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    Etica per un figlio



    Carlo Nanni

    (NPG 1993-04-64)


    Il libro che si vuole commentare è di Fernando Savater, Etica per un figlio, Roma-Bari, 1992, pp. 117, (prezzo della prima edizione L. 18.000. Si tratta di una traduzione dallo spagnolo.
    F. Savater (San Sebastian, 1947) è professore di etica all'Università dei Paesi Baschi. Autore fecondo e brillante, ha scritto una trentina di volumi, tra cui La infancia recuperada (1976), El contenido de la felicidad (1988), Apóstatas razonables (1990). Di lui era già stato tradotto in italiano Invito all'etica (Palermo 1984).
    Il largo successo incontrato dal libro in Spagna si è ripetuto in Italia, dove Etica per un figlio nei primi tre mesi ha avuto dieci edizioni e resta nelle classifiche dei libri più venduti.
    In questa recensione vorrei spiegare anzitutto il perché del successo, evidenziando le caratteristiche essenziali di esso. Ed in secondo luogo vorrei proporre perché esso può essere un utile confronto per chi è interessato ad una pastorale giovanile in termini educativi.

    Un libro scritto in uno stile interessante

    Un primo motivo del successo è senz'altro lo stile con cui il libro è scritto. Savater appare spesso, apprezzato, alla televisione spagnola. Sa farsi ascoltare e - come in questo caso - sa farsi leggere. Il volume nell'originale si intitola Etica para Amador (Editorial Ariel, Barcelona, 1991): Amador è il figlio adolescente di Savater. Come si dice nel retrocopertina: «Un grande filosofo parla a suo figlio del bene e del male con passione e insieme con humor».
    Ed invero tale è certamente il contenuto essenziale e l'andamento letterario del testo: dell'etica (o meglio, della libertà e del bene) si parla in modo veloce, scorrevole, perspicuo, brioso, ricco di richiami all'attualità, agli interessi giovanili fatti emergere dalla radio e dalla televisione, anche se, allo stesso tempo, denso e ricco di brani antologici letterari e filosofici, sia nel corso del testo sia in fine di capitolo come spunto per l'approfondimento personale. Il discorso è colloquiale, paterno, sovente narrativo nella sua discorsività. La riflessione è portata avanti con molta vivacità, misura e senso d'umorismo; e prende sovente lo spunto da ricordi autobiografici o da figure ed eventi letterari.
    Si potrebbe sostanzialmente condividere il giudizio di Gianni Vattimo, professore di filosofia all'Università di Torino (e massimo esponente di quello che è stato definito «il pensiero debole») il quale, nel retrocopertina, presentandolo, parla di «un libro intenso ed amichevole, che genitori e maestri dovrebbero leggere e commentare insieme ai loro figli, discepoli, amici adolescenti».
    Questo afflato paterno, questo senso di preoccupazione per un futuro di libertà per il proprio figlio adolescente è certamente presente. Esso rimane, al di là di certe sovrabbondanze, lungaggini e qualche pesantezza.
    In tal senso è da riprendere la recensione - piuttosto pesante - dello scrittore Alberto Bevilacqua (vedi «Corriere della Sera del 13 settembre 1992, p. 7). Egli afferma che nel libro «abbondano le banalità e le ovvietà», che si respira «un egocentrismo pedante e colto», che «non fa che parlare «in nome del padre», ma che tuttavia «emergono spunti preziosi, qualche passaggio memorabile».

    Nel contesto di un rinnovato impegno di educazione morale

    A parte lo stile, credo che il successo del libro vada spiegato anche in termini di tempestività e di rispondenza ad esigenze diffuse nel contesto socioculturale attuale, spagnolo, italiano, europeo.
    Nella Spagna post-franchista, democratica e a governo socialista, in alternativa all'insegnamento della religione, si ha, nella scuola pubblica, un corso di etica. L'autore nella iniziale «avvertenza antipedagogica» (pp. VII-VIII) dichiara subito che «questo non è un manuale di etica per i liceali».
    Egli si dice contrario alla soluzione dell'etica come alternativa all'ora di religione, perché «l'etica, poveretta, non è venuta al mondo per puntellare o rimpiazzare i catechismi...».
    A parte la scorretta (e banale) equazione/riduzione di insegnamento della religione e ora di catechismo, Savater però si dice «non altrettanto convinto che si debbano mettere al bando delle prime considerazioni generali sul significato della nozione di libertà», e afferma di non credere «che bastino all'argomento un certo numero di regole di comportamento sparse qua e là nelle altre materie».
    E perentoriamente dichiara che «l'etica è parte essenziale di ogni educazione degna di questo nome».
    Questa preoccupazione per un'educazione morale trascende l'ambiente spagnolo. È un esigenza emergente nella nostra comune condizione europea, caratterizzata dalla complessità, dal pluralismo e negativamente dalla perdita delle evidenze etiche fondamentali, dall'allentamento di comportamenti morali nel pubblico e nel privato. La tangentopoli è italiana come spagnola, è europea. Lo stesso lo è la «questione morale», che è certamente questione politica, correttezza civile, ma anche questione culturale, educativa. Se il fattore uomo è stato scoperto come elemento centrale per la «total quality» della produzione e quindi assolutamente rilevante nello sviluppo economico, è opinione abbastanza diffusa che l'ultima spiaggia al malessere e al disagio sociale sia l'appello alle capacità personali di decisione libera e responsabile. Da qui l'importanza di un impegno educativo centrato sul suscitamento e il consolidamento delle capacità di decisioni personali.

    «Cerca di vivere bene»

    Il tesoro di Savater mi ha richiamato un precedente illustre, anche se non dichiarato dall'autore: l'Etica a Nicomaco, cioè il principale testo aristotelico di etica. Nicomaco era il figlio di Aristotele e fu anche l'editore del testo paterno.
    A me pare che oltre il titolo le analogie con il testo aristotelico siano molte e sostanziali, di contenuto e di prospettiva.
    Il testo aristotelico inizia con l'affermazione che l'attività dell'uomo ha come suo fine il bene e che il sommo bene è la felicità; essa non si può perseguire isolatamente, ma dagli uomini in quanto viventi in società; in tal senso l'etica, vale a dire la scienza che cerca di stabilire ciò che è da fare per perseguire il bene, trova il suo vertice nella politica; la felicità si definisce in base alla natura umana razionale, per cui la ricerca della felicità non può prescindere dall'esercizio della sua facoltà essenziale, la ragione; e trova nella saggezza la sua suprema virtù. Peraltro «papà» Aristotele parte dalla costatazione che occorrono anni di studio e di tirocinio per apprendere ad esercitare questo o quel mestiere (oggi diremmo: per assolvere questo o quel ruolo sociale, per occupare questo o quel posto di lavoro); non si dovrà fare almeno altrettanto per apprendere ad esercitare quel difficile e più complesso «mestiere» che è «vivere bene»?
    Anche Savater parte un po' da questa stessa preoccupazione. Il primo capitolo si chiede «di che cosa si occupa l'etica». Ma la domanda rimane come un ritornello fino all'epilogo del libro.
    Per l'autore un'etica degna di questo nome parte dalla vita e si propone di rafforzarla, di renderla più ricca. E siccome al centro della vita umana c'è la libertà, l'etica diventa l'arte di scegliere e di vivere bene, in piena libertà. La parola-chiave diventa così la parola libertà. Anche se in certa misura programmati dalla natura e determinati ben presto culturalmente, tuttavia solo all'uomo è dato di dire «sì»-«no», voglio o non voglio. Seppure non in modo indiscriminato («non siamo liberi di scegliere ciò che ci succede»), né senza identificarsi con l'onnipotenza («possiamo tentare di fare qualcosa, non è sicuro che riusciremo a farla»), tuttavia possiamo trovare soluzioni nuove e scegliere almeno parzialmente la nostra forma di vita.
    Libertà è decidere, ma anche rendersi conto, pensare almeno due volte a quello che si sta per fare: la prima volta per chiedersi «perché faccio questo?» e la seconda volta per chiedersi «è bene?».
    L'autore afferma che non c'è un unico modo di essere buoni, che a riguardo le opinioni variano a seconda delle circostanze, che si può essere buoni «a nostro modo», che ci sono molti modi di esserlo, e che tutto dipende dall'ambito in cui ciascuno si muove. Circostanze ed intenzioni sono importanti per stabilire ciò che è bene.
    «È importante essere capaci di stabilire le priorità, una certa gerarchia tra quello che improvvisamente mi va e quello che voglio alla lunga, più profondamente» (p. 38). Più oltre (p. 52) si dice che occorre cercare di comprendere, parlare con gli altri, spiegarsi e stare a sentire le ragioni altrui. Ma alla fin fine resta chiaro che un'azione non è mai giusta solo in quanto è un ordine, un'abitudine o un capriccio o un desiderio. La moralità è nell'«essere buono... nel senso buono della parola», come diceva il poeta spagnolo Antonio Machado.

    In una fondamentale prospettiva laica

    Certamente questo invito alla ricerca di una vita buona, saggia, comprensiva e corresponsabile è estremamente interessante ed attuale per tutti coloro che sono interessati alla vita delle persone in un contesto non semplice e in un tempo di forte cambiamento come è il nostro tempo e la nostra attuale convivenza civile. Ma lo è in particolare per quegli ambienti laici, dove la moralità e l'eticità è l'ultima spiaggia, non considerando legittimo ricorrere alla coscienza religiosa e all'istanza di fede. Il libro si muove entro questo orizzonte «ideologico».
    Lo avverte molto chiaramente Gianni Vattimo, che nella già citata presentazione in retrocopertina dichiara perentoriamente: «Non è vero che un'etica laica, senza assoluti e senza miti, non può fornire modelli educativi efficaci. Savater lo dimostra persuasivamente: la moralità risulta soprattutto caratterizzata come autonomia, capacità di non sottomettersi, amore di sé nel senso migliore del termine». E l'autore al termine della stessa «Avvertenza antipedagogica» afferma: «Il mio obiettivo non è quello di fabbricare cittadini benpensanti (e tantomeno malpensanti), ma quello di stimolare la formazione di liberi pensatori».
    Questa fondamentale laicità si vede anzitutto nelle referenze che riporta al termine di ognuno dei nove capitoletti di cui è composto il libro (con funzione di conferma o di approfondimento, sotto forma di rubrica intitolata «Vatti a leggere»).
    Un'altra conferma viene dallo stesso autore che nell'«epilogo» (p. 109 ss.) ricorda che altri meglio di lui hanno parlato di etica e hanno dato luogo ad una notevole letteratura in proposito: ma è interessante che poi cita esplicitamente solo Aristotele, Spinoza, Nietzsche. Tutta la letteratura teologica e spirituale in materia è semplicemente ignorata.
    Del resto questa caratterizzazione laica la si coglie in alcuni punti «forti»:
    - nella concezione della libertà come autonomia;
    - nella referenza ultima dell'agire morale.

    Libertà e autonomia morale
    Sotto forma di ammonimento educativo paterno si dice di non essere «imbecilli» (cioè di non mettersi da sé il bastone tra le ruote), di essere svegli, di saper giudicare cosa è il proprio meglio, cosa è bene e ciò che è male, di prendere sul serio la libertà, ossia essere responsabili, accettare le conseguenze dei propri atti, essere disposti a rispondere delle proprie azioni. Si può discutere quanto si vuole. Tuttavia, come si dice a p. 52, «lo sforzo di prendere la decisione vera e propria deve farlo ciascuno da solo con se stesso. Nessuno può essere libero al posto tuo».
    Il capitolo terzo riprende la massima «fai quello che vuoi» da Rabelais, non dall'agostiniano «ama et fac quod vis». In sant'Agostino l'istanza è sull'amore, in Rabelais invece è sul personale impulso di libertà. E anche per Savater il punto su cui poggia il resto è la propria libertà buona, per dirla in termini kantiani. Savater ammonisce il suo Amador di non confondere «fai quello che vuoi» con i capricci o con il fare la prima cosa che ti viene in mente, perché a voler fare quello che ci va, si può perdere tutto, come Esaù che per il classico piatto di lenticchie perse la primogenitura.
    «Fai quello che vuoi» non è altro che un modo di dire di prendere sul serio il problema della propria libertà, perché nessuno può esonerarci dalla responsabilità creativa di scegliere la propria strada. A questo riguardo sono lasciati da parte ordini e abitudini, premi e punizioni, in una parola tutto ciò che ti dirige da fuori. Occorre porsi il problema da soli di fronte al tribunale interno della propria volontà.
    A p. 35 afferma espressamente: «Non chiedere a nessuno come gestire la sua vita: chiedilo a te stesso. Se desideri sapere come impiegare al meglio la tua libertà, non perderla mettendoti al servizio di uno o di altri, per buoni, saggi e rispettosi che siano- sul modo di usare la tua libertà interroga la libertà stessa».

    Il riferimento ultimo della vita buona
    Soprattutto nel capitolo quinto l'autore cerca di chiarire al suo Amador in che cosa consista la vita buona.
    Inizia con il dire che «è chiaro ciò che vogliamo (cioè «vivere bene»), non è altrettanto chiaro in che cosa consista». Savater invita il figlio a non semplificare, perché sarebbe pericoloso e si finirebbe per danneggiare se stessi e gli altri. Occorre piuttosto saper gestire la complessità e le complicazioni che la vita presenta. Su due punti non c'è oscurità che tenga: non si può vivere bene senza le cose e non possiamo fare a meno delle persone. La saggezza consiste nel servirsi delle cose come cose e trattare le persone come persone. In forma sintetica a p. 79 l'autore dice che «l'unico assoluto è quello di essere umano tra gli esseri umani, di trattare gli altri ed essere trattato umanamente». Questa è considerata «la condizione indispensabile per una 'vita autentica'».

    «Sì» alla vita

    Questa prospettiva umanistico-libertaria presiede anche ai due ambiti che l'autore approfondisce nei due ultimi capitoli (ottavo e nono) in quanto forse più vicini alla condizione adolescenziale del suo referente: il sesso e la politica.

    Il sesso, il piacere e la felicità
    Per molta gente - dice l'autore - morale vuol dire quasi solo sesso. Forse ciò è dovuto al fatto che i rapporti sessuali possono creare vincoli molto forti e complicazioni sentimentali delicate. Ed in tal senso occorre a riguardo il massimo d'attenzione e di rispetto dell'altro. Per il resto «non c'è niente di male in quello che fa piacere a due persone e non danneggia nessuno» (p. 86).
    Più globalmente crede che «bisogna essere capaci di lasciarsi andare al gusto del presente, quello che i romani (e il poeta-profeta, un po' pedante, del film L'attimo fuggente) riassumevano con il motto «carpe diem» (p. 89). Ma esso, secondo l'autore, è da intendersi non tanto nel senso di cercare oggi tutti i piaceri, quanto piuttosto «cercare tutti i piaceri dell'oggi» (p. 89). Non si tratta di accanirsi a volere tutto insieme e subito, quanto a trovare il lato piacevole di quello che si ha; ad usare dei piaceri della vita. Il segnale dell'abuso è il fatto che la vita si impoverisce e si fissa su un unico ambito. Da questo punto di vista l'etica, secondo Savater, ha la funzione di garantire che vale la pena di vivere. La stessa felicità è definita come un «sì» alla vita, a quello che siamo o meglio a quello che sentiamo di essere (p. 92). E la virtù della temperanza è vista come la capacità di mettere il piacere al servizio della felicità o meglio come «amicizia intelligente con quello che ci dà godimento» (p. 94).

    Etica e politica
    In modo simile contro l'opinione corrente secondo cui la politica è una vergogna, una cosa sporca, l'autore invita Amador a diffidare di tutti quelli che lanciano tuoni e fulmini contro la gente in generale. In democrazia siamo tutti politici, direttamente o in rappresentanza di altri.
    È vero: i politici di professione sono più esposti all'usura del potere, promettono più di quello che possono mantenere, non si possono rimandare a casa se non a fucilate. Ma è pure chiaro che etica e politica esprimono, in maniera diversificata, la stessa volontà di vivere bene e tendono a che le relazioni umane diventino più umane. Peraltro, secondo l'autore, il sistema politico desiderabile deve rispettare al massimo - e limitare al minimo - gli aspetti pubblici della libertà umana; deve fare appello alla responsabilità e ricercare la giustizia; ma sempre nel rispetto della dignità umana di ognuno (che non ha prezzo); nella solidarietà e sostegno per coloro che sono nella sofferenza e nel bisogno; oltre ogni schieramento, ma pur nella coscienza della interdipendenza mondiale e dell'esigenza di superare ogni tribalismo e particolarismo. L'autore in tal senso si accalora per la difesa e l'attuazione dei diritti umani; si dice favorevole alla promozione dell'Onu e degli organismi internazionali; e soprattutto conclude ribadendo che la «diversità delle forme di vita è qualcosa di essenziale» (p. 107). Tolleranza, rigetto del razzismo, dei nazionalismi, delle ideologie fanatiche, religiose e laiche, ne sono come i logici corollari.

    Conclusione: l'educazione morale, prima ed oltre un'etica per un figlio?

    Nell'introduzione l'autore afferma che «tutto quello che dirò nelle pagine seguenti non è altro che la ripetizione di quest'unico consiglio: abbi fede. Non dico in me, né in qualche sapiente, e neppure nel sindaco, nel prete o nella polizia. Non negli déi né nel diavolo, né in macchine o bandiere. Abbi fiducia in te stesso. Nell'intelligenza che ti permetterà di diventare sempre migliore, e nell'istinto del tuo sentimento che metterà al tuo fianco i compagni giusti» (p. XII).
    C'è da chiedersi: quanto è condivisibile questa illuministica ed ottimistica fiducia in se stessi? Non rischia di lasciare l'adolescente Amador nel pieno della propria solitudine, tutt'altro che chiara e illuminata?
    Nell'Epilogo finale (che si intitola «Pensaci su», dopo aver ribadito il proprio schierarsi dalla parte della vita («quello che vale è la vita»; essere buono significa «sentire un'antipatia attiva verso la morte»), l'autore dice che quanto ha detto è stato più che altro un aiuto a comprendere come vivere meglio, ma che la risposta «mi sa che non ti resta altro che andartela a cercare personalmente» (p. 111).
    E più oltre, continua dicendo: «Tramite me, l'unica cosa che l'etica può dirti è che cerchi e pensi per conto tuo, in piena libertà: responsabilmente». /.../ Scegli quello che ti apre: agli altri, a nuove esperienze, a diversi modi di essere felice. Evita quello che ti chiude e ti sotterra. Per il resto, buona fortuna! /.../ Abbi fiducia» (p. 113).
    Di fronte a queste pur sublimi espressioni, si potranno far tacere del tutto alcune perplessità che affiorano con una certa emotività reattiva?
    Se questo è quanto può dire l'etica (ed un pensatore di etica al proprio figlio), può la pedagogia (preoccupata per la crescita e lo sviluppo personale dei tanti Amador e delle tante sue compagne) limitarsi ad un così ristretto ambito di intervento?
    Non so se è del tutto esagerata la «tirata» di Alberto Bevilacqua, che nella stessa recensione sopra segnalata, così si esprime: «Resta la sensazione di un solerte genitore che, tessendo le sue raccomandazioni ad un figlio che deve attraversare una strada a rischio, non si accorge di riferirsi al tempo andato delle carrozze. Il mondo d'oggi è labirintico, infido, estremamente bizantino nelle sue corruzioni» /.../; a un figlio, oggi, bisognerebbe insegnare, oltre che a vivere, a difendere la propria vita, con le opportune astuzie, basate sulla massima conoscenza possibile della realtà qual è: non nei libri soltanto, bensì nel crogiolo sconvolgente di ogni giorno». Ed ancora: non potrà dire qualcosa in più l'esperienza religiosa e di fede, pur con tutte le sue limitatezze e manchevolezze umane9 soprattutto nei confronti dei non del tutto saldi fondamenti dell'etica laica, come oggi da più parti si avverte.
    Infine, dal punto di vista educativo, ci si può limitare a proporre qualcosa e poi lasciare tutto alla responsabilità personale adolescenziale e giovanile?
    O non si dovrà pensare anche ad una compagnia educativa rispettosa, discreta, ma fedele e coraggiosa anche nell'aiutare nel conflitto delle interpretazioni, nello star vicino nei momenti di passaggio e di sviluppo o di crisi, nel saper consigliare nella ricerca di orientamenti di vita?
    Non ci si dovrà inoltre darsi da fare per rendere possibili propositi generosi e ricerca di spazi di senso, proprio per permettere concretamente quel necessario «tirocinio» di «pratica della libertà» e di «avviamento alla vita adulta»?
    Sono questi alcuni interrogativi che credo, pur nel globale apprezzamento per il testo, sono perlomeno da proporre in sede di riflessione educativa e di pastorale giovanile.


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