Paolo Montesperelli
(NPG 1988-06-34)
Chiunque provi ad analizzare, con un certo rigore, le nuove generazioni, forse avrà l'impressione di misurarsi con un fenomeno imprendibile: quando si vuole comprenderlo tutto, proprio allora è il momento che sfugge via, lasciando all'osservatore solo qualche impressione e alcuni indizi. Ma anche queste tracce descrivono la condizione giovanile con tratti troppo sfumati: e così dei giovani si vede l'assenza (disinteresse, non partecipazione, individualismo...), oppure si scorgono solo le punte emergenti di una presenza che si esprime nelle aggregazioni: vediamo i movimenti studenteschi affacciarsi ciclicamente nella cronaca dei giornali; scorgiamo gli stadi passare da un happening all'altro; una frastagliata geografia di gruppi informali e amicali suddivide in tante«riserve» le strade e le piazze.
Fra assenza dei giovani e loro presenza nelle aggregazioni, rimane un'ampia zona grigia, difficilmente interpretabile, ancora più sfuggente al bisturi dell'analisi.
Non resta che partire da quegli «indizi» per cercare poi di risalire ad ambiti più generali. Forse il primo passo da compiere è uscire dalla cronaca, non fermarsi al «fatto del giorno», ma provare a cogliere alcuni elementi che uniscono aggregazioni giovanili apparentemente molto diverse l'una dall'altra. Scopriremo così che «stare in gruppo» è un'esperienza molto più diffusa di quanto è messo in luce dai riflettori dei mass-media; e che fra esperienze aggregative tanto differenti, si intreccia comunque una trama comune.
L'INFLUENZA DELLE AGGREGAZIONI GIOVANILI
Cominciamo a chiederci perché gruppi, movimenti, «bande», aggregazioni varie sono così diffuse.
Sono convinto che una causa di grande rilevanza riguarda la socializzazione.
C'è chi annuncia «il ritorno alla famiglia» da parte dei giovani, ma credo sarebbe necessario porre alcuni «distinguo».
Questo ritorno non ripete il copione del «figliol prodigo» perché è molto più cauto, selettivo: la famiglia va bene se mi garantisce la sopravvivenza familiare, o (talvolta) se diventa uno spazio emotivamente «caldo», affettivamente gratificante.
Ma orientamenti, codici, identità, valori cavalcano spesso i messaggi provenienti dall'esterno.
E il gruppo giovanile è proprio una di quelle «agenzie di socializzazione», esterne alla famiglia, più incidenti nell'identità giovanile.
Vari circuiti di socializzazione
Il circuito tradizionale della socializzazione, cioè il fatto che i genitori trasmettono «modelli» ai giovani, viene interrotto, perché i giovani allacciano i propri fili con il gruppo dei loro coetanei; altre volte quel circuito tradizionale non solo è interrotto, ma il suo flusso viene addirittura invertito: se l'identità del gruppo è molto forte e quella dei genitori è, invece, in crisi, allora il gruppo - tramite i figli - trasmette ai genitori codici, modelli, valori; così le figure genitoriali ritrovano un senso, una forza, un'identità, un significato grazie all'esperienza aggregativa dei figli.
Questo strano processo di «socializzazione inversa» è riscontrabile spesso in quei movimenti ad «identità forte» che, partiti come aggregazioni quasi esclusivamente giovanili, hanno poi trovato consenso anche presso gli adulti; ma non presso gli adulti qualsiasi, perché spesso si tratta di persone appartenenti a situazioni, fasce sociali, classi che attraversano una fase di crisi, di disorientamento.
In altri casi, dentro le agenzie tradizionali di socializzazione si coagulano nuclei nuovi, la cui socializzazione si forma in maniera diversa e produce messaggi diversi: l'esempio tipico è la scuola, dove, accanto alla socializzazione tradizionale dell'insegnante, coesistono (abbastanza pacificamente) i gruppi di studenti: così non è più possibile parlare di una «socializzazione scolastica», come se si trattasse di una realtà omogenea. La scuola diventa solo un «contenitore» di più agenzie, un campo solcato da canali diversi di socializzazione.
Nella condizione giovanile i rapporti «fra pari» quasi sempre aggregano gruppi, e sono questi gruppi a rendere il paesaggio della socializzazione molto più frastagliato, complesso e policentrico rispetto al passato.
D'altra parte, questa situazione di estrema articolazione si riflette sul singolo giovane, la cui identità, a sua volta, risulta sfaccettata e segmentata.
Tra appartenenze e irriducibile soggettività
Uno dei modi in cui tale segmentazione si manifesta, riguarda la mancanza di un'identificazione stretta e di un'adesione totale nei confronti del gruppo. Sovente, i giovani «aggregati» esprimono soddisfazione per il proprio gruppo, talvolta si sentono più «maturi» di chi non ha un'esperienza intensa di aggregazioni, eppure la loro identificazione non sembra mai stretta: resta sempre un margine (potenzialmente) critico, una distanza individuo-gruppo mai completamente colmabile. Questo spiega perché i giovani appaiano «nomadi», «pendolari» fra un gruppo e l'altro, «frammentati» fra tante esperienze a cui partecipano solo in parte.
In altre parole, mi sembra di poter registrare una costante oscillazione fra due poli: da una parte vi è la ricerca di identità, di appartenenza, di identificazione, di associazione, di sicurezza; ed è questo il polo in cui troviamo il gruppo che offre un'identità collettiva, una «ragione associativa».
Ma dall'altra parte il «vissuto» del singolo si rivela irriducibile, incomparabile entro i confini del gruppo; è questo il polo della distanza, del riconoscersi «differenti» rispetto perfino al proprio gruppo. Oscillare costantemente fra un polo e l'altro è ciò che fa apparire il giovane, a seconda dei punti di vista, sempre critico o sempre «disperso», sempre insoddisfatto o costantemente «accomodante», problematico oppure superficiale.
Del resto questa tensione fra i due poli non credo possa essere annullata. Infatti se per un verso il vissuto è sempre irriducibile, per l'altro verso il «bisogno di socialità», di ritrovarsi in un gruppo, credo sia una delle istanze più pressanti nelle nuove generazioni. Lo «stare bene insieme» diventa una preoccupazione ricorrente, spesso predominante, una domanda costante dei giovani di una «società complessa» che frammenta le tradizionali appartenenze senza più restituire altre stabili occasioni per trovare sicurezze, risposte certe, identità stabili.
Anche se le gerarchie di valori sono molto fluide e quasi per nulla rigide, il «bisogno di socialità», in genere, mantiene sempre un posto di grande rilevanza negli orientamenti giovanili: sicché il gruppo da mezzo può diventare fine.
Una esemplificazione: ricordo che nel fatidico citatissimo '68 ci si aggirava per «fare la rivoluzione»: il gruppo, allora, era uno strumento («uniti si vince»).
Oggi il rapporto fra mezzi e fini spesso è capovolto: l'obiettivo esterno al gruppo può costituire un mezzo per dare uno scopo al gruppo, per renderlo più unito, più capace di rispondere a quel bisogno di socialità.
LE RISPOSTE DELLE AGGREGAZIONI
Per far sì che nel singolo non prevalga il «sentirsi differente», l'aggregazione dovrà offrirgli le risposte il più possibile adeguate ai suoi bisogni. Ad esempio, se dalla sfera dell'affettività si sollevano molte domande, l'aggregazione dovrà fornire numerose risposte: cercherà di fare in modo che si possa veramente «stare bene insieme», «come in un villaggio»; o che venga garantita la possibilità di realizzare esperienze concrete per arricchire la soggettività di ciascuno.
Il «dono» dell'identità
In altri termini, mi pare che le nuove generazioni siano più «contrattualistiche» verso le proprie aggregazioni; tendano cioè a stabilire patti di scambio: la partecipazione viene concessa in cambio di «beni» simbolici (per esempio: gratificazione affettiva) o anche materiali (per esempio: la difesa di qualche diritto). Fra i beni «simbolici», spicca l'identità. Ciascun gruppo, per mantenersi, deve darsi un'identità collettiva che si rifletta anche sul singolo: rispondere alla domanda «chi siamo?», mi aiuta a comprendere «chi sono io». Alcune aggregazioni puntano molto sull'offerta di un'identità collettiva forte, su un senso di appartenenza molto marcato, sperando così di «rimuovere» il senso della «differenza».
In questi casi è frequente la ricerca di un'«identità per contrapposizione»: è più facile, e meno problematico, definire chi siamo/chi sono, se definisco contro chi sono; l'individuazione dell'«avversario» ricompatta tutti intorno alla bandiera e impone di «difendersi». In altri casi, analoghi, la complessità della realtà induce a semplificazioni: se l'esistenza e la società attuali sono complesse come un labirinto, allora si cercano delle scorciatoie per tagliarlo o per passarci sopra; da qui, ad esempio, derivano rappresentazioni molto linea
ri della realtà, distinzioni molto nette che «affascinano» per la loro chiarezza semplificatrice e rassicurante.
Nelle aggregazioni più grandi talvolta la complessità della società esterna viene anche fagocitata, riprodotta e «controllata» all'interno. Mi riferisco a quei movimenti che tendono a costituirsi come un orizzonte totalizzante, entro cui puoi trovare quasi tutto: dal gruppo di amici alla ragazza, dalla preghiera alla cooperativa. Eppure personalmente sono scettico sulle reali possibilità di mantenere una tale stabilità: il giovane può accorgersi che quel gruppo è strutturato per fasce di età più basse e che lui è già troppo maturo per quel tipo di «offerte»; oppure l'immagine di «avversario» è troppo sfumata, in una società complessa e frammentata che frantuma ogni profilo troppo netto; o le richieste di quella aggregazione cominciano a rivelarsi troppo gravose in rapporto alle offerte che comunque sono sempre inferiori rispetto all'insieme delle occasioni presenti nel resto della società. E i motivi che inducono, prima o poi, i giovani a «dissociarsi» da queste aggregazioni «a identità forte», coprono un elenco più lungo di quello qui sommariamente presentato.
Ideali e pratica
Un altro importante ambito di risposte dell'aggregazione riguarda la sfera degli ideali. Non si tratta più di progetti ben strutturati, di ideologie onnivore, di grandi spiegazioni preconfezionate e ben infiocchettate. Anzi, tutto ciò oggi viene considerato un'inutile mediazione, mentre si vuole «squarciare» ogni filtro che si frappone fra il giovane e la «vita». L'immediatezza dei giovani non ha nulla a che vedere con l'impazienza estremista del «vogliamo tutto e subito». Le culture giovanili tendono all'immediatezza in un altro senso: vogliono cioè sbarazzarsi delle mediazioni fra il soggetto e la «vita»; vogliono «vivere intensamente», capire l'esistenza, darle un senso, renderla «trasparente». Il riferimento alla vita è ad una realtà globale, molto più ampia di qualsiasi ideologia, forma organizzativa, definizione.
Senza dubbio questa è un'ottica «vitalistica», ove la vita e il suo vissuto individuale assumono il significato di adesione, di sperimentazione il più possibile ampia nei confronti di tutta la realtà; la vita è, ancora, lo scopo ultimo della biografia individuale e l'elemento che accumuna tutti gli esseri viventi (il «vitalismo» giovanile non è, dunque, di tipo individualistico). Rimuovere certe forme di mediazione viene considerato, allora, come una condizione primaria per «vivere», per conoscere e capire la realtà. Così anche le strutture organizzative vengono giudicate sovente una delle tante mediazioni che impediscono l'autenticità dei rapporti fra i soggetti. Forme, rituali, regole istituzionalizzate, ecc. spesso vengono accantonati in nome di rapporti immediati, del richiamo al concreto, al vissuto personale, all'esperienza, alla singola iniziativa.
Una terza sfera di bisogni, a cui l'aggregazione giovanile cerca di rispondere, è quella operativa: se le risposte affettive dei' gruppi giovanili si rivolgono molto alla soggettività dell'individuo, e le risposte ideali fanno i conti con la crisi delle mediazioni, le risposte operative sono caratterizzate dalla tendenza verso la deistituzionalizzazione. Come abbiano già visto, il «vitalismo» giovanile si sbarazza di certi modelli organizzativi per definirne di nuovi.
Quattro tipi di aggregazione
Mi pare, a tal proposito, che oggi si affermino quattro tipi di aggregazione:
- il gruppo spontaneo di base: quello più informale, proiettato (quasi) esclusivamente su una dimensione locale (per esempio: gruppo parrocchiale);
- l'aggregazione «a costellazione», cioè un insieme di gruppi, più o meno autonomi, che però fanno riferimento a un coordinamento centrale minimo;
- il «movimento sociale», più organizzativo e più conflittuale rispetto all'ordine sociale dominante (per esempio: ecologisti, pacifisti, ecc.);
- l'aggregazione carismatica, apparentemente priva di strutture e di norme, ma in realtà diretta e controllata da leaders che «affascinano» i propri seguaci.
Questo tentativo di riunificare le aggregazioni emergenti, raggruppandole in «tipi», induce ad alcune osservazioni.
La prima è che la tendenza alla de-istituzionalizzazione coinvolge anche le associazioni più «formalizzate» che cercano, almeno in parte, di «sburocratizzarsi».
D'altra parte questa tendenza, se può essere giudicata da molti positiva, comporta un po' di ambiguità. Non è possibile infatti sbarazzarsi completamente di norme e di forme organizzative. Le procedure forse vengono semplificate, le norme scritte sono ridotte o annullate; ma non si può dare alcun gruppo senza almeno un minimo di codici. Prendiamo i gruppi «carismatici» nella tipologia sopra proposta: probabilmente non eleggeranno i propri dirigenti, ed anzi nessuno si dichiarerà «dirigente», ma comunque ci sarà un «capo», un «opinion-leader» che guida in qualche modo il gruppo; talvolta il «leader» viene scelto dagli altri «leaders» per cooptazione, il che mi pare una notevole rigidità nella gestione di un movimento.
Va aggiunto che l'«istituzionalizzazione» consente di conservare la «memoria storica» dell'aggregazione. Archivi, verbali, ecc. non sono solo «riti», ma anche depositi ove la storia collettiva di quell'aggregazione si stratifica e si offre alla conoscenza di tutti, nel presente come nel futuro. Perciò de-istituzionalizzare, accanto a molti vantaggi, comporta il rischio di annebbiare quella memoria, di aggravare i problemi di identità di quella aggregazione, di renderla meno stabile e più vulnerabile.
LE TRE FIGURE DI ADERENTE
Anche in mancanza di istituzionalizzazione, molte aggregazioni, soprattutto quelle più estese, presentano una struttura ad «imbuto» per «incanalare» i propri aderenti: da un'apertura massima si arriva ai meccanismi predisposti (più o meno consapevolmente) per una stretta identificazione del giovane nei confronti dell'associazione. Comunque lo si voglia chiamare -«proposta», «metodo educativo», ecc. - di tratta comunque di una metodologia che tende, con progressione e gradualità, anche a riscuotere dal singolo quote sempre maggiori di consenso. Naturalmente la «proposta» ha pure altri fini, ma quello del consenso non va sottovalutato solo perché è il più nascosto e il meno «nobile».
Questo «itinerario» parte da una fase in cui la selettività è minima: il gruppo è aperto a tutti, in genere a chiunque voglia sperimentare quali risposte il gruppo stesso offre al bisogno di socializzazione.
Leader, «burocrati», semplici aderenti
In questa prima fase, l'appartenenza del singolo contemporaneamente a più aggregazioni diverse non è rara; mentre invece, più si procede lungo quell'«itinerario» e più l'associazione tende ad essere totalizzante, per vincere la «concorrenza» delle altre aggregazioni. D'altra parte, pochi percorrono l'intero itinerario e non tutti subiscono gli stessi effetti. Nel corso di una ricerca empirica, da cui sto attingendo, abbiamo costatato infatti che non esiste l'aderente «tout court», perché chi aderisce alle aggregazioni, soprattutto alle associazioni più grosse e con almeno un minimo di formalizzazione, lo fa secondo modalità diverse, sulla base della posizione in cui è collocato.
Vi è innanzi tutto la figura del «leader nazionale»: egli conosce meglio ditutti gli altri i meccanismi dell'associazione, riesce ad oggettivarne meglio l'identità, è perciò capace di trascenderla. Per lui, malgrado tutto, l'associazione non costituisce un guscio chiuso, un orizzonte totalizzante ed onnicomprensivo. Perciò egli si sente «differente», non omologato, cerca sempre di mantenere una distanza, di relativizzare l'associazione. È la figura classica del Potere, cioè di colui che deve dettare la norma, ma a cui è concesso anche di violarla.
Il «quadro intermedio» ha la responsabilità di condurre non tutta l'associazione ma il singolo gruppo. Di questo suo importante ruolo ne sente il peso e la responsabilità; egli ha coscienza di costituire il volano essenziale per giustificare agli occhi degli altri le varie scelte di tutta l'organizzazione; ancora, è colui che sente di più il dovere di raccogliere costantemente il consenso a favore dell'associazione. Tutto ciò lo lega, lo rende più strettamente identificato con l'associazione: non a caso se quell'aggregazione si è data un linguaggio gergale, è proprio il «quadro intermedio» a usarlo di più, segno proprio di questa stretta identificazione. Egli è anche il meno critico, quello che vuole sempre convincerti, affidandosi magari ai suoi discorsi logorroici.
Inoltre è quasi sempre affannato, per lui il tempo è sempre troppo poco; sarebbe pronto a invocare chiunque pur di ricevere il dono dell'ubiquità. Fare il «quadro intermedio» non è gratificante sotto molti aspetti: la programmazione della vita quotidiana, i ritmi elevati, le inevitabili «frustrazioni» pesano. Egli spesso si rende conto della bassa qualità della sua vita, ma non riesce a uscirne perché si sentirebbe quasi un «traditore».
Infine vi è il «semplice aderente»: sovente è colui che frequenta il gruppo da poco tempo e di solito vi ricerca soprattutto le risposte al suo bisogno di socialità. Per il resto non mostra molte motivazioni ad aderire, la sua identificazione con il gruppo è abbastanza debole, talvolta addirittura critica. Non spende più di tanto le risorse per la propria aggregazione. È in un atteggiamento di attesa, di esplorazione, di passaggio.
Come si vede, se la presenza dei «quadri intermedi» è essenziale per la vita dell'associazione, il sentirsi «differenti» e meno identificati non è solo un problema di tempo, cioè non coinvolge solo chi è da poco nel gruppo: perfino i leader nazionali ne dimostrano la presenza. Così il «quadro intermedio» è quasi circondato da chi, in alto e in basso, nei vertici e alla base, appare più «imprevedibile», più «critico». Da qui scaturisce il disagio del «quadro», la sua impressione costante di essere colui che «traina» veramente gli altri, l'idea che sia impossibile impegnarsi meno, pena la crisi di tutto il gruppo.
Giunti alla conclusione di queste riflessioni ci ritroviamo come ho accennato all'inizio: avremo probabilmente l'impressione che molto, troppo è sfuggito all'analisi e che mille eccezioni sono pronte a contraddirla. Ma è proprio questo il prezzo da pagare ad un discorso che voglia essere tanto significativo quanto sempre provvisorio.