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    Tv, giovani, educazione. Un forum di NPG


     

    (1994-03-69)

    La solita rubrica «fatti e opinioni», che raccoglie ormai da anni, con soddisfazione dei lettori, note e commenti sul mondo della cultura e dei giovani, si trasforma, in questo numero in «forum», con l'idea di offrire una specie di dibattito su di un tema che apre spazi alla discussione.
    Questa «prima volta» è dedicata al delicato problema «giovani e tv», sollecitati anche dai recenti fatti di cronaca che sembrerebbero sottolineare il fascino perverso esercitato dalla tv su ancora fragili identità adolescenziali.
    Ma il dibattito si fa molto più ampio con gli interventi che seguono, diventa culturale e indaga sullo stesso modo con cui si dà oggi la conoscenza e con cui si fa esperienza. Quale tipo di esperienza e di comunicazione vengono «vissute» nella mediazione dei media?
    Il forum prende le mosse da un dibattito che ha avuto grande eco sulla stampa: un articolo su Repubblica che è stato poi ripreso da due interventi di Avvenire.
    NPG non si accontenta di riportare gli interventi, ma entra nel cuore del dibattito stesso con la visione pedagogica che le è propria.
    Abbiamo chieso a Mario Pollo di esprimere la sua opinione da punto di vista culturale ed educativo; e a GB Bosco di offrire una specie di vademecum per l'educatore, in modo che anche questo ambito (troppe volte ambito di consumo sfrenato non controllato) non sia sottratto alla competenza e intervento dell'educatore.


    Popper e Wojtyla uniti contro la tv
    Ferdinando Adornato

    C'è stata un'importante novità nel dibattito culturale contemporaneo, eppure essa non è stata pienamente colta dai mezzi di comunicazione. Per la prima volta il guru del liberalismo Sir Karl Raimund Popper e il capo della Chiesa cattolica Karol Wojtyla si trovano a combattere insieme una battaglia di valori. Entrambi infatti, negli ultimi tempi, hanno lanciato un allarme al mondo sul fatto che la tv sta «corrompendo la nostra civiltà».
    La Chiesa (ma non solo lei) è preoccupata dei miti del superfluo e della volgarità dilagante. Popper è preoccupatissimo, invece, della violenza «prét-à-porter», programmata a tutte le ore. La sua denuncia ha per scopo, soprattutto, «la difesa dei bambini». Per proteggere la loro sanità morale e mentale Popper è peraltro arrivato a pronunciare la parola tabù per qualsiasi liberale: «censura». Come un sacerdote che bestemmia.
    Chi ha reagito a questi allarmi paralleli? Quasi nessuno. Le denunce di parte cattolica sono state considerate l'ennesima crociata religiosa contro la società secolare. E quanto alle «tirate» di Popper sono state trattate con sufficienza, come sfoghi di un povero vecchio.
    Colpevole sottovalutazione. E anche un tantino miope. Non siamo infatti di fronte ai soliti vetero-proclami contro la tecnologia. Destra, sinistra, pragmatismo, marcusismo, apocalittici, integrati: niente di tutto questo. Non è in gioco l'accettazione o meno della modernità: ma piuttosto l'«uso» che dobbiamo fare dei suoi strumenti. E se, insieme, Popper e la Chiesa sentono il bisogno di segnalare lo stesso rischio, forse vale la pena di prestar loro attenzione.
    Solo alcuni esponenti, tra i più attenti, della cultura laica lo hanno fatto. Ma, giustamente turbati dalla parola censura, hanno colpito al cuore le tesi del «Maestro». Lo ha fatto per primo Furio Colombo: «Sfido chiunque a dimostrare che croati, serbi e sloveni si massacrano a causa della tv...». Più recentemente anche Angelo Guglielmi, e curiosamente con lo stesso esempio: «Non vorremo mica dire che in Jugoslavia si stanno ammazzando per la televisione!». Come dire: caro Popper, tu confondi la causa con l'effetto. La violenza è nelle cose: bisogna semmai intervenire sulla realtà violenta, non sulla tv che ce la fa vedere. La tv, infatti, non altera la realtà.
    Non c'è dubbio che, a parte possibili casi di aperta manipolazione, la legge esposta da Colombo e Guglielmi sia incontestabile: la tv non altera la realtà. Ma possiamo, soddisfatti di questo, liquidare il problema? Tv, immagini, finzione, manipolazione, realtà: qual è il vero confine? Cos'è la realtà reale e cos'è la realtà percepita in tv?
    Pensiamoci seduti, sul divano di casa, ad assistere, ad esempio, ai recenti scontri di Los Angeles. E proviamo poi, invece, a immaginarci nella realtà, lì nella 64esima di South Central, in mezzo a quell'incendio, a quel saccheggio, vicino a quel coreano che fugge, a due metri da quel poliziotto che spara.

    Tra la guerra e Pippo Baudo

    Se fossimo davvero lì, cosa faremmo? Cercheremmo rifugio in strade più lontane, magari in un bar. Racconteremmo, forse piangeremmo per la ten-
    sione. E poi la sera, a casa, cercheremmo ragioni. Colpa di Bush, della polizia, dei neri, dei coreani, della fine dell'America. Inseguiremmo, nell'abbraccio delle parole scambiate, il conforto di sentirci ancora vivi. Questo faremmo nella realtà di una violenta sera a Los Angeles.
    Seduti sul nostro divano, invece, siamo protagonisti di qualcosa di irreale o di surreale. Perché non succede nella realtà che, scappando dagli scontri, girando l'angolo del Crenshaw Boulevard, ci imbattiamo, un attimo dopo, in Mike Bongiorno che fa un quiz. E non succede che, abbandonando impauriti i luoghi del saccheggio, incontriamo, duecento metri più avanti, Pippo Baudo o la Parietti. E neanche Santoro, Lerner, Costanzo. Non succede nella vita che si passi, senza soluzione di continuità, da un dramma a un balletto.
    È vero: la tv non altera la realtà. Ma è altrettanto vero che la tv, per come sono organizzati oggi i suoi palinsesti, impone una falsificazione ancora più sofisticata e dannosa. La tv altera il principio di realtà. Ci trasporta in un mondo che, senza farcene accorgere, muta la scala dei valori della vita, suggerendo al sottosuolo della nostra coscienza che tutto è interscambiabile, le cose frivole e le cose serie, la finzione e la verità, Perry Mason e Di Pietro.
    Noi ci accorgiamo di questa alterazione del principio di realtà solo nei casi più clamorosi. Ha fatto scandalo il Tgl quando ha interrotto le notizie sull'omicidio di Falcone per dare la linea a Fabrizio Frizzi e alle sue scommesse circensi. In casi come quello questa assurda sovrapposizione di piani si rivela intollerabile. Ma se non vogliamo essere ipocriti, dobbiamo riconoscere che quel black out di dignità, in forme meno appariscenti, avviene dentro di noi ogni giorno, ogni sera.
    La tv ci avvolge in un'impalpabile modificazione del senso del reale. Lentamente muta il palinsesto della nostra vita, abituandoci ad assegnare la stessa rilevanza di «evento» a cose assolutamente incomparabili. E la diretta è solo un alibi, «la catarsi quotidiana di una tragedia il cui senso non ci appartiene più» (non sono parole di Enzensberger ma di Martinazzoli). Il successo di «Blob», a pensarci, sta tutto qui: Ghezzi e Giusti fotografano questo delirio mentale di cui siamo insieme carnefici e vittime.
    Entrato nei soggiorni come un elettrodomestico, il televisore è lentamente diventato lo stregone del villaggio. Un frappé di poteri. La tv è ormai il prolungamento della scuola dell'obbligo. Ma è anche una fedele baby-sitter. È un parlamento alternativo e, insieme, un'assemblea sessantottina permanente. È un mercato e un luna-park, un cinema d'essai e uno a luci rosse, un pulpito e un peep-show. Democrazia delegata e democrazia permanente, Fellini e Alvaro Vitali, il cardinale e la ballerina si inseguono convinvendo in un carosello di sovrapposizioni selvagge. Niente, beninteso, parte dal piccolo schermo: tutto però sembrava lì arrivare come calamitato da un irresistibile buco nero. La tv non è il treno: però è, sicuramente, la sala d'attesa della nostra convivenza.
    Chi pensa che questo non abbia nessun peso sul formarsi delle mentalità collettive, e quindi sulla civiltà prossima ventura, vuol dire che la tv non la vede. Oppure che già la vede troppo.
    Una piccola schizofrenia di massa comincia ad invadere le società televisivamente avanzate: la confusione tra i valori della vita, ridotti a merci interscambiabili. Ed è questa confusione (non la violenza come pensa Popper) che rischia di segnare la scala di valori delle generazioni a venire. Nessun tipo di riforma potrà risolvere interamente questo disagio della civiltà che dipende, in larga misura, anche dall'atteggiamento dei singoli, della famiglia, della scuola. Ma ciò non significa che gli operatori della comunicazione non possano fare niente. E che il più grande media del nostro tempo debba restare ostaggio di guitti provinciali o di manager superficiali.
    Cosa fare allora? Non si tratta di rimpiangere i vecchi tempi, la tv in bianco e nero a due canali. A me personalmente piace il supermarket a colori. Mi diverto a girare tra i banconi. Quello che non si può accettare, però, è di trovare il parmigiano sullo stesso bancone del dash.

    L'uso ossessivo dello zapping

    Ecco, l'esempio del supermarket può aiutarci. In qualche paese ci si sta già pensando: dividiamo intanto il parmigiano dal dash. Costruiamo banconi separati. Reti monografiche: una per l'informazione, una per lo sport, una per i varietà, una per i film, ecc. Si metterebbe ordine nella libreria mentale dello spettatore il quale sceglierebbe, a seconda dei casi, ciò che preferisce. So bene che un uso ossessivo dello zapping farebbe rientrare dalla finestra il problema cacciato dalla porta. Ma almeno si tratterebbe di una libera scelta del singolo. Oggi, invece, la confusione tra
    Pippo Baudo e Oscar Luigi Scalfaro, tra conduttori e statisti, viene subita anche da chi guarda sempre un solo canale. E proietta la sua ombra lunga anche sulle sorti della democrazia.
    È solo una proposta. Forse insufficiente. Essenziale è però affrontare finalmente un problema costantemente rimosso. Popper sbaglia a pretendere censure o, come poi si è corretto, a chiedere l'«impegno morale» degli operatori (non basta). Ma né lui né il papa sbagliano a porre un dubbio planetario relativo al destino della nostra «civilizzazione». Liberalismo sociale e cristianesimo avranno di fronte, nel XXI secolo, la stessa sfida: come conciliare tecnologica e civiltà, consumi e sobrietà mentale, sviluppo e progresso. Come far vivere i propri progetti di elevazione umana dentro il rumore della modernità. Non si può tornare indietro dalla tv: ma, si può, si deve usare la tv per andare avanti. Credo sia ora di discuterne sul serio.
    (Repubblica, 25 febbraio 1993)


    «Noi, ex-stoici, schiavi delle immagini»
    Pietro Prini

    Ha fatto bene Ferdinando Adornato su Repubblica del 25 febbraio a sottolineare l'importanza dell'intesa tra Giovanni Paolo II e sir Karl Popper nella denuncia dei rischi a cui l'uso della tv espone la società del nostro tempo. Siano essi la contaminazione della continua violenza delle immagini sulle psicologie fragili, specialmente dei bambini, come si preoccupa il vecchio Popper, o l'involgarirsi dei gusti e dei valori, biasimato dalla Chiesa, egli ha ragione di ritenere che l'esito più grave di quei rischi è l'alterazione del principio di realtà. «La tv ci avvolge in un'impalpabile modificazione del senso del reale».
    Molti parlano, come Popper, di violenza delle immagini, come se le immagini fossero violente per forza propria e le une fossero più violente delle altre. Pare un modo corretto di dire, quando si ricordino le emozioni sconvolgenti che possono suscitare certi film dell'orrore o certe scene di raccapricciante realismo dove il cronista televisivo ha trovato forse lo sfogo di un suo nascosto sadismo. Se le cose stessero così, il problema del nostro rapporto con le immagini – come accoglierle quan-
    do ci sono offerte dal video, come cercarle o rifiutarle nei gusti incoerenti della nostra sensibilità – sarebbe di soluzione abbastanza ovvia. Si potrebbe dire allo spettatore televisivo, alla maniera di una massima di sapore storico: «Fuggi da ciò che incrina o travolge l'equilibrio dei tuoi sentimenti e la serenità della tua mente!». Si tratterebbe, in fin dei conti, del buon uso del telecomando, insegnandolo ai nostri figli, quando fossero così docili da ascoltarci.
    In realtà, le cose sono più complicate. Le immagini non stanno da una parte e noi dall'altra a subirne la seduzione o l'aggressione oppure a controllarle o infine a sottrarcele. Le immagini stanno dentro la genesi della nostra stessa personalità, per un verso, e per l'altro costituiscono inesorabilmente il «doppio» della realtà alla quale è sempre difficile dissociarlo completamente. Il primo passo decisivo verso la presa di coscienza della nostra personalità avviene in quello che Lacan chiamava lo «stadio dello specchio», quando il bambino, tra i 6 e i 18 primi mesi di vita, ancora in uno stato di incoordinazione motoria, anticipa con l'immaginazione l'apprensione dell'unità del proprio corpo. Si tratta di una «unificazione immaginaria» che avviene attraverso la percezione del proprio corpo riflesso nello specchio, quando il bambino ne coglie intera la figura per la prima volta. Il bambino vede se stesso nello specchio e si riconosce, mettendo alla prova per giuoco questa sua percezione attraverso una serie di gesti che si riflettono identicamente in quella immagine. Identificandosi in quell'«io visibile» che è lì davanti a lui e davanti agli altri che lo circondano, ne gioisce come della scoperta di qualcosa di veramente nuovo, agitandosi divertito negli impicci del suo girello.
    Questa identificazione segnerà, in effetti, il destino della sua personalità: il suo ingresso nell'immaginario, dove il sé corporeo, il suo «corpo proprio», viene captato, come nel mito di Narciso,dalla propria controfigura speculare, che è una sua rappresentazione unitaria e dunque una conquista definitiva della sua conoscenza di sé, ma anche soltanto un'immagine, qualcosa di fittizio, un «io ideale» che offrirà a quelli che lo circondano la possibilità di dargli un nome, di lodarlo o biasimarlo, e a lui stesso la rischiosa capacità di mascherarsi o allenarsi di fronte a sé e agli altri.
    Di qui viene la prima forma del nostro cattivo rapporto con le immagini, nelle quali tendiamo a sostituirci quando ci seducono, come si propongono di ottenere gli sketch pubblicitari, o proiettiamo la nostra aggressività repressa come avviene nelle scene di orrore. Non le immagini come tali, ripeto, sono violente: lo è comunque molto di più la realtà e lo siamo noi quando indugiamo a guardarle nel piacere ambiguo del nostro identificarci insieme con l'aggressore e con la vittima. È un cattivo rapporto che non cesserà o almeno non si attenuerà fino a quando non ritroveremo, attraverso una difficile educazione allo sviluppo maturo della sensibilità, qualcosa di analogo a quei rapporti di comunicazione reale, che sono cominciati nella felice innocenza del «transitivismo» in cui sono vissuti insieme nei mesi prenatali e neonatali la madre e il suo bambino. In un'epoca così perdutamente alienata nel mondo delle immagini come è la nostra, uno dei problemi più universalmente urgenti è l'educazione a quel principio di realtà, che è stato giustamente ricordato da Adornato. Non la retorica dei «buoni sentimenti», ma il recupero del gusto schiettamente realistico del sentire noi stessi nella singolarità irrinunciabile del nostro stare insieme, nella sincerità senza inibizione del nostro accertarci così come siamo davvero.
    Se la società in cui viviamo tende invece a caratterizzarsi sempre più radicalmente come una società di spettatori, è anche palese per la seconda delle ragioni a cui accennavo più sopra.
    Ormai tutti ci stiamo rendendo conto che l'avvento della cultura iconico-orale attraverso i linguaggi audiovisivi presenta i segni di una specie di salto di civiltà, di cui non è facile intravvedere tutte le linee di sviluppo. La straripante presenza del mondo delle immagini sta «reduplicando» il mondo reale della nostra percezione immediata in maniera non molto diversa, benché di senso opposto, da quella reduplicazione che è stata operata dalla scienza moderna tra la «realtà fisica» come è appresa dai nostri sensi e lo spazio pervaso di «campi di forze», assegnabili piuttosto alle categorie delle «influenze» e delle «funzioni» che non a quelle delle «cose».
    L'oggetto scientifico è per la scienza il solo veramente esistente, mentre ciò che è reale per i nostri sensi è una specie di illusione da oltrepassare. La trasformazione tecnica del mondo, con le sue meraviglie e le sue inaudite minacce, è avvenuta a questo prezzo. Ebbene, al vertice dello straordinario progresso di questa trasformazione, il mondo che ci è offerto oggi dalle nostre macchine costruttrici di immagini è altrettanto una reduplicazione del mondo reale, benché, diversamente da quella costruita dalla scienza, appartenga al campo percettivo ed emotivo piuttosto che a quello analitico e matematico. Voleva essere, questo mondo delle immagini, un ritorno verso la conoscenza partecipativa, verso un nuovo tipo di immediatezza tra l'uomo e il mondo naturale e sociale. È avvenuto invece che l'immaginario è entrato nella nostra percezione come il suo «doppio», indissociabile da esso. Così tendiamo a non vedere più nulla come è naturalmente, ma come lo confeziona e lo maschera la sua immagine, alla maniera di un paesaggio dei dépliants delle agenzie turistiche. Diventiamo non gli scopritori avventurosi del reale, ma gli spettatori spesso indifferenti o soltanto curiosi e compiaciuti di ciò che avviene in ogni parte di un mondo che resta, in fin dei conti, aldi fuori di ogni nostra responsabilità. È ciò che accade, esemplarmente, quando un evento tremendamente spaventoso quale è il fungo enorme della deflagrazione atomica, che ci viene presentato sul video ben altrimenti da quello che hanno percepito le vittime di Hiroshima. L'immaginario nel reale ci fa perdere il senso del reale: la misura, il discernimento dell'umano e del disumano. Se l'originale ci obbliga alla partecipazione che impegna, il «doppio» ce ne esonera.
    L'esito alienante della cultura iconica che invade spazi sempre più vasti delle nostre giornate – e in particolare quelli delle nuovissime generazioni – è o può essere quello di trasformare il nostro essere al mondo in un ludico essere-allo-spettacolo, senza criteri di giudizio né scelte di valori. È possibile evitarla, questa alienazione? C'è un rimedio a questo nostro cattivo rapporto con le immagini? Adornato ne propone uno, per incominciare e pur riconoscendone l'insufficienza: la scaffalatura ordinata, una specie di «libreria mentale» dei programmi televisivi, che li raccolga in settori distinti e separati, così da offrire allo spettatore la possibilità immediata di una di quelle scelte di valori, evitando la «confusione» che lo porta davanti ad un carosello di sovrapposizioni selvagge. Ma, a mio avviso, bisogna infine arrivare ad un'energica presa di coscienza del compito di fondo che oggi più che mai è affidato alla scuola. Nessun'altra agenzia sociale può come la scuola formare nei giovani il senso critico, vale a dire il discernimento del reale e dunque l'impegno etico, in mezzo a questa società delle seduzioni, delle aggressioni e degli inganni. Preparare una scuola di questo tipo è la vera sfida della Chiesa e del liberalismo sociale, di papa Wojtyla e di sir Popper, alla società degli spettatori nell'aprirsi del terzo millennio.
    (Avvenire, 28 febbraio 1993)


    Addio società trasparente mi tengo il tg
    Giorgio Straniero

    Un Vattimo pensoso, preoccupato, persino un po' moralista e disposto all'autocritica quello che accetta di intervenire sulla questione degli effetti perversi che la tv può avere nell'attuale società. Si sente chiamato personalmente in causa non tanto dalle posizioni espresse da Popper nei confronti dei rischi degli spettacoli violenti, o da quelle di Papa Wojtyla sulla caduta di valori di cui la regina dei media si rende colpevole.
    Quello che particolarmente lo disturba è il concetto espresso da Adornato riguardo alla tv che «altera il principio di realtà», che trasporta in una dimensione dove «tutto è interscambiabile, le cose frivole e le cose serie, la finzione e la verità». Gianni Vattimo, docente di filosofia teoretica all'università di Torino, si è formato alla scuola di Luigi Pareyson, da poco scomparso, il più importante ermeneuta di ispirazione cristiana. È studioso di Heidegger e di Nietzsche e caposcuola del movimento cosiddetto del «pensiero debole», che si oppone all'idea che la ragione possa giungere alla costruzione di un sistema di pensiero compiuto e coerente, composto di un sapere metafisico assoluto e incontrovertibile.
    Piuttosto che verso un orientamento esistenzialistico-spiritualistico, secondo la via tracciata dal maestro, si è orientato nelle sue opere verso l'accentuazione degli esiti negativi della ricerca teoretica. Ne risulta una «perdita del centro che lascia di fatto l'uomo privo di coordinate oggettive. Nel volume dell'89 La società trasparente, ha esaltato questa condizione, dichiarandola portatrice di libertà e di tolleranza. «La tesi che è contenuta nel libro e che giudico tuttora valida – dice – è che nella società dei media, al posto di un ideale emancipato modellato sull'autocoscienza tutta spiegata, sulla perfetta consapevolezza di chi sa come stanno le cose, si fa strada un ideale di emancipazione che ha alla propria base l'oscillazione, la pluralità e in definitiva l'erosione dello stesso 'principio di realtà'. Ecco perché non posso essere d'accordo con l'affermazione che il danno prodotto alla tv possa essere identificato come perdita di questo presunto principio. Del principio di realtà non mi importa assolutamente niente. Appellarsi ad esso mi sembra pericolosamente vacuo. È un atteggiamento teoreticamente infondato e socialmente pericoloso, perché implica immediatamente l'istituzione di un tribunale del principio di realtà. Si, scriva pure che sul principio di realtà io sono furibondo».
    Sempre in quel volume, lei prendeva le distanze da Adorno, Marcuse, Orwell. Dall'idea di un mondo omologato, a una dimensione, soffocante, manipolatore delle coscienze attraverso il bombardamento dei messaggi dei media prodotti dalla nuova tecnologia. È ancora di quell'avviso?
    «Accennavo al fatto che Adorno, sulla base della sua esperienza di vita negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, in opere come Dialettica dell'illuminismo, scritta con Horkheimer, e Minima moralia, prevedeva che la radio, e poi la tv, avessero l'effetto di produrre una generale omologazione della società, favorendo per una propria tendenza demoniaca interna la formazione di governi totalitari. Analogo era il discorso di Orwell in 1984, dove prefigurava il «Grande Fratello», in grado di esercitare un controllo sulle persone, attraverso slogan di propaganda commerciale politica, visioni del mondo stereotipate.
    A tutto questo opponevo la considerazione che la moltiplicazione vertiginosa della comunicazione da parte dei media determina il passaggio della nostra società alla post-modernità, intesa come emancipazione dall'idea di una razionalità centrale della storia. Ora posso dire che purtroppo la mia tesi della «società trasparente» si rivela utopistica nell'assunto che in una società complessa l'intensificazione delle possibilità di informazione sia garanzia di libertà».
    Vuol dire che la «Torre di Babele» non è di per se stessa emancipante?
    «Ma neanche per se stessa malvagia. Bisogna sapere che la nostra cultura è una Babele e in questo muoversi. Non ha senso lamentarsi contro la «Torre di Babele». La tesi da me espressa regge in una situazione di equilibrio tra Stato e televisioni private, in cui lo Stato eserciti una forma di controllo e quando è possibile, come in Italia, con proprie emittenti si impieghi in una forma di concorrenza che non si preoccupi tanto dell'audience ma della qualità, mandando in onda programmi migliori».
    Escludendo, come diceva prima, un tribunale che definisca il principio di realtà a cui attenersi, in che modo, concretamente, dovrebbe essere esercitata questa forma di controllo?
    «Io penso che per prima cosa si debba lasciare agli adulti capaci di decidere la libertà di trovarsi le merci comunicative che vogliono. Bisogna semmai inventare dei metodi, utilizzando i mezzi tecnici che già ci sono, per proteggere quelli che non sono ancora in grado di scegliere. Si possono per esempio obbligare coloro che vogliono produrre spettacoli a luci rosse, film troppo violenti, a metterli in video via cavo con abbonamenti speciali. Non sembra che potrebbe andare? Torno a ripetere che il principio di realtà non va assolutamente bene. Non serve la censura. Figuriamoci un po'. Si finirebbe col vietare i telegiornali giudicati settari, gli interventi anticonformistici e così via. Meglio creare dei canali specializzati che soddisfino vampiri, masochisti, appassionati di spettacoli violenti. Il controllo può essere esercitato con metodi democratici.
    Anche la Babele ha bisogno che si rispettino i principi generali che abbiamo accettato di applicare nella nostra esistenza associata. In questo senso si può parlare di un criterio di moralità collettiva che viene continuamente modificato nel sistema storico sociale via via che si inventano i meccanismi stessi della convivenza. Io sono d'accordo con un discorso morale, che deve poi essere tradotto giuridicamente in leggi che non violino la libertà, che garantiscano la possibilità di fare quello che si vuole fino a che non si fa violenza agli altri».
    Va bene. Proteggere i bambini. Rispettare la libertà degli altri. La violenza però, tanto per ritornare ad Adorno, non si può manifestare anche in forme più subdole di quelle plateali dello spettacolo dichiaratamente osceno o violento? L'elogio del consumismo fatto nella «Società trasparente» come si pone oggi?
    «Posso dire che il consumismo non mi dà fastidio come tale neanche adesso. Certo mi dà fastidio la pubblicità sfrenata. Io non sono proibizionista. Non voglio proibire a tutti di fumare. Voglio però che la gente non si trovi costretta a fumare dalla pubblicità, oltre che dal fatto che le fumino addosso. Voglio che si dica che il fumo fa male. Sono per la «Torre di Babele» ma ritengo che sia giusto e democratico che si limitino certi aspetti negativi e non desiderabili della «Torre di Babele».
    (Avvenire 3 marzo 1993)


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