fare qualche cosa».
    All'ottimismo di questi giovanissimi si contrapponeva la crisi di fede, denunciata chiaramente da sei del loro gruppo. Costoro, infatti, dichiaravano che la religione era poco importante per loro perché non credevano quasi più. Alla riprova dei fatti, però, questa crisi coinvolgeva un numero più vasto di persone: ben dieci dei giovanissimi, cinque dei giovani e quattro dei «più vecchi» affermavano di pregare raramente o mai. Quindi la crisi nella vita di preghiera si estendeva al 25% degli intervistati mentre il 40% dichiarava di pregare «qualche volta durante la settimana» e solo il restante 35% di pregare «una o più volte al giorno».
    Queste sono solo alcune delle cifre più rilevanti che anche da un punto di vista quantitativo sottolineano lo stato di «crisi» del gruppo e delineano in parte la dicotomia esistente tra i più giovani ed i più vecchi.

    PROPOSTE E DECISIONI

    Durante la giornata di ritiro di fine mese, i rappresentanti dei tre gruppi presentarono, in modo articolato e vivace, i risultati della ricerca. In questa occasione ad una richiesta specifica dell'assemblea di esprimere i miei commenti sui risultati della ricerca e presentare eventuali proposte operative, proposi:
    – ai più vecchi (più di 23 anni) di avere il coraggio di morire come gruppo «giovanile», di rinforzare le loro «piccole comunità» e di migliorare il tipo di servizio reso in parrocchia ed in quartiere;
    – ai più giovani di tagliare il cordone ombelicale che li univa ai più vecchi perché altrimenti sarebbero morti di asfissia lenta e lavorare alla formazione di un gruppo, consono al loro modo di vedere e percepire la realtà, sempre naturalmente in stretta collaborazione con l'assistente ecclesiastico. Dopo questa fatidica giornata incontri si `sono susseguiti ad incontri e decisioni a decisioni ma soltanto il 1980 potrà dire se questa ricerca è servita a fare prendere coscienza della situazione ed a stimolare una «ricostruzione» del gruppo per superare uno stato di crisi, che stava uccidendo anche il più piccolo barlume di entusiasmo.


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