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    La morte dell'uomo e la morte di Cristo



    Carlo Molari

    (NPG 1995-02-61)


    Nelle svolte storiche, nei periodi di crisi profonda i grandi problemi si pongono in modo inedito. Nell'attuale sconvolgimento di quadri culturali e religiosi, il problema della morte si impone all'attenzione di tutti in maniera continua. A riproporre il problema non sono solo le immagini di violenza e di morti che sempre più spesso i mezzi di comunicazione diffondono nel mondo, ma anche tutte le esperienze personali e sociali di fallimento e di dolore, di tradimento e di sconfitta. L'impotenza delle organizzazioni internazionali dinanzi alla violenza che si scatena tra nazioni e popoli diversi, l'incapacità di alimentare la speranza, che appare sempre più ridicola a fronte della malizia e dei sotterfugi dei malvagi, sembrano conferire alla morte il carattere di destino assoluto della storia, compagna crudele del nostro cammino. La morte sembra rendere vano ogni ideale e sterile ogni amore dell'uomo.

    La morte destino dell'uomo

    Ma in realtà queste esperienze frequenti e universali mettono in luce una componente essenziale e una insopprimibile condizione della nostra esistenza. Noi siamo accompagnati sempre dalla morte perché è il traguardo del nostro cammino. La morte è il nostro destino. Essa non è un incidente nel nostro percorso storico, ma ragione ultima di ogni impresa vitale. Noi siamo in questa fase di esistenza per diventare capaci di uscirne. Per questo motivo la morte è criterio supremo della vita e solo l'esperienza di un amore incondizionato rende sopportabile la nostra condizione di condannati. Solo quando nell'amore si percepisce in concreto la forza della vita, si è in grado di accogliere senza dubbi le sue promesse e di abbandonarsi senza resistenze ai suoi ritmi. Non ci è imposto di attendere il futuro per capire il senso di tutta l'esistenza, perché nella stessa accoglienza della nostra condizione di morte si svela il suo valore.
    Come avviene per il feto nel seno materno. Egli vi resta finché diventa capace di uscirne in modo vitale. La sua nascita è la fine di uno stadio vitale. Il che significa che tutto ciò che capita al feto è valutabile secondo il rapporto che ha con la fine che lo attende. Ciò che favorisce la sua uscita dal seno materno è bene per lui. Ciò che invece la impedisce è un male. Analogamente noi siamo in una situazione destinata a finire. Ciò che nella vita ci consente di finire bene è salutare, ciò che invece ci impedisce di morire bene è un male per noi. Ma noi non sappiamo cosa possa significare morire bene o male come invece riusciamo a capire ora che significhi per il feto essere o non essere pronto a nascere. Conosciamo solo gli atteggiamenti necessari per vivere la morte secondo le sue esigenze. Prepararsi a vivere la morte implica quindi accogliere queste esigenze per essere in grado di assumere gli atteggiamenti necessari. La morte allora diventa il criterio supremo di vita: si comincia a capire la vita solo quando si impara ad utilizzare i criteri indicati dalla morte. Importante perciò è sapere che cosa la morte chiederà per essere vissuta.
    La morte chiederà a tutti almeno cinque cose:
    - di avere consolidato la propria identità al punto da sapere abitare il proprio nome senza dover ricorrere a riferimenti esteriori;
    - di avere imparato ad amare in modo autentico, così da interiorizzare gli altri senza possederli;
    - e in modo oblativo da sapersi donare interamente senza rimpianti;
    - di avere acquisito un distacco tale dalle cose da saper partire senza portare nulla con sé;
    - e infine di avere imparato a fidarsi così della vita da saperla perdere per ritrovarla.
    Per il cristiano queste richieste sono apparse con chiarezza nell'esperienza di Gesù e nel suo insegnamento. La croce per lui è diventato il segno concreto di come la morte possa essere criterio di fedeltà alla vita.

    Chi sei?

    L'identità della persona umana non sta all'inizio del suo cammino, ma alla fine. Alla nascita l'uomo si identifica con il tutto ed è un complesso di possibilità aperte ad innumerevoli sbocchi. L'identificazione della persona avviene progressivamente attraverso le scelte, che rendono attuali solo alcune possibilità, annullandone altre. Ogni decisione, soprattutto se importante, qualifica la persona in un particolare modo annullando molte altre possibilità ugualmente reali. L'identificazione personale avviene, perciò, attraverso piccole morti quotidiane, che però consentono la nascita definitiva dell'uomo interiore. Per questo ogni scelta comporta l'esperienza di una perdita e quindi anticipa, in certo modo, l'angoscia della morte. Finché l'identità personale non è consolidata, ci si designa attraverso realtà più o meno esteriori: il luogo e la data di nascita, i genitori, la residenza, i titoli di studio, la professione, ecc. E ci si identifica con le cose possedute, il lavoro compiuto, le relazioni vissute. La crescita personale esige l'abbandono progressivo di questi riferimenti, per acquisire la forma ultima, fissata dalla interiorità. La morte ci chiederà appunto di aver raggiunta una presenza a noi stessi che non esiga altri riferimenti per sentirci vivi e per abitare in modo definitivo il proprio nome.
    In prospettiva cristiana l'identità richiesta dalla morte è quella dei figli di Dio, quella cui corrisponde, secondo Gesù, un nome scritto nei cieli (cf Lc 10,20). Abitare il proprio nome è entrare nella forma definitiva di vita propria dell'uomo interiore che cresce lungo i cammini del tempo.

    Imparare a partire sospinti dall'amore

    Ogni tappa dell'esistenza umana implica partenze e abbandoni sempre più impegnativi. Le partenze iniziano con la nascita, che è, a suo modo, l'uscita da una forma di vita e l'ingresso in un'altra. Crescendo l'uomo deve progressivamente lasciare forme immature di esistenza per entrare in modalità diverse: lascia la casa per andare a scuola, lascia i genitori per incontrare altri, lascia il gioco per iniziare il lavoro, lascia la famiglia di origine per costruirne una nuova, ecc. Le diverse partenze diventano possibili in virtù dell'amore da cui l'uomo è spinto a crescere e quindi in virtù della interiorizzazione dei doni vitali che altri vanno facendo. Inizialmente qualcuno ci conduce per mano nelle diverse tappe della vita, poi le strutture personali si consolidano e rendono possibili solitudini sempre più radicali e quindi partenze per nuove avventure vitali sempre più libere e impegnative. La morte rappresenta l'ultima partenza nell'attuale forma di esistenza ed esige la capacità di solitudine totale. Essa è resa possibile in virtù delle progressive interiorizzazioni di persone che, amandoci, stabiliscono in modo definitivo la loro presenza dentro di noi. La morte perciò, quando la vita è stata nutrita dall'amore, è una solitudine abitata da molte presenze. Esse rendono possibile la partenza in piena solitudine senza la necessità di condurre nessuno per mano lungo i sentieri del futuro ignoto. Anche per questo aspetto solo l'esperienza di un amore incondizionato rende possibile la serena accoglienza della morte come solitudine abitata da presenze amorose e come partenza verso ignoti traguardi.
    Nella prospettiva di fede, l'esperienza dell'incontro con Dio rende ragione e fonda il senso di ogni amore incondizionato della storia, per il cammino verso l'ignoto. Non possiamo sapere che cosa ci attende, ma ci è chiesto di partire ugualmente, certi che dove perveniamo un amore compie le sue promesse.

    Distacco dalle cose

    Mentre le persone debbono essere interiorizzate per saper partire, le cose debbono essere consegnate perché servano ad altri. Ogni attacco alle cose diventa un ostacolo per morire. La vita perciò richiede che si impari a fare a meno di tutto, per concentrare tutta l'attenzione all'essenziale, che consiste nella interiorità. La morte chiede di avere raggiunto un tale distacco dalle cose da essere capaci di lasciare tutto senza portare nulla con noi. Se non raggiunge questa disposizione oblativa, l'uomo subisce la morte come il furto, che gli sottrae le cose che egli ritiene sue. In realtà nulla appartiene all'uomo se non il suo nome, quello che fissa la sua identità definitiva: il nome scritto nei cieli. Ma questa convinzione non si acquisisce se non attraverso l'esercizio di amore gratuito e disinteressato. La morte chiede ad ogni uomo di avere imparato l'insufficienza delle cose e di saper consegnare, quindi, tutto ciò che la vita ci ha consegnato.

    Imparare ad amare in modo oblativo

    La morte chiede a tutti di consegnarsi totalmente perché la vita fluisca. Essa perciò chiede ad ogni uomo di avere imparato ad amare al punto da non trattenere nulla per sé, neppure il proprio corpo e da sapere, quindi, consegnarsi interamente. L'esistenza perciò è palestra per imparare ad amare in modo così oblativo da diventare capaci, nella morte, di offrire senza riserve ciò che la vita aveva consegnato. La vita chiede a tutti questa disposizione come prima condizione perché essa possa continuare a diffondersi sulla terra. Se ogni persona, ogni gruppo sociale, ogni popolo non consegnasse nella morte quello che ha appreso o accumulato, la vita finirebbe ben presto. L'amore oblativo, perciò, non è semplice imposizione morale, ma esigenza fondamentale della vita stessa. L'amore è la reazione all'attrattiva esercitata sull'uomo dal Bene, dal Vero, dal Giusto e dal Bello, è la forza vitale che spinge a stabilire rapporti e a sviluppare perciò la capacità di consegnare vita secondo le esigenze della persona in crescita.
    Il dono della vita, infatti, non perviene ad alcuno se non attraverso l'azione amorosa di altre persone. Tutti, per crescere, abbiamo bisogno di ambienti vitali, costituiti dalle strutture comunitarie, da intrecci di rapporti. Gli ambienti vitali non sono stabiliti dalla semplice presenza delle persone, ma dalle dinamiche di amore che li uniscono. L'amore nell'uomo, quindi, non è semplice esecuzione di un dovere, o puro risultato di una necessità istintiva, ma è urgenza vitale che sollecita la libertà, per la crescita personale e per il cammino dell'umanità nella storia. Ma non ogni forma di amore è sufficiente a far crescere persone: più la persona è vuota, più esige un amore oblativo capace cioè di offerta senza aspettative, ricatti o condizioni.
    Tutti nascono possessivi e incapaci di oblatività, ma a tutti la vita chiede di diventare capaci di offrirla senza riserve. Quando vengono vissuti con dinamiche oblative, i rapporti costituiscono un notevole stimolo per la crescita delle persone. Quando invece i rapporti sono stabiliti solo per interesse, per convenienza, per appagamento dei propri istinti, per autogratificazione, non costituiscono ambiti di crescita perché sviluppano dinamiche di possesso. Se tutti amassero in modo possessivo, la vita si fermerebbe perché nessuno la offrirebbe ad altri.
    La vita stessa, perciò, per poter continuare nel tempo esige l'oblatività. La vita cioè, per non esaurirsi e per potersi diffondere, sollecita atteggiamenti oblativi, chiede cioè che almeno alcuni siano capaci di offerte libere e non interessate. Nella famiglia, ad esempio, i figli iniziano a vivere i rapporti con dinamiche necessariamente possessive dato che, venendo al mondo, non possono fare altro che esigere offerte vitali, senza essere in grado per il momento di ricambiarle. sufficiente però che i genitori abbiano amore oblativo perché i rapporti fra loro e i figli siano fecondi e creatori, costituiscano, cioè, quel clima che consente la crescita di persone autentiche. Quando ciò si verifica, i figli diventano capaci di amare, come riflesso dell'amore che li investe e, se non trovano altri ostacoli, crescono fino a raggiungere forme di oblatività personale. Questa seconda dimensione dell'amore comincia a svilupparsi quando si diventa strumenti della vita per gli altri, quando si è accoglienti in modo tale da consentire che la vita diventi dono.
    Ogni egoismo provoca deterioramento del clima vitale, distruzione delle energie necessarie alla crescita di tutti.
    La morte porta il segno di questa ambiguità dell'amore umano. Ogni morte ingiusta è il segno di un amore che non è giunto ancora alle forme oblative. Gli emarginati, gli oppressi, i poveri, i morti per violenza, sono l'espressione del peccato delle comunità umane: dell'egoismo, della pigrizia, della indifferenza.
    Finché i poveri non vengono sollevati dalla loro condizione di emarginazione e di oppressione, le comunità che li hanno provocati soffriranno del male di coloro che esercitano violenza ed operano discriminazione.

    Fidarsi della Vita

    La morte chiederà di avere appreso a fidarsi così della vita da saperla consegnare interamente per ritrovarla in modo nuovo e insospettato. Gesù diceva che chi vuole conservare la vita per sé la perde per sempre; solamente chi impara ad offrirla è in grado di ritrovarla e per sempre (cf Mt 16,21; Lc 17,33; Gv 12,25). Ma abbandonare la vita è possibile solo quando si è in grado di abbandonarsi alla Vita, di fidarsi cioè così dell'Amore, da rimettere la propria esistenza nelle sue mani (cf Lc 23,46).
    Quella fede per cui il piccolo, appena nato, si abbandona senza riserve fra le braccia di chi lo ama, si sviluppa progressivamente nell'esistenza fino a scoprire l'Amore fontale e il fondamento di ogni speranza.
    Quando si è appreso questo atteggiamento, si scopre la gioia di essere Figli, gioia che nessuno è più in grado di distruggere.
    La morte allora acquista un significato nuovo: è l'attesa gioiosa del segreto che la vita non ha potuto ancora rivelare, ma che ha lasciato intravedere nei riflessi gioiosi delle anticipazioni della storia.

    La morte di Gesù

    Nella sua esperienza e nel suo insegnamento Gesù è stato il segno concreto del valore della morte come criterio di vita. La «sua ora», come in Giovanni Gesù chiama la sua morte, ha orientato tutti i suoi passi ed è diventata la ragione delle sue scelte. Per questo Gesù è stato l'espressione concreta delle esigenze della vita nella fedeltà della morte. La croce, luogo della sua fedeltà, è diventato il simbolo di chi vive fino alla pienezza.
    Nella morte egli ha raggiunto la sua identità di Figlio ed è stato costituito Messia e Signore per noi. Sulla croce Egli «è stato esaltato e gli è stato dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9).
    Nella croce egli ha mostrato la forza dell'insegnamento che egli aveva dato sulla povertà. Egli chiedeva di distaccarsi completamente dalle cose: «Chi non rinunzia ai suoi beni non può essere mio discepolo» (Lc l4,33). Egli infatti sapeva che: «Non si può servire due padroni» (Mt 5,34; 19,212126); perché «dove è il... tesoro, là sarà anche il... cuore» (Lc 12,34); o si è servi di Dio e si diventa vivi o si è schiavi delle cose e si perde la vita. Quando ci è chiesta la vita, non possiamo offrire le cose. La vita può essere offerta solo da coloro che non l'hanno affidata agli idoli.
    Nella croce Gesù ha mostrato la forza dell'amore di Dio che diventa offerta ai fratelli. Gesù nel suo insegnamento ha unito il comandamento dell'amore di Dio, che è accogliere la sua azione, al comandamento dell'amore per gli altri, che è donare la sua azione. Non sono due comandamenti diversi, ma due momenti dello stesso processo vitale. In questo senso il riferimento a Gesù è per noi straordinariamente efficace, perché attraverso Gesù abbiamo scoperto a che cosa conduce la fedeltà al progetto di Dio.
    Gesù è stato costituito Messia e .Signore, per la fedeltà con cui ha amato anche quando intorno l'odio e la violenza lo uccidevano. Egli ci ha rivelato la legge fondamentale dell'amore che salva: per rendersi salvatore Dio deve farsi carne. Il dono di Dio, infatti, non può emergere nella storia se non attraverso l'azione amorosa degli uomini. Dio non può operare salvezza che attraverso gesti storici di uomini amanti. L'uomo infatti non è in grado di accogliere l'azione salvifica di Dio se non gli perviene attraverso strumenti umani. Dio perciò non ha la possibilità di mostrare il suo amore agli uomini se non esistono persone che lo rendano visibile. Per questo la rivelazione di Dio non è manifestazione di idee, ma serie di eventi che interpellano l'uomo e lo sollecitano a decisioni di vita.
    Gli atteggiamenti indicati da Gesù per essere suoi discepoli sono necessari a tutti per divenire uomini. Essi, infatti, corrispondono alle esigenze che la morte porrà ad ogni vivente per essere vissuta. Infatti la fiducia totale nella Vita così da saperla perdere, l'ascolto fedele della Parola in modo da compiere sempre il volere di Dio, il distacco completo dalle cose così da saperle consegnare tutte, l'amore oblativo che consente alla vita di offrirsi senza ricatti, sono attitudini necessarie per sviluppare gli atteggiamenti profondi della persona o per far crescere l'uomo interiore fino alla statura di figlio di Dio. Sono le condizioni imprescindibili per raggiungere la vita eterna, cioè per vivere intensamente ogni giorno così da pervenire ad acquisire il nome che è riservato nei cieli (cf Lc 10,10).
    Questi atteggiamenti sono necessari a tutti per vivere intensamente. Le modalità per raggiungere questo stato sono varie e le pratiche per svilupparne le dinamiche sono diverse, ma la sostanza è universale. La vita esige da tutti l'acquisizione di questi atteggiamenti perché essi sono le condizioni assolutamente necessarie per saper morire e quindi per vivere intensamente. Ma per acquisirli ciascuno deve modificare la condizione iniziale della sua esistenza. Noi infatti nasciamo centrati sulle persone, mossi dagli istinti, guidati dal bisogno al possesso delle cose. Per giungere a maturità è necessario perciò cambiare stile di vita e operare continue conversioni. Questa è la rinuncia a se stessi e alle cose che Gesù chiedeva ai suoi quando diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso» (Lc 9,23); «Chi non odia perfino la propria vita non può essere mio discepolo» (Lc 14,26); «Chi vuole conservare la propria vita la perderà» (Lc 9,23).
    Questo in sostanza significa «portare la croce» che è una condizione per seguire Gesù: «Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,17; Mt 10,38). Rinunciare a se stessi significa non seguire i propri istinti che riflettono il passato immaturo, e lasciarsi guidare dalle esigenze della vita per crescere come figli di Dio. Queste indicazioni sono per tutti, perché riguardano gli atteggiamenti necessari per raggiungere la maturità o sviluppare la dimensione interiore di ogni persona, quella che Gesù chiamava anche la vita eterna.
    Quando l'uomo prende coscienza di essere creatura e di essere sempre sotto la pressione dell'azione divina, egli avverte che il suo amore è sollecitato da un Bene sommo, che la sua ricerca è stimolata da una Verità inesauribile, che la sua esigenza di equità è suscitata da una Giustizia rigorosa, che la sua esaltazione estetica è alimentata da una Bellezza senza canoni, e che il suo bisogno di gioia è risonanza di una Vita che si offre.
    Conseguente a questa scoperta è l'abbandono fiducioso, l'attesa del dono quotidiano, l'accoglienza e l'epifania dell'amore. Sono appunto questi atteggiamenti interiori che consentono all'uomo di consegnarsi alla morte in attesa del compimento delle promesse che la Vita ha formulato lungo il cammino. Egli non sa che cosa l'attende, ma è ormai certo dell'amore di chi lo chiama.


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