Carlo Molari
(NPG 1991-3/4-48)
Prima di affrontare il tema nelle sue svariate articolazioni, vorrei illustrare la finalità delle riflessioni che propongo e i diversi loro aspetti.
Esamino poi alcuni presupposti teologici generali, che valgono come premesse per le proposte operative.
INTRODUZIONE
Finalità delle riflessioni
Lo scopo delle riflessioni è individuare le esigenze operative della fede soprattutto in ambito sociale e politico oltre che individuale. La cultura borghese, infatti, tende a privilegiare una gestione privata della fede, lasciando alla scienza politica o alla economia la gestione della vita sociale.
Oggi la comunità ecclesiale sta nuovamente prendendo coscienza della dimensione pubblica e storica della sua missione e sa che, di fronte ai problemi del mondo, «non può rimanere indifferente».[1]
Noi cristiani sappiamo che partecipando alla Eucaristia «siamo chiamati a scoprire, mediante questo sacramento, il senso profondo della nostra azione nel mondo in favore dello sviluppo e della pace; ed a ricevere da esso le energie per impegnarci sempre più generosamente sull'esempio di Cristo che in tale sacramento dà la vita per i suoi amici (cf Gv 15, 13). Come quello di Cristo e in quanto unito al suo, il nostro personale impegno non sarà inutile ma certamente fecondo».[2]
Oggetto delle riflessioni
La mia non è una riflessione di tipo strettamente operativo, ma teorico.
Intendo offrire solamente un quadro interpretativo, indicare cioè le ragioni teologiche di questa dichiarata necessità.
Le domande cui vorrei rispondere quindi sono: quali riferimenti o strumenti ha la fede per proporre soluzioni alle necessità del mondo?
Per quali ragioni i credenti avvertono l'urgenza di essere testimoni della salvezza di Dio per i poveri e per gli emarginati?
Come costituire comunità trasparenti all'azione di Dio, per consentire la rivelazione del suo amore e l'emergenza della sua azione salvifica?
Per orientare le risposte a queste domande analizzo tre tematiche: le scelte compiute da Gesù e le loro ragioni, il modello di azione divina che guida i nostri atteggiamenti religiosi, e le ragioni teologiche delle scelte politiche che siamo chiamati a compiere.
La fede come atteggiamento vitale
Ma prima di tutto occorre precisare che in questo contesto parlando di fede non ci si riferisce tanto alla dottrina della fede, cioè a quel complesso di interpretazioni del mondo che caratterizza un'epoca culturale e un popolo, ma all'atteggiamento vitale che consente a una persona di assumere le ragioni di vita del suo ambiente sociale.
La prima forma di fede che un individuo vive, infatti, è quella relativa agli ideali che ispirano i movimenti della comunità in cui nasce e che costituiscono le ragioni della sua sopravvivenza. Ogni gruppo sociale per vivere deve formulare progetti, deve percorrere cammini ignoti e rinnovare impegni. Per fare tutto ciò ha bisogno di riferirsi a valori accolti senza riserva, ad ideali non ancora pienamente verificati, a ragioni assunte come assolute. Essi costituiscono per le comunità le ragioni di vita.
Una comunità umana che smarrisce orizzonti ideali inizia un cammino di involuzione che sfocia nella autodistruzione. Ogni gruppo umano si struttura attraverso i valori che trasmette alle giovani generazioni attraverso la socializzazione che consiste appunto nella comunicazione della vita e, insieme, delle sue ragioni.
Nel suo aspetto personale, quindi, la fede è, in origine, l'atteggiamento di fiducia nei confronti di coloro che, con amore, offrono la vita, e il complesso degli atti con cui si accolgono i valori di una tradizione culturale. Gli ideali ed i valori assoluti, cui ci si abbandona, acquistano caratteristiche diverse secondo le esigenze e le situazioni varie della storia.[3]
La fede in Dio è uno sviluppo adulto di questa fede iniziale.
Essa implica tre convinzioni profonde. Prima: la tensione vitale che l'uomo avverte è fondata, la vita cioè ha un senso; seconda: il senso non è dato da alcuna realtà creata, da alcuna persona che ci ama, da alcuna situazione della storia; terza: lo stimolo di vita ci perviene sempre nella storia attraverso persone ed oggetti, che sono quindi eco di Parola eterna, riflesso di un Bene assoluto.
L'esperienza di fede in Dio, quindi, si ha quando, nella sua tensione di vita, l'uomo coglie un Amore, che si offre dentro una situazione storica, e ne accoglie il dono, mai, in sé, pienamente esauriente, ma sufficiente per intravvedere la sua fonte e per rinnovare la speranza in una risposta definitiva.[4]
Credere in Cristo è una modalità storica di esercitare la fede in Dio. Accogliere il Vangelo come riferimento di scelte storiche significa considerare Gesù come rivelazione di Dio o incarnazione della sua parola. Chi crede in Gesù come Messia ritiene che le indicazioni di vita che egli ha dato corrispondano alle leggi fondamentali dell'esistenza umana e conducano l'uomo alla piena maturità di vita, cioè alla salvezza. Per questo il credente si riferisce a Gesù e al suo Vangelo per decidere nella sua vita.
GESÙ E LE SUE SCELTE
Il riferimento a Gesù è importante per lo Spirito che investe coloro che non tanto per il suo insegnamento, ma esercitano la fede in Lui. Non si tratta semplicemente di dedurre dalle dottrine del Vangelo applicazioni pratiche per le situazioni storiche, ma di scoprire quale fedeltà allo Spirito è richiesta nelle diverse circostanze. Questa era la modalità di esistenza di Gesù.
Le scelte politiche di Gesù
L'atteggiamento che Gesù ha assunto nei confronti dei movimenti politici del suo tempo è caratterizzato dalla sua profonda fede e si manifesta particolarmente in alcuni episodi chiave, come le tentazioni, il discorso della montagna, la risposta al problema del pagamento del tributo e il processo subìto prima della condanna a morte.
Non intendo esaminare questi diversi episodi,[5] ma vorrei solamente presentare l'ambiente in cui Gesù ha operato e alcune riflessioni generali sul suo atteggiamento.
I partiti politici al tempo di Gesù
Occorre ricordare che la Palestina dal 63 a.C. si trovava sotto la dominazione dei Romani, chiamativi dagli Asmonei in conflitto fra di loro e ormai incapaci di resistere ai nemici.
I Romani avevano acquistato la fama di buoni amministratori in virtù delle loro leggi e del loro sistema di organizzazione sociale, e spesso, dove si stabilivano, lasciavano una certa autonomia alle strutture locali, pur imponendo tributi.
Agli Ebrei in un primo tempo concessero di mantenere il loro sistema teocratico con la autorità al sommo sacerdote ed al Sinedrio; anche la raccolta del tributo venne affidata al governo giudaico.
Solo più tardi il pericolo di sommosse convinse il Senato romano (40 a.C.) a nominare re della Palestina un idumeo di formazione ellenista: Erode il Grande, che regnò per più di trent'anni (37-4 a.C.). Alla sua morte una delegazione di notabili giudei chiese ad Augusto di assumere direttamente il governo della Palestina.
Ma solo più tardi (6 d.C.) Augusto accolse la domanda e, deposto Archelao il figlio di Erode di cui aveva ereditato la maggior parte dei territori (Giudea, Idumea e Samaria), istituì una provincia romana diretta da un prefetto o procuratore, che risiedeva a Cesarea. «Il procuratore aveva anche i poteri di giudice supremo; fu tuttavia riconosciuta al Sinedrio la giurisdizione sulle faccende interne della comunità religiosa gerosolomitana, salvo nei casi di sentenze capitali che erano riservate al procuratore.
Questo era inoltre responsabile della riscossione delle imposte che venivano incassate dalle autorità locali»[6]
In Galilea era rimasto Erode Antipa, che rese odiosi i Romani con la sua politica crudele e provocò diverse sommosse di rivoltosi (sicari), che continuarono la loro attività fino alla sconfitta definitiva del 66 d.C. Ma anche in Giudea non tutti erano favorevoli al dominio romano.
Tra gli ebrei, quindi, possiamo distinguere due atteggiamenti contrapposti: alcuni favorivano la presenza dei Romani come garanzia di pace e di ordine, altri si opponevano violentemente alla loro presenza e alla collaborazione prestata da molti opportunisti.
Fra coloro che favorivano o tolleravano i Romani occorre ricordare gli Erodiani «i dignitari e i funzionari di corte e i partigiani fedeli della famiglia del re; uomini di educazione schiettamente ellenista e di tendenze apertamente filoromane»[7] e molti dei notabili, sacerdoti e farisei.
Fra costoro, alcuni, chiamati zeloti, invece, si opponevano a tutte le influenze culturali soprattutto elleniste. Occorre perciò distinguere nettamente tra gli zeloti ed i sicari. I sicari designavano i nemici dei Romani, organizzati in bande armate soprattutto in Galilea. Gli zeloti invece si opponevano al processo di ellenizzazione della cultura ebraica, che rendeva difficile e a volte impossibile la fedeltà alla legge mosaica.[8] Sia gli zeloti che i sicari erano mossi da preoccupazioni religiose, ma mentre i primi erano soprattutto attenti al tempio e al culto, e perseguivano vie politiche, i secondi miravano alla libertà come condizione del regno di Dio atteso e non disdegnavano di ricorrere alla lotta armata. Essi abitualmente traevano conseguenze politiche dalla concezione apocalittica e «spronavano all'azione per purificare la terra santa da tutti gli influssi stranieri. Perciò il loro ardore bellico era diretto non solo contro i Romani ma ancor più contro i collaborazionisti».[9]
Le diverse interpretazioni di Gesù
Da Reimarus, ad Eisler, a Brandon e a Belo, una lunga tradizione ha interpretato l'azione di Gesù come quella di un rivoluzionario fallito, di un re che non ha regnato.[10]
A questa tendenza si oppongono altri, come Bultmann, Cullmann, Hann, Schnackenburg, che trascurano completamente l'azione politica di Gesù per sottolineare la sua predicazione religiosa ed escatologica.[11] Alcuni di costoro sostengono che Gesù non avrebbe neppure volentieri accettato il titolo di Messia, ma avrebbe solamente predicato il regno di Dio imminente. Questa predicazione sarebbe stata presentata dalle generazioni successive in chiave messianica.[12]
Fra queste due interpretazioni ne esiste una terza che credo più conforme ai dati storici.[13] Essa sottolinea la consapevole incidenza politica della predicazione di Gesù, il quale tuttavia ha rifiutato il coinvolgimento con i movimenti rivoluzionari del tempo ed ha invece cercato di diffondere un atteggiamento spirituale nuovo nei confronti di Dio, della creazione, degli altri e della società con il richiamo insistente alla fede in Dio e all'attesa del suo Regno.
Attraverso questo atteggiamento, vissuto personalmente e indotto nei suoi discepoli, Gesù pensava di contribuire ad una radicale trasformazione della società del suo tempo, rifiutando la scelta violenta dei sicari ed il fanatismo degli zeloti, senza cadere in forme di religiosità intimista, incomprensibile del resto nell'orizzonte culturale del suo tempo.
Il discorso della montagna è il manifesto solenne di questa scelta che si è espressa chiaramente in molte altre circostanze ed ha provocato notevoli contrasti fra Gesù e i suoi apostoli, il popolo, e soprattutto i capi religiosi e politici.
L'atteggiamento di Gesù nei confronti del messianismo
La preoccupazione principale di Gesù quindi è stata la venuta del Regno, il compimento della volontà del Padre, la diffusione della fede in Dio. Tutto il resto era visto e vissuto in questa prospettiva. Egli perciò si oppose alla interpretazione popolare del messianismo regale.
Gesù, nella sua esistenza terrena, ha abitualmente rifiutato i riconoscimenti messianici ed ha mostrato esplicite resistenze alla comune interpretazione messianica della sua opera. Eppure, nonostante questo atteggiamento di Gesù e il provvisorio completo fallimento dei suoi progetti riformatori, la fede nella sua messianicità ha caratterizzato fin dai primi momenti il gruppo di ebrei che ne raccolse l'eredità.
I suoi primi seguaci si consolidarono nella fede in lui e cominciarono a proclamarlo Messia fin dall'inizio. Già il giorno della Pentecoste Pietro diceva, secondo il racconto degli Atti: «Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Messia quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2, 36). Il kerigma primitivo è tutto centrato su questa affermazione (cf At 5, 42; 8,5; 9,22; 10,38), al punto che il titolo Christòs (unto Messia) da qualificativo, divenne nome proprio e che conseguentemente i suoi seguaci furono ben presto chiamati cristiani (At 11, 26).
Il fondamento però di una simile affermazione non risiedeva nel successo della missione di Gesù, nelle sue affermazioni, e neppure nelle sue imprese storiche, ma nella esperienza pasquale letta alla luce delle promesse profetiche: la vita di chi si affidava a Gesù era completamente rinnovata, la fede in Lui salvava.
Il nesso tra la affermazione della messianicità di Gesù e la esperienza della sua potenza salvifica è intrinseco: Gesù salva perché è unto (Messia) o inviato da Dio. Le reticenze di Gesù riguardo al carattere messianico della sua attività sembrano essere dipese dalle ambiguità che accompagnavano il messianismo del tempo e dalle attese di carattere politico e sociale che avrebbe suscitato una sua esplicita dichiarazione.[14]
Il cosiddetto segreto messianico fu il modo da parte di Gesù per prendere le distanze dalle attese illusorie. Quando cominciarono le divergenze tra il suo modo di interpretare il Regno e quello degli Apostoli, Gesù rimproverò pubblicamente Pietro (Mt 16,23) e si preoccupò di guidare alcuni dei discepoli più influenti ad esperienze profonde di preghiera che avrebbero consentito di cogliere la volontà del Padre («Circa otto giorni dopo questi discorsi prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare»: Lc 9,28). D'altra parte la ragione della sua condanna a morte è squisitamente politica, il che significa che la sua attività veniva percepita come rivoluzionaria.
La questione del tributo
Fra i diversi episodi della vita di Gesù relativi al suo rapporto con il mondo politico del tempo possiamo esaminare brevemente la questione del tributo da pagare a Cesare (Mc 12,13-17; Mt 22, 15-22; Lc 20, 20-26).[15]
I farisei e gli erodiani propongono a Gesù una questione molto discussa a quel tempo: se era lecito pagare le tasse ai Romani. Il problema veniva posto non per ragioni economiche ma religiose. Per un fedele ebreo, infatti, riconoscere l'autorità dell'imperatore romano era un atto di idolatria e significava contravvenire al primo precetto della Legge: «Riconoscerai il tuo Dio come unico tuo Signore». Pagare le tasse a Roma voleva dire riconoscere l'imperatore romano come Signore.
Al problema se pagare o no le tasse a Roma, i vari gruppi davano risposte diverse.
L'ala radicale proibiva assolutamente, in nome della Legge, di pagare le tasse e anzi, agiva violentemente contro coloro che le raccoglievano. Quando Gesù aveva circa dieci anni, un rivoltoso, Giuda il Galileo, provocò una sommossa contro i romani «inducendo gli abitanti a ribellione, insultandoli se avessero sopportato di pagare il tributo ai Romani e avessero tollerato, oltre Dio, padroni mortali».[16] C'era poi un'ala collaborazionista, cui appartenevano gli erodiani.
Ed infine i farisei dicevano che in linea di principio non bisognava pagare le tasse, ma praticamente era meglio pagarle, per evitare guai peggiori.
Gesù si accorge del tranello tesogli ed evita con uno stratagemma la risposta proponendo però i suoi principi. Sostanzialmente Gesù dice: l'essenziale è dare a Dio quello che è di Dio anche quando si è costretti a restituire a Cesare quel che è di Cesare. Dare a Dio significa compiere la sua volontà: amarlo, servirlo, pregarlo e accoglierne il Regno. Ora questo è possibile anche quando si è costretti a vivere situazioni ingiuste. «Voi di fatto, dice Gesù, state accettando la dominazione romana, perché utilizzate quella moneta che non vi appartiene. Se dunque quella moneta appartiene a Cesare, dovete restituirgliela. In ogni caso, anche facendo così, voi potete dare gloria a Dio, cioè vivere nella fede anche questa scelta necessaria».
Gesù si trova a vivere il conflitto tra ideale assoluto e concretezza storica. Accettare la storia significa ammettere che l'ideale possa essere realizzato solo progressivamente. Il che richiede una fedeltà continua agli ideali accolti e un giudizio sulle possibilità concrete di attuazione nelle circostanze presenti della volontà divina. Non nel senso che le decisioni di superiori, in questo caso dell'imperatore, corrispondano al volere di Dio, come alcuni hanno interpretato l'episodio,[17]ma nel senso che è possibile compiere il volere di Dio (manifestare il suo amore, esprimere la sua misericordia, accogliere il suo Regno) anche quando si compiono azioni non perfette. È possibile dare a Dio quel che gli compete anche quando si dà a Cesare quello che egli impone, giusto o ingiusto che sia.
RAGIONI TEOLOGICHE DELL'IMPEGNO ECCLESIALE
Per capire le dinamiche della fede nelle diverse scelte della vita politica, è necessario mettere in luce le ragioni teologiche che le ispirano.
Esse possono essere ricondotte a tre componenti: il modello dell'azione divina nella storia, l'interpretazione della incarnazione e il modo di spiegare il rapporto tra storia e Regno di Dio.
Modelli dell'azione divina
Esistono di fatto diverse modalità di concepire l'azione di Dio nella creazione e nella storia umana.
Con molta approssimazione possiamo individuare, nel corso della storia religiosa e culturale degli uomini: modello panteista, modelli magico, modello miracolistico e modello creazionistico o trascendente.
Tralasciando per il momento il modello panteista che concepisce tutta la realtà del cosmo penetrata da energie celesti e permeata dalla potenza divina, e il modello magico che attribuisce alla potenza divina una presenza particolare in alcuni oggetti, luoghi o persone che acquistano perciò valore sacro e poteri straordinari, vorrei esaminare due modelli diffusi.
Il modello miracolistico
Concepisce Dio come un essere capace di modificare le situazioni umane, con interventi che aggiungono energia vitale, perfezionano l'azione degli uomini e suppliscono alle loro carenze.
Il modello creazionistico o trascendente
Concepisce l'azione di Dio come fondante costantemente la realtà creata senza però mai sostituirsi ad essa, ma costituendola come creatore.
La teologia attuale sta facendo suo quest'ultimo modello interpretativo. A tale acquisizione hanno contribuito diversi fattori convergenti.
Oltre alla recente irruzione della coscienza storica, ha avuto un peso notevole il confronto con le scienze della natura.
Ricordo alcuni passi di questo percorso.
Già il domenicano A.D. Sertillanges (1863-1948) lungo tutta la sua vita di teologo ha messo a punto il concetto di creazione sulla scorta della dottrina tomista, purificandolo dalle incrostazioni di tipo antropomorfico.[18] Egli ha cercato di chiarire con coerenza e rigore l'affermazione della Summa tomista: «La creazione non è un cambiamento. È la dipendenza stessa dell'essere creato in rapporto al suo principio».[19]
Teilhard de Chardin (1881-1955) invece, dagli anni successivi alla prima guerra mondiale fino alla sua morte, ha riflettuto sulle categorie scolastiche dell'azione di Dio nel mondo e nella storia, spinto dalla sua esigenza di armonizzare il linguaggio della fede con le conquiste della scienza o con le sue diverse teorie.
Chiarendo anche lui il concetto di creazione scriveva: «La creazione... non è una intrusione periodica della causa prima: è un atto coestensivo a tutta la durata dell'universo».[20]
Perciò: «Là dove Dio opera, a noi è sempre possibile (restando a un certo livello) di non cogliere se non l'opera della natura... La causa prima non si mescola agli effetti: egli opera sulle nature individuali e sul movimento d'insieme. Dio propriamente parlando non fa le cose, ma fa che le cose si facciano».[21]
K. Rahner, in un medesimo contesto culturale ma con sensibilità maggiormente teologica, afferma: «Sembra che dovunque si riscontra nel mondo un effetto, se ne debba postulare la causa nel mondo stesso e la si possa e debba cercare, appunto perché Dio, rettamente concepito, opera tutto mediante le cause seconde... (altrimenti)... l'agire divino viene a collocarsi nel mondo accanto a quello delle creature, invece di essere il fondamento trascendente di tutto l'agire delle crea ture».[22] Dio, perciò, conclude Rahner, «non opera qualcosa non operata dalla creatura, né si affianca all'agire della creatura: rende solo possibile alla creatura superare e trascendere il proprio agire».[23]
Più tardi ha scritto: «Le vicende e gli eventi di un ente finito stanno continuamente sotto la pressione (se così possiamo dire) dell'essere divino.
Tale pressione non rientra nei costitutivi essenziali di un esistente finito, però può farne sempre qualcosa di più di quanto essa sia in sé e farlo propriamente diventare quello che è».[24]
La storia, in questa prospettiva, appare come il luogo della offerta continua di cui l'uomo ha bisogno per diventare se stesso.
Il dono della vita è troppo grande per essere accolto in un solo istante. L'uomo può farlo suo solo progressivamente, a frammenti, attraverso eventi storici successivi. Ciò non significa che l'uomo sviluppandosi nella storia possa pervenire automaticamente alla sua pienezza. Nessun passato, infatti, contiene i princìpi sufficienti per il futuro. Ogni giorno l'offerta creatrice di Dio è necessaria ed essa può essere accolta in modo sempre più perfetto.
Anche la stessa capacità di accoglienza è dono, frutto cioè della azione creatrice e gratuita di Dio, che sollecita libertà.
In tale prospettiva l'azione dell'uomo non è solamente una risposta alle richieste della storia, ma anche epifania della perfezione di Dio, emergenza della sua azione creante, espressione del suo amore.
La legge dell'incarnazione
La concezione della azione di Dio nella storia umana ha incidenza anche nel modo di pensare l'evento centrale della storia salvifica: l'incarnazione. Essa intende esprimere nel modo più chiaro possibile le dinamiche divine che si intrecciano nella storia umana come solidarietà salvifica.
Incarnazione come evento
Con il termine incarnazione nella fede cristiana non si esprime, come a volte si fantastica, la discesa di un essere celeste in terra, ma l'apparire della perfezione divina nella carne umana.
Per la fede cristiana Gesù non è un semidio o un mostro umano. Nella sua realtà umana egli è perfettamente ed esclusivamente uomo e non ha alcuna maggiorazione che lo faccia diverso da noi. Gesù non rivela Dio perché nella sua realtà umana sia divino, ma perché e in quanto egli è perfettamente umano. Nella sua umanità Egli svela il tratto caratteristico della realtà di Dio: il suo amore e la sua misericordia per gli uomini.
Gesù non ci ha salvato perché ha offerto qualcosa a Dio da parte degli uomini, ma perché ha svelato, nella sua esperienza storica, i tratti essenziali dell'azione e della realtà divina.
Egli poteva dire: «Le parole che io vi dico non le dico da me stesso; il Padre che dimora in me fa le sue opere» (Gv 14, 10).
Nella sua realtà umana egli ha reso visibili la misericordia di Dio e la sua compassione per gli uomini.
Incarnazione come legge salvifica
Ma la rivelazione di Dio non si è esaurita in Gesù. Egli è stato costituito Messia e Signore perché altri, riferen dosi a Lui possano continuare la sua missione. Per questo Egli ha assicurato i suoi: «In verità, in verità vi dico: chi crede in me, anch'egli farà le opere che io faccio e ne farà anche di più grandi» (Gv 14, 12).
La legge della incarnazione può essere quindi espressa in questo modo: l'amore di Dio diventa efficace sulla terra quando diventa gesto di amore umano, la sua misericordia si esprime nella storia umana quando diventa perdono di uomini, la Vita che egli è diventa dono per gli uomini quando si fa carne di uomini.
La specificità della esperienza cristiana è la fedeltà a questa legge scoperta in Gesù.
In questa prospettiva l'incarnazione non è solamente un evento fondamentale della storia umana, ma un paradigma costante dell'azione salvifica di Dio e quindi anche una legge essenziale della salvezza.
In questa luce appaiono giustificate le indicazioni metodologiche offerte dalla teologia dei segni dei tempi. Essa vede la storia umana come luogo teologico, come spazio di emergenza dell'azione divina che salva.
Le opere che possono consentire il proseguimento della rivelazione di Dio, come si è realizzata in Cristo, sono le opere della solidarietà con gli ultimi e della compassione per i sofferenti.
Altre forme religiose hanno altri caj rismi, quella cristiana è definita dalla croce. Essa è diventata nel mondo il simbolo di una solidarietà che non teme la condivisione della morte, di una compassione che sa portare il male altrui fino all'estremo della sofferenza. Questa strada, segnata dal cammino storico di Gesù, è stata percorsa da numerose schiere di eroi che hanno introdotto nella storia umana correnti nuove di umanità e hanno consentito uno sviluppo inedito delle diverse società.
Le sfide attuali della storia attendono altre forme di rivelazione, invenzioni nuove di solidarietà che introducano a inediti livelli di umanità.
Rapporto storia-regno
Questo è l'aspetto dei presupposti teologici maggiormente incidente nella valutazione circa l'impegno politico.
In termini teologici il problema riguarda il rapporto esistente tra il dono attuale di Dio e il suo compimento nella forma definitiva del Regno. Può essere espresso nella domanda: l'impegno umano nella storia, come espressione dell'azione di Dio, ha incidenza nella costruzione del Regno oppure no?
In termini antropologici il problema si presenta come rapporto tra le scelte compiute nella storia e la figura definitiva che l'uomo è chiamato ad assumere nel Regno eterno: l'azione storica dell'uomo costruisce la sua realtà definitiva, oppure essa sarà risultato di un'azione autonoma e incondizionabile di Dio?
Sono state numerose le risposte date nel lungo cammino della teologia. Ne richiamo alcune fra quelle sorte da quando la teologia si è trovata a confrontarsi con il problema della coscienza storica: l'escatologismo radicale, l'incarnazionismo, l'escatologismo moderato, e la continuità tra storia e Regno.
L'escatologismo radicale
L'escatologismo nella sua forma più radicale nega qualsiasi rapporto intrinseco tra storia e Regno.
Il Regno di Dio, afferma, irromperà nel tempo dell'uomo per iniziativa libera di Dio senza alcun condizionamento da parte dell'impegno umano.
L'escatologismo si è diffuso nei periodi tristi della storia, quando gli uomini erano in attesa di una fine imminente del mondo o non avevano alcuna possibilità di immaginare un futuro migliore. In alcuni ambienti teologici cristiani l'escatologismo costituisce lo sfondo abituale ed è legato, più che a considerazioni storiche, alla concezione della sovranità di Dio e della sua libertà. Scriveva ad esempio K. Barth nel primo commento della lettera ai Romani: «I figli di Dio devono maturare in attesa della rivelazione del loro essere.
Ovviamente essi percorrono la loro strada nel più intimo contatto con gli avvenimenti del mondo e della storia, ma le lotte in cui sono implicati possono essere solo occasione, materiale, campo di esercizio, non vi possono cercare le soluzioni di ciò che veramente è importante».[25]
Un discepolo di Barth, H. E. Toedt, criticando J. Moltmann che avrebbe «stretta parentela con il concetto del Regno di Dio del protestantesimo culturale», afferma: «L'esegesi neotestamentaria ci costringe a tener fermo che l'uomo, anche come credente, non ha potenza, e neppure la riceve dalla fede, di realizzare il Regno di Dio... Non ho potuto convincermi... che queste due direzioni della speranza coincidano, di modo che la speranza per il mondo nel suo prolungamento sia speranza nel Regno di Dio, o, al rovescio, che la speranza nel Regno di Dio ci giustifichi, nella stessa direzione, per avere speranza nel mondo, sia pure nello spazio del penultimo... Dove ha fondamento, teologicamente, una simile speranza»?[26]
L'impegno umano è richiesto per dovere morale, per non essere trovati impreparati nel momento della venuta del Signore, secondo le parole di Gesù: «Vegliate dunque perché non sapete in che giorno verrà il vostro Signore» Mt 24, 42); «Beato quel servo che il padrone al suo ritorno, troverà a fare in tale guisa» (Mt 24, 46).
La storia in questa prospettiva è solo un luogo di preparazione ad accogliere il dono di Dio, non il luogo della sua realizzazione.
Incarnazionismo
Anche l'incarnazionismo sostiene che il Regno è il risultato di una gratuita e libera irruzione di Dio nella storia umana. Ma afferma che tale irruzione è già iniziata con la venuta di Gesù Cristo.
L'Incarnazione ha iniziato l'era escatologica e quindi essa costituisce la discriminante di un nuovo tempo della storia. Ora il Regno di Dio è già in costruzione e non è più quindi da attendere come prima di Gesù. Certo, restano ancora molti spazi alla speranza, perché il Regno non è ancora completamente costruito, anzi nella storia attuale ha solo forme incoative e provvisorie, ma vi esprime pure elementi definitivi. L'incarnazionismo non nega quindi la necessità di attendere un altro mondo, ma sottolinea l'urgenza di non «mettere in opposizione con esso la speranza di vedere il compimento della signoria di Dio. Dopo Cristo, tutta la città di Dio è divenuta oggetto di speranza teologale».[27]
Impegnarsi per realizzazioni storiche di giustizia, di libertà, di pace, perciò, è dovere fondamentale della Chiesa che annuncia il Regno futuro e ne testimonia la possibilità con le sue anticipazioni storiche.
L'incarnazionismo ebbe molta diffusione nel mondo cattolico negli anni Cinquanta soprattutto negli ambienti del laicato impegnato.
Escatologismo moderato
Come le altre forme di escatologismo, quello moderato insiste sulla as soluta e radicale gratuità del Regno, sulla sua irruzione per iniziativa libera e sovrana di Dio.
Ma nello stesso tempo afferma che per grazia l'uomo è chiamato a contribuire alla costruzione del suo futuro. Dio, nel concedergli la vita eterna, gli offre liberamente anche i frutti del suo stesso impegno storico. Dio quindi concede all'uomo di contribuire alla costruzione del Regno valorizzando, per sua liberalità, i risultati del lavoro compiuto nel tempo dall'uomo. «Dio, è vero, darà tutto dall'alto e tutto nuovo, ma il piano è che noi non abbiamo nulla cui non ci sia donato di cooperare».[28]
H. Urs von Balthasar, che fin dai primi scritti ha mostrato preferenza per tale orientamento teologico, ne deduce la specificità della speranza cristiana e dell'azione di coloro che essendo in grazia introducono già nella storia l'azione trasformante di Dio: «Qualunque possa essere la prestazione richiesta all'uomo, non sarà mai quella di trasformare poco a poco, col proprio sforzo, la speranza cristiana in un reale potere, guardare, possedere... Tutta l'evoluzione e il lavoro del mondo non bastano per realizzare il Regno di Dio.
Altra cosa è il farsi feconde delle forme intramondane a seguito della grazia di Dio che si riversa nel cosmo e a seguito dell'attività di coloro che amando e sperando credono a questa grazia. Di conseguenza, anche tutto ciò che lo sforzo umano realizza nel compito della creazione... può conseguire, per l'azione di Dio in Cristo e l'aiuto dello Spirito santo, un significato positivo integrabile nel significato assoluto. Dio conta sull'attività della sua creatura, anche se riserva a se stesso l'innesto dei frutti di simile attività nella sua propria sintesi sovrana. Nessuna 'trascendenza' degli uomini a Dio, dell'io al tu, può anticipare questo libero autodischiudersi...».[29]
Forse anche l'enciclica Sollicitudo rei socialis, che riflette da vicino un testo della GS 39, si pone in questa linea quando scrive: «La Chiesa sa bene che nessuna realizzazione temporale s'identifica col Regno di Dio, ma che tutte le realizzazioni non fanno che riflettere e, in un certo senso, anticipare la gloria del Regno, che attendiamo alla fine della storia, quando il Signore ritornerà. Ma l'attesa non potrà essere mai una scusa per disinteressarsi degli uomini nella loro concreta situazione personale e nella loro vita sociale, nazionale e internazionale, in quanto questa, ora soprattutto, condiziona quella. Nulla anche se imperfetto e provvisorio, di tutto ciò che si può e si deve realizzare mediante lo sforzo solidale di tutti e la grazia divina in un certo momento della storia, per rendere «più umana» la vita degli uomini, sarà perduto né sarà stato vano»[30]
Trascendenza o continuità della storia
Il modello della continuità della storia affida all'impegno storico dell'uomo una funzione essenziale per la venuta del Regno.
Secondo questo modello la speranza cristiana non ha due oggetti: Dio e le costruzioni dell'uomo, ma uno solo: Dio operante nelle imprese umane. È infatti solo all'interno dell'azione dell'uomo e dei suoi progetti che Dio si rende visibile come suo salvatore, ragione del suo futuro.
Il Regno giungerà quando l'uomo, seguendo lo Spirito, ne avrà preparate le condizioni.
Questa tendenza teologica, già anticipata da alcuni precursori, ha avuto ampi sviluppi negli anni '70 in particolare per gli stimoli delle diverse teologie della prassi.
Teilhard de Chardin
Il gesuita francese scriveva: «Perché Cristo apparisse una prima volta sulla terra, occorreva evidentemente (nessuno ne dubita) che in conformità con il processo generale dell'evoluzione, il tipo umano si trovasse anatomicamente costituito e socialmente sviluppato già fino a un certo grado di coscienza collettiva. Ciò posto, perché, facendo un passo ulteriore, non immaginare che, anche per la sua seconda e ultima venuta, il Cristo attenda, per riapparire, che la collettività sia divenuta capace, perché pienamente sviluppata nelle sue potenzialità 'naturali', di ricevere da lui la sua consumazione soprannaturale? Perché in fin dei conti, se ci sono regole fisiche precise per lo sviluppo storico dello Spirito, perché non ne esisterebbero, a fortiori, per il completamento e il suo termine?».[31]
Schillebeekx
Vari teologi interpretano in questo senso anche alcuni testi della Costituzione pastorale del Vaticano II.[32]
Scrive, ad esempio, Schillebeekx: «Per la costituzione è fondamentale l'idea che esiste un legame misterioso tra la prospettiva terrena del futuro e la prospettiva escatologica finale. Ne deriva la conseguenza che la speranza cristiana nell'Escaton stimola la costruzione di un migliore mondo terrestre».[33]
Egli riferendosi al testo della GS. 39: «Passa certamente l'aspetto di questo mondo...», commenta: «Il Regno di Dio si costruisce in questo mondo terreno di cui passa soltanto l'aspetto ma nulla di ciò che l'amore del prossimo in esso ha realizzato».[34]
Metz e la teologia politica
Il più autorevole rappresentante della teologia politica, riferendosi alla forma della speranza cristiana, scrive: «L'escatologia cristiana non... può essere una escatologia dell'attesa puramente passiva per il quale il mondo e il suo tempo appaiono come una specie di sala d'aspetto...aspettando che si apra la porta del parlatoio di Dio. L'escatologia cristiana deve piuttosto essere compresa come escatologia critica e costruttiva».[35] Mentre la teologia precedente sottolinea le dimensioni cosmiche dell'impegno umano e gli aspetti individuali, Metz accentua la trasformazione del «mondo umano», il rinnovamento della società. È il cambiamento sociale a rendere visibile il Regno di Dio attraverso le sue anticipazioni storiche, a fondare perciò la speranza degli uomini tutti. A questo la Chiesa deve impegnarsi perché la salvezza a cui si riferisce la sua missione non è una salvezza privata.
Moltmann e la teologia della speranza
Moltmann ha dovuto forzare l'ambiente culturale del protestantesimo tedesco per giungere a proporre una teologia della speranza e ad affermare il valore intrinseco dell'impegno storico dell'uomo e alla sua collaborazione con Dio nella creazione del futuro. Egli vi è riuscito con il continuo richiamo dell'azione attuale dello Spirito che si esprime nella storia «come parola, come comunità e come azione, ... anticipazioni del Regno di Dio inaugurato da Cristo e incarnato in Cristo».[36]
Da queste tre forme operative dello Spirito, secondo Moltmann «consegue che la speranza cristiana non sta di fronte all'alternativa o di affidarsi alle possibilità di Dio o di cercare le possibilità del mondo. Colui che spera in Dio non viene traslocato nell'al di là di Dio, bensì nello Spirito di Dio e del tempo finale e delle sue possibilità».[37]
Egli per questo rimprovera la teologia cristiana, soprattutto protestante, di avere troppo trascurato l'aspetto storico della salvezza abbandonando le anticipazioni escatologiche terrene all'entusiasmo delle sette.[38] Salvezza, secondo questa prospettiva, «significa anche realizzazione dell'escatologia, speranza di giustizia, umanizzazione dell'uomo, socializzazione dell'umanità, pace per il creato intero».[39]
La salvezza e la liberazione dell'uomo non sono il semplice risultato, spontaneo e naturale del passato o dell'impegno umano. Ma un farsi avanti del futuro attraverso anticipazioni di comunità e di persone profetiche, che lasciano spazio all'azione dello Spirito. Per questo il futuro dell'uomo, anche nella sua dimensione storica, può essere oggetto della speranza cristiana e costituire il programma del suo impegno per il Regno. Esso include, quindi, anche il futuro desiderabile di una terra abitabile e deve sviluppare la creatività per la sua realizzazione.
In definitiva non esiste contrapposizione tra l'ultima soprannaturale speranza e le «penultime» speranze terrene. La contrapposizione messa in evidenza dall'impegno sociale del cristiano attraverso l'esercizio della sua speranza è quella esistente tra i benestanti e tutti «coloro che ora e in futuro sono trascurati, oppressi ed esclusi dal processo di sviluppo».[40]
Teologia della liberazione
La teologia della liberazione ha sviluppato ampiamente questi temi.
Il suo assunto centrale considera appunto i processi di liberazione storica come una componente essenziale ed intrinseca della realizzazione del Regno. «Ciò suppone che Dio sia pensato come un Amore liberatore, la cui presenza nel mondo è tanto più forte, quanto più avanza la liberazione umana. Un Dio che si manifesta nell'amore degli uomini tra di loro, e di conseguenza, nel loro combattimento per la libertà di tutti. Un Dio che chiede ai credenti di attendere attivamente il suo Regno costruendo il regno della libertà».[41]
La liberazione totale del compimento finale si concretizza in liberazioni parziali della storia che la preparano. Come anticipazioni e preparazioni, queste liberazioni sono imperfette e transitorie e quindi debbono essere sempre superate ma non possono essere scavalcate.[42]
Per questi motivi l'impegno dell'uomo per il Regno deve avere la storia come campo di esercizio per modificarne le condizioni di esistenza. In particolare il cristiano deve partire dai poveri, dagli emarginati, dai maledetti della terra. Essi infatti rappresentano il luogo dove il peccato esprime tutta la sua forza di distruzione e di morte. «Una situazione di ingiustizia, infatti, non è una casualità, non è qualche cosa di segnato da un destino ineluttabile: esiste alle sue spalle una responsabilità umana... Per questo la conferenza di Medellìn vede lo stato di cose esistente in America Latina come «una situazione di peccato», «un rifiuto del Signore».[43]
Perciò il cristiano deve essere guidato dalla convinzione che «solamente con la partecipazione al processo storico di liberazione sarà possibile indicare l'alienazione fondamentale presente in ogni alienazione parziale».[44]
L'opzione per i poveri quindi è una assoluta necessità per la Chiesa che vuole preparare la venuta del Regno.
NATURA DELL'IMPEGNO ECCLESIALE DI FRONTE AL MONDO
La Chiesa ha ragioni teologiche per prendere posizione di fronte ai problemi del mondo. Ma l'atteggiamento che la Chiesa assume è diverso da quello di altri tempi.
Atteggiamento nuovo della Chiesa
È importante delineare le caratteristiche nuove dell'atteggiamento ecclesiale perché esso caratterizza le dinamiche attuali dell'impegno politico.
La Chiesa non ha soluzioni specifiche
Come aveva già detto la Populorum Progressiodi Paolo VI, anche nella recente enciclica il Papa afferma che la Chiesa non ha soluzioni tecniche da indicare e che in ogni caso nessuna soluzione di giustizia adegua le esigenze del Regno di Dio.[45]
In questa prospettiva anche il concetto di dottrina sociale della chiesa si sta modificando. Dopo un periodo, in cui per il senso integrista che la formula sembrava connotare si preferiva evitarne l'uso, ora l'espressione «dottrina sociale della chiesa» ritorna in auge. Ma il senso ne è storicizzato e relativizzato.
Essa indica «l'insieme dei princìpi di riflessione, dei criteri di giudizio e delle direttrici di azione»[46] proposti dall'insegnamento della Chiesa, che avverte la necessità di adeguarsi costantemente alle diverse e mutevoli situazioni della umanità. Per questo si è stabilita una tradizione di commemorare le encicliche sociali, per poter aggiornare la dottrina sociale della Chiesa.
Giovanni Paolo II, che tiene molto a questa formula, ne precisa il senso affermando che essa «non è una terza via tra capitalismo liberalista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un'ideologia, ma l'accurata formulazione dei risultati di un'attenta riflessione sulle complesse realtà dell'esistenza dell'uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale».[47]
Funzione specifica della Chiesa
La Chiesa «sa bene che nessuna realizzazione temporale si identifica col Regno di Dio, ma che tutte le realizzazioni non fanno che riflettere e, in un certo senso, anticipare la gloria del Regno, che attendiamo alla fine della storia, quando il Signore ritornerà. Ma l'attesa non potrà mai essere una scusa per disinteressarsi degli uomini nella loro concreta situazione personale e nella loro vita sociale, nazionale e internazionale, in quanto ora soprattutto condiziona quella».[48]
La Chiesa deve impegnarsi quindi. La ragione che il Papa indica ricalca un testo della GS che è stato diversamente interpretato: «Nulla anche se imperfetto e provvisorio, di tutto ciò che si può e si deve realizzare mediante lo sforzo solidale di tutti e la grazia divina in un certo momento della storia, per rendere 'più umana' la vita degli uomini, sarà perduto, né sarà stato vano... I beni di questo mondo e l'opera delle nostre mani... servono per la venuta del Regno definitivo. Così il Signore... uniti ci invia al mondo intero per dare testimonianza, con la fede e con le opere, dell'amore di Dio, preparando la venuta del suo Regno e anticipandolo pur nelle ombre del tempo presente. Quanti partecipiamo alla Eucaristia, siamo chiamati a scoprire, mediante questo sacramento, il senso profondo della nostra azione nel mondo in favore dello sviluppo e della pace; ed a ricevere da esso le energie per impegnarci sempre più generosamente, sull'esempio di Cristo che in tale sacramento dà la vita per i suoi amici (cf Gv 15, 13). Come quello di Cristo e in quanto unito al suo, il nostro personale impegno non sarà inutile, ma certamente fecondo».[49]
CONCLUSIONE
Alcuni dati mi sembrano oggi acquisiti e alcune riflessioni restano aperte.
I dati acquisiti riguardano la modalità dell'azione divina nella storia umana e il rapporto tra l'azione umana e la salvezza; le riflessioni aperte, invece, riguardano il rapporto con il Regno.
In ogni caso le ragioni teologiche di un impegno politico sono chiari per tutti anche se diversamente urgono nelle varie prospettive.
Azione divina e salvezza umana
Non vi è alcun dubbio, per il cristiano, che la salvezza è da Dio. Anche l'interpretazione del mistero di Gesù nella tradizione cristiana avviene all'interno di questo presupposto: Gesù salva perché Dio in Lui opera. Nel modello della incarnazione l'azione di Gesù è vista come espressione umana della parola eterna di Dio. La efficacia salvifica dei suoi gesti di perdono, di compassione, di misericordia è la medesima efficacia dell'Amore di Dio. Per questo la vita di Gesù è sempre sotto l'azione dello Spirito di Dio e si esprime, nei confronti degli Apostoli, con la effusione del medesimo Spirito, reso possibile dalla glorificazione o spiritualizzazione di Gesù nella risurrezione. Giovanni esprime esplicitamente questo nesso: «Questo disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in Lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato glorificato» (Gv 7, 39).
In termini secolarizzati possiamo dire che il Bene rende possibile gesti di bontà, il Vero suscita parole vere, il Giusto ispira progetti di fraternità e di condivisione. Ma tutto questo secondo modalità diverse dalle abituali influenze delle creature.
Azione umana e salvezza
Se accettiamo il modello della incarnazione possiamo affermare che l'azione umana è assolutamente necessaria per la salvezza dell'uomo come emergenza dell'azione salvifica di Dio. Ma non in quanto l'azione è esecuzione di opera o fedeltà alla legge o in quanto ragione di merito presso Dio, ma in quanto luogo del divenire umano. Attraverso la sua azione l'uomo diventa se stesso. Tutte le azioni umane, in questa prospettiva, possono essere salvifiche: pensieri, desideri, decisioni frustrate, opere fallite. Non sono quindi le opere dell'uomo, ma le sue azioni e il suo divenire a tracciare la storia salvifica.
L'uomo vivente e non le costruzioni del suo ingegno sono la salvezza realizzata.
Strutture storiche e salvezza umana
L'azione salvifica di Dio non si esprime soltanto nelle attività singole dell'uomo, ma anche nelle decisioni sociali e nelle imprese comunitarie. Anzi, quando la storia procede e diventa complessa, richiede strutture più ampie e ricche di condivisione, di giustizia, di pace, ecc.
La crescita della persona e le sue azioni sono alimentate dai rapporti e dalle strutture sociali in cui la persona è inserita.
La creazione perciò di adeguate strutture sociali è la condizione dell'azione salvifica di Dio. Esse sono componenti della storia salvifica non in quanto opere dell'uomo, ma in quanto luogo di emergenza dell'azione salvifica di Dio secondo la legge della incarnazione.
Come Gesù rappresenta l'espressione della perfezione divina in un individuo umano (la parola incarnazione deriva da carne nel senso di Basar ebraico = individuo umano), una comunità ordinata secondo amore e giustizia (nella pace) rappresenta l'espressione della perfezione divina in una cultura (inculturazione).
Realizzazioni storiche e Regno di Dio
Da queste affermazioni però non si può dedurre una connessione intrinseca tra realizzazioni storiche dell'uomo e forma definitiva del Regno.
Non sappiamo chi saremo e non conosciamo le forme future dell'esistenza salvata.
Abbiamo alcuni criteri induttivi e alcuni indizi, ma non siamo in grado di svilupparli a causa della insufficienza dei parametri attuali. È opportuno perciò rinunciare ad ogni proiezione futura.
Non possiamo perciò rinunciare alla creazione di ambiti storici sempre più idonei ad accogliere doni di vita e ricchezze salvifiche.
La crescita dell'uomo, il divenire figli di Dio, è condizionato necessariamente al loro sviluppo storico. Noi saremo secondo chi siamo diventati, diventiamo secondo ciò che nella azione accogliamo del dono di Dio e accogliamo secondo le dinamiche comunitarie in cui siamo inseriti.
Fare politica è il mezzo per realizzare comunità umane in grado di continuare l'avventura della Parola divina nella storia umana, quella avventura che in Cristo ha mostrato i suoi paradigmi e la sua legge fondamentale che è la legge della incarnazione.
Ideali assoluti e concretezza storica
Il rapporto tra Regno e storia si concretizza nella relazione tra ideale e compromesso della situazione.
Ogni tensione sociale vive di questa dinamica.
È necessario che una società dia spazio a chi difende l'ideale e lo vive nelle forme radicali, ma anche a chi gestisce il presente in modo da non impedire il suo graduale sviluppo.
È difficile che un singolo individuo o un gruppo possa vivere compiutamente questi due aspetti.
È necessario perciò che la società preveda la dialettica tra gruppi che propongono l'ideale nelle sue espressioni assolute e coloro che tengono conto delle situazioni limitate e dei passi possibili.
I primi senza i secondi cadrebbero nel terrorismo della virtù e tenderebbero ad imporre a tutti con la forza le scelte ideali che invece debbono maturare nella libertà.
I secondi senza i primi cadrebbero nella gestione del presente perdendo di vista l'ideale e le sue realizzazioni possibili nel presente. Gli uni debbono godere della presenza degli altri ed insieme camminare per realizzare quotidianamente il nuovo possibile in vista del definitivo.
D'altra parte, quando ha come riferimento la volontà di Dio o la sua giustizia, sempre più esigenti di tutte le realizzazioni umane, il credente è in grado di introdurre nelle situazioni contingenti e spesso ingiuste della storia, continue dinamiche di rinnovamento.
Ma è necessario che l'orizzonte di fede situi ogni situazione storica perché sia possibile introdurvi profezie e immettervi spinte rinnovatrici.
Questa è la condizione per stabilire correttamente il rapporto tra fede e impegno politico. Altrimenti o si cade nel dualismo schizofrenico o si elimina l'ambito della fede o si elimina il coinvolgimento storico. Nel primo caso si crea un piccolo spazio dedicato a Dio mentre tutto l'altro resta riservato alla storia, senza rapporti intrinseci tra di loro.
Nel secondo caso si vive solo nello spazio contingente del presente e la politica diventa semplice gestione del potere.
Nel terzo caso, molto più raro, ci si illude di vivere in uno spazio divino senza coinvolgimenti storici.
È urgente, invece, imparare a compiere la volontà di Dio anche nelle situazioni imperfette, dare gloria anche in circostanze opposte al suo volere, esprimere il suo amore in atti di solidarietà, tradurre la sua misericordia in gesti di perdono, realizzare progetti di giustizia come espressione della sua azione creatrice.
In tale modo la gestione del presente viene sempre alimentata dal confronto con gli ideali e non si cade né nella fuga dal presente, né nel terrorismo della virtù, né nella rincorsa del potere transitorio e nell'idolatria dell'effimero.
NOTE
[1] Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis n. 14.
[2] Id., ib., n. 48.
[3] Cf C. Molari, Fede, in Dizionario di Pastorale giovanile, Elle Di Ci, Torino 1989, pp. 343-353.
[4] Cf C. Molari, Dio, in Dizionario di Pastorale giovanile, Elle Di Ci, Torino 1989, pp. 198-207.
[5] Cf G. Jossa, Gesù e il movimento di liberazione della Palestina (BCR 37) Paideia, Brescia 1980; U. Vanni, Carità e politica del Nuovo Testamento, in Civiltà Cattolica 141 (1990) 1, pp. 15-28.
[6] M. Noth, Storia di Israele, Paideia, Brescia 1975, p. 510. E. Lohse, L'ambiente del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1980, pp. 34-56; A. Soggia, Storia d'Istraele, Paideia, Brescia 1984, pp. 471-496.
[7] G. Jossa, Gesù e il movimento di liberazione della Palestina, (BCR 37) Paideia, Brescia 1980, p. 37.
[8] G. Jossa, Gesù e il movimento di liberazione della Palestina, oc, soprattutto pp. 61-94; K. Schubert, I partiti religiosi ebrei del tempo neotestamentario, Paideia Brescia 1976, pp. 85-90. Lohse invece (oc, pp. 88-89) non distingue fra zeloti e sicari.
[9] K. Schubert, I partiti religiosi ebrei del tempo neotestamentario, Paideia, Brescia 1976, p. 88.
[10] H.S. Reimarus, in Id., (a cura di F. Parente) I frammenti dell'anonimo di Wolfenbiitter pubblicati da G.E. Lessing, Bibliopolis, Napoli 1977, pp. 349-534; S.G.F. Brandon, Jesus and the Zealots, Manchester 1967; Id., Il processo di Gesù, Milano 1974; F. Belo, Lecture matérialiste de l'évangile de Marc. Récit, Pratique, Idéologie, Cerf, Paris 1974; Id., Una lettura politica del Vangelo, Claudiana, Torino 1975.
Per una esposizione ed una risposta cf O. Culmann, Gesù e i rivoluzionari del suo tempo, Paideia, Brescia 19743, M. Hengel, War Jesus Revolutionar?, H. Calwer 110, Stuttgart 1970; Id., Violenza e non-violenza. Una «teologia politica» del Nuovo Testamento, Torino 1977; M. Pesce, Ricerche recenti sulla dimensione politica della vicenda di Gesù, in AA.VV., Conoscenza storica di Gesù, Paideia, Brescia 1978, pp. 33-102. G. Jossa, Gesù e il movimento di liberazione della Palestina, (BCR 37) Paideia, Brescia 1980, pp. 95-103.
[11] Cf R. Bultmann, Gesù, Queriniana, Brescia 1972 or. (1926); O. Cullmann, Dio e Cesare, Milano 1957; O. Culmann, Gesù e i rivoluzionari del suo tempo, Paideia, Brescia 19743; F. Hahn, Christologische Hoheitstitel. Ihre Geschichte im frühen Christentum, Góttingen 19744.
[12] Bultmann e Hann si muovono soprattutto in questa direzione.
[13] Tutti i rappresentanti della teologica politica, della liberazione e della speranza che citerò più avanti danno questa interpretazione di Gesù. Fra gli esegeti ricordo G. Barbaglio, Il Regno di Dio e Gesù di Nazaret, in AA.VV., Conoscenza storica di Gesù, Paideia, Brescia 1978, pp. 103-120; cf anche G. Jossa, Gesù e il movimento di liberazione della Palestina, (BCR 37) Paideia, Brescia 1980, pp. 277-334.
[14] Cf P. Grelot, La speranza ebraica al tempo di Gesù, Boria, Roma 1981, soprattutto pp. 141-149. È giusto, mi sembra, quanto scrive a p. 146: «la coscienza personale di Gesù è in conflitto acuto, su questo punto, con le idee messianiche di tutti, folla e dotti»
[15] Non entro nelle questioni storico-esegetiche per le quali cf O. Cullmann, Dio o Cesare, in Studi di teologia biblica, Roma 1969, pp. 87-166. H. Schlier, Lo stato secondo il NT, in Riflessioni sul NT, Brescia 1969, pp. 251-274. G. Jossa, Gesù e i movimenti di liberazione, oc, pp. 252-266. Presento solo l'atteggiamento fondamentale di Gesù.
[16] G. Flavio, La Guerra giudaica, 2, 118, tr.it. di G. Ricciotti, SEI, Torino 1937, pp. 239-240.
[17] Se si interpreta l'episodio del tributo con il criterio di Rom. 13,1 (Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio) l'espressione di Gesù vorrebbe dire «Se date a Cesare quel che è di Cesare, date con ciò a Dio quel che è di Dio». In questo senso interpretano l'episodio ad es. E. Stauffer (Le Christ et le Césars, Paris s.d., la ed. Hamburg 1948), J.D.E. Derret (Law in the New Testament, London 1974, pp. 321 ss., 333 ss. citato da V. Taylor II Vangelo secondo S. Marco, Cittadella, Assisi 1977, p. 560) citati da Jossa, Gesù e i movimenti, oc, pp. 259-260
[18] A.D. Sertillanges iniziò ad affrontare il problema ancora giovane nella relazione che tenne a Friburgo nel 1897 al 4° Congresso degli intellettuali cattolici (cf Compte rendu du Congres des catholiques de Fribourg, Fribourg 1897, Sciences Philosophiques, pp. 590 ss.). E concluse con l'ottimo volume uscito postumo: L'idée de création et ses retensissements en philosophie, Aubier 1945 (stampato di fatto alla fine del 1949).
[19] S. Tommaso, Contra Gentes 2, 18.
[20] Teilhard de Chardin, La transformation creatrice (inedito del 1917), in Comment je crois, Seuil, Paris 1969, p. 31.
[21] Id., Note sur le modes de l'action divine dans l'univers (inedito del 1920), in Comment je crois, cit., p. 38. Analoga affermazione apparirà l'anno successivo in un articolo di Etudes: «Quando la causa prima opera, essa non si inserisce nel mezzo degli elementi di questo mondo, ma agisce direttamente sulle nature in modo che, si potrebbe dire, Dio 'fa' meno le cose di quanto non oper in modo che esse si facciano», Id., Comment se pose aujourd'hui la question du transformisme, in Etudes, 5-12 juin 1921, ora in La vision du passé, Seuil, Paris 1957, p. 39.
[22] K. Rahner, Il problema dell'ominizzazione, Morcelliana, Brescia 1969, p. 96.
[23] Id., ib., p. 99.
[24] Id., Scienze naturali e fede razionale, in Scienza e fede cristiana, Paoline, Roma 1984, p. 58.
[25] K. Barth, Der Roemerbrief, Bern 1919: tr. it. di M.C. Laurenzi, Esperienza e rivelazione. La ricerca del giovane Barth (1909-1921), Marietti, Torino 1983, p. 153.
[26] H.E. Toedt, in AA.VV., Dibattito sulla teologia della speranza di L Moltmann, Queriniana, Brescia 1973, pp. 259-260
[27] G. Thils, Teologia della storia, Paoline, Alba 1951, p. 82. Cf B. Besret, Incarnation ou eschatologie? Contribution à l'histoire du vocabolaire religieux contemporain 1935-1955., Cerf, Paris 1964.
[28] Y. Congar, Jalons pour une théologie du laicat, Cerf, Paris 1954, p. 141
[29] H. Urs von Balthasar, Gloria, 7, Nuovo Patto, Jaca Book, Milano 1971, pp. 459, 463-464, 469.
[30] Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 48.
[31] Theilhard de Chardin, Trois choses que je vois (1948), ora in La direction de l'avenir, Seuil, Paris 1963, p. 169.
[32] Le formule del Concilio Vaticano II non sembrano sempre coerenti. I diversi testi conciliari affermano da una parte la connessione tra storia e Regno di Dio, dall'altra l'insufficienza di questa nei confronti di quello. Non viene precisata tuttavia la natura di questo rapporto, e il senso di questa trascendenza è espresso diversamente. Su questi punti perciò si sono avute varie interpretazioni nella teologia postconciliare. La Commissione dottrinale ha dichiarato di non voler precisare quale relazione esisterà tra l'uomo risuscitato e il mondo attuale (Cf Acta Syn. Conc. Vat. Sec., v. III pars VIII, Vaticano 1976, p. 140 n. 7, p. 141 n. 19). Ma di fatto alcuni si chiedono se l'insegnamento conciliare preso nel suo insieme non vada oltre questa volontà dichiarata, e non affermi un vincolo intrinseco tra storia e Regno. (Cf Ruiz de la Pena, L'altra dimensione. Escatologia cristiana, Boria, Roma 1981, p. 229. Mentre C. Pozo, Teologia dell'al di là, Paoline, Roma 1984, p. 142 n. 165, p. 143 n. 147 preferisce una interpretazione in linea più escatologica).
[33]E. Schillebeekx, Fede cristiana e prospettive terrene, in AA.VV., La chiesa nel mondo contemporaneo, Queriniana, Brescia 1966, p. 121.
[34] Id., ib., p. 135.
[35] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1969, p. 88.
[36] J. Moltmann, Risposta alla critica della 'Teologia della speranza', in AA.VV., Dibattito sulla `Teologia della speranza' di Jürgen Moltmann, Queriniana, Brescia 1973, p. 312.
[37] Id., ib., p. 314.
[38] Id., Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970, p. 338.
[39] Id., ib., p. 337.
[40] Id., Futuro della creazione, Queriniana, Brescia 1980, p. 87.
[41] G. Girardi, Escatologia, secolarizzazione, lotta di classe. Per una ermeneutica del discorso escatologico, in Idoc intern. 14 (1983) nn. 11-12, p. 23.
[42] Cf L. Boff, Il Gesù nella teologia della liberazione, in Idoc intern. 10 (1979), nn. 3-4, pp. 44-46. Id., Gesù Cristo liberatore, Cittadella, Assisi 1973.
J.C. Scannone, La teologia della liberazione. Caratterizzazione, correnti, tappe, in AA.VV., Problemi e prospettive di teologia dogmatica, Queriniana, Brescia 1983, pp. 393-423.
[43] G. Gutierrez, Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1972, p. 180.
[44] Id., ib., p. 181
[45] Sollicitudo rei socialis n. 41 e n. 48.
[46] Congregazione, per la Dottr. della fede, Libertatis coscientia n. 72. Paolo VI, Octogesiana adveniens n. 4.
[47] Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis n. 41.
[48] Id., ib., n. 48.
[49] Id., ib. Egli cita la GS n. 39