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    Un percorso per il «perdono storico»



    Paul Ricoeur

    (NPG 1996-09-32)


    Parlare di guarigione, vuol dire parlare di malattia. Ma si può parlare di malattia senza essere né medico, né psichiatra, né psicoanalista? Io penso di sì. Le nozioni di trauma o di traumatismo, di ferita e di vulnerabilità appartengono alla coscienza comune e alla conversazione quotidiana. Ed è proprio a questo sostrato tenebroso che il perdono propone la guarigione. Ma come? A me piacerebbe collocare il perdono all'inizio di un lavoro che cominci nella regione della memoria e prosegua in quella dell'oblio.
    Ed è dunque dalle «malattie» della memoria che vorrei cominciare. Mi ha spinto a partire dal cuore della memoria un fenomeno inquietante che si può osservare a livello di memoria comune, di memoria condivisa (se si vuole evitare la nozione, effettivamente discutibile, di «memoria collettiva»).
    Questo fenomeno è caratteristico in particolare del periodo del dopo guerra fredda, quando tanti popoli sono stati sottoposti alla difficile prova dell'integrazione di ricordi traumatici riemergenti dal passato precedente l'epoca totalitaria. Non si può forse dire che certi popoli soffrano di un eccesso di memoria, come fossero ossessionati dal ricordo delle umiliazioni subite in un tempo lontano e insieme da quello delle glorie passate? Ma non si può anche dire, al contrario, che altri popoli soffrano di una carenza di memoria come fuggissero davanti all'ossessione del proprio passato. Ma come si può parlare di troppa memoria, qui, e di troppo poca memoria, là? Non esisterebbe allora un solo tipo di memoria?
    Prima di affrontare questa questione permettetemi di collocarla nel quadro di una più ampia dialettica che abbracci il passato, il presente e il futuro, sia dei singoli che delle collettività. Il problema è infatti di sapere se non sia l'intera relazione passato-presente-futuro a soffrire di ferite e traumatismi e a chiedere di essere guarita. È una domanda tanto più legittima in quanto i tre termini della sequenza: memoria-oblio-perdono sembrano riferirsi soltanto al passato, come fossero destinati alla sola retrospezione. Per connotare la più ampia relazione tra passato, presente e futuro in cui si inserisce la nostra sequenza, adotto il vocabolario del filosofo tedesco R. Koselleck che contrappone, sul piano della nostra coscienza storica globale, da un lato ciò che chiama «campo d'esperienza» e dall'altro «orizzonte d'attesa». Per campo d'esperienza bisogna intendere le eredità, le tracce sedimentate del passato che costituiscono il terreno su cui si appoggiano desideri, timori, previsioni, progetti, anticipazioni che si delineano sullo sfondo dell'orizzonte d'attesa. Di Koselleck prendo in considerazione i due assiomi seguenti: innanzitutto non c'è campo d'esperienza che non sia polarmente opposto a un orizzonte d'attesa, il quale in cambio resta irriducibile al primo. Inoltre il presente attuale svolge un ruolo di scambio tra campo d'esperienza e orizzonte d'attesa, il che lo distingue dal singolo istante che è solo un taglio virtuale su una linea indefinita.
    Detto questo, possiamo concentrarci sull'enigma posto dall'eccesso o dalla mancanza di memoria. Ci siamo chiesti: si tratta sempre della stessa memoria? Mi propongo di affrontare il problema con l'aiuto di un bellissimo testo, pubblicato da Freud nel 1914, e intitolato Ricordare, ripetere, rielaborare (Durcharbeiten). In questo libro Freud indica nella coazione a ripetere il principale ostacolo al progresso della cura psicoanalitica e prima ancora al lavoro di interpretazione. È da sottolineare ciò che, in questa occasione, dice della coazione: «il paziente» nota Freud «ripete invece di ricordare». Dunque qualcosa ha preso il posto - invece di... - del ricordo atteso. Così la stessa resistenza al ricordo lo fa apparire come un vero lavoro, come suggerisce lo stesso termine di rielaborazione (che gli inglesi traducono working through).
    Ebbene, è proprio su questa nozione di elaborazione del ricordo, opposta alla coalizione a ripetere, che propongo di soffermarci. Cominciando dalla coazione a ripetere, vorrei osservare che questa nozione chiarisce il nostro paradosso iniziale. I popoli, le culture, le comunità di cui si può dire che soffrano di un eccesso di memoria indulgono proprio a questo tipo di ossessione del passato. Ma è poi la stessa ossessione che spinge altri a fuggire il proprio passato, per timore di perdersi nell'angoscia della coazione. Da cui la domanda: che cosa, in questa circostanza storica, potrebbe corrispondere a ciò che Freud chiama elaborazione del ricordo? Non esito a rispondere: un uso critico della memoria.

    Immedesimarsi nel punto di vista dell'altro

    Come? Bisogna osservare che è proprio nel racconto che la memoria si trasferisce nel linguaggio. Per racconto, intendo qui tutta l'arte di raccontare che trova negli scambi della vita quotidiana, nella storia degli storici e nelle finzioni narrative le strutture linguistiche appropriate.
    È dunque nel raccontare che si esercita innanzitutto l'elaborazione del ricordo. E l'uso critico, richiamato un momento fa, mi sembra consistere nella preoccupazione di raccontare diversamente le storie del passato, di raccontarle anche dal punto di vista dell'altro; l'altro, mio amico o mio avversario. Questo rimaneggiamento del passato, consistente nel narrarlo in altro modo e dal punto di vista dell'altro, assume un'importanza decisiva, quando si tratta degli avvenimenti che sono alla base della storia e della memoria comuni. Proprio a questo livello la coazione a ripetere offre la più grande resistenza; ed è proprio a questo livello che l'elaborazione del ricordo è più difficile.
    Non vorrei passare dal problema della memoria a quello dell'oblio senza aver collocato le osservazioni precedenti nel quadro della più ampia dialettica del campo d'esperienza e dell'orizzonte d'attesa. Infatti il rimaneggiamento di cui si è appena parlato non potrebbe interessare la memoria senza sconvolgere anche il progetto. Per capire questo duplice effetto di ciò che Freud ha chiamato rielaborazione, bisogna rimettere in discussione un pregiudizio tenace, cioè la radicata convinzione che solo il futuro sia indeterminato e aperto mentre il passato sarebbe determinato e chiuso.
    Certo, i fatti passati sono incancellabili; in compenso, il senso di ciò che è capitato, sia come l'abbiamo fatto, sia che l'abbiamo subito, non è fissato una volta per tutte. Gli avvenimenti del passato restano sempre aperti a nuove interpretazioni e inoltre si produce un contraccolpo dai nostri progetti sui nostri ricordi con un interessante effetto «a posteriori».
    Perciò quello che può essere cambiato del passato è la sua carica morale, il fardello del debito con cui pesa sul progetto e insieme sul presente. È così che l'elaborazione del ricordo ci mette sulla via del perdono nella misura in cui quest'ultimo apre la prospettiva di una liberazione dal debito, per conversione del senso stesso del passato. In effetti, ciò che vale per la memoria personale vale anche per la memoria condivisa e, aggiungerei, per la storia scritta dagli storici.
    Mi piace ricordare, a questo proposito, la battaglia condotta da Raymond Aron nella sua Introduzione alla filosofia della storia contro quello che chiama «illusione retrospettiva di fatalità», a cui oppone il dovere per lo storico di ricondursi al momento dell'azione, per farsi contemporaneo dei suoi autori; è allora che si spalanca davanti a lui il futuro ancora aperto degli uomini del passato. E a noi, lettori di storia, il passato appare popolato di progetti di gran parte non realizzati, il che fa della storia il gran cimitero delle promesse non mantenute del passato. La loro resurrezione, sotto forma di utopia, non è già una forma di perdono, che trae la sua origine da questa resurrezione del presente attuale degli attori della storia passata? Tutto ciò fa parte di quello che si è chiamato, con Freud, elaborazione del ricordo.

    Spezzare il debito con il ricordo

    Possiamo ora passare dal campo del ricordo a quello dell'oblio. In un certo senso, non cambiamo campo. È banale dire che non c'è memoria senza oblio. Ogni memoria è selettiva. A questo proposito si potrebbe ricordare la grande messa in guardia di Nietzsche, nella seconda Considerazione intempestiva, contro una cultura storica schiacciante. Non parla allora di «malattia storica»? Ma l'oblio pone anche problemi specifici, che non si riducono alla funzione selettiva della memoria. Si è vista la coazione a ripetere sostituirsi, secondo Freud, al ricordo, l'acting out fare irruzione «al posto» del ricordo. È su questa coazione a ripetere che si potrebbe innestare l'oblio di fuga, la strategia dell'evitare, l'azione in malafede, che fanno dell'oblio passivo-attivo un'attività perversa. Non ci rimproveriamo forse, noi che non siamo stati dei «giusti» nel senso del film di Marek Halter, di aver cercato con ostinazione di non sapere, di non informarci, di non indagare sul male commesso? E l'Europa occidentale non ha concesso troppo alla testarda volontà di non sapere?
    Agli antipodi di questo oblio di fuga bisognerebbe allora collocare l'oblio attivo, liberatore, che si porrebbe come la contropartita e il completamento dell'elaborazione del ricordo. Vorrei qui accostare la nozione freudiana di «elaborazione del ricordo» a un'altra nozione meglio conosciuta dello stesso autore, quella di «elaborazione del lutto», così meravigliosamente sviluppata nel saggio Lutto e melanconia. L'elaborazione del lutto, ci dice Freud, consiste nel distaccarsi per gradi dall'oggetto d'amore - che è anche oggetto di odio -, fino al punto da poterlo interiorizzare di nuovo, in un movimento di riconciliazione simile a quello operato in noi dall'elaborazione del ricordo.
    È al punto d'incontro tra elaborazione del ricordo ed elaborazione del lutto che, per finire, vorrei collocare il perdono. Parlerò innanzitutto della sua doppia parentela con l'uno e l'altro. Da una parte, il perdono è il contrario dell'oblio di fuga; si può perdonare solo ciò che non si è dimenticato; ciò che deve essere spezzato è il debito, non il ricordo, come rammenta Oliver Abel nel magnifico saggio che porta questo titolo. Ma, d'altra parte, il perdono accompagna l'oblio attivo, quello che abbiamo legato all'elaborazione del lutto; ed è in questo senso che guarisce. Perché verte non sugli avvenimenti la cui traccia deve essere protetta, ma sul debito il cui peso paralizza la memoria e, per estensione, la capacità di proiettarsi in modo creativo nel futuro. Ed è tutta la dialettica del passato e del futuro che è rimessa in movimento, poiché il progetto attinge alla risorsa immensa delle promesse non mantenute dal passato.

    Accettare di misurarsi con l'imperdonabile

    Ma non voglio dire che il perdono si riduce alla somma dell'elaborazione del ricordo e dell'elaborazione del lutto. Si aggiunge invece all'uno e all'altro. E aggiungendosi, porta con sé ciò che in esso non è elaborazione, ma piuttosto dono. Ma se il perdono è più dell'elaborazione, ciò avviene innanzitutto perché il primo rapporto che abbiamo con esso consiste non nell'accordarlo, ma nel domandarlo. Ora, chi si mette sulla strada della richiesta di perdono deve essere pronto a ricevere una parola di rifiuto. Entrare nel campo del perdono, vuol dire accettare di misurarsi con la possibilità sempre presente dell'imperdonabile. È a prezzo di queste riserve che si manifesta la grandezza del perdono. In esso si rivela tutta l'estensione di ciò che si può chiamare l'economia del dono, se la si caratterizza con la logica di sovrabbondanza che distingue l'amore della logica di reciprocità dalla giustizia.
    Ma non vorrei terminare con una considerazione che potrebbe far credere che il perdono abbia posto solo nella dimensione teologica dell'esistenza. Dirò intanto che il perdono attiene alla poetica dell'esistenza, di cui la religiosità costituisce il culmine. Inoltre, proprio in virtù della sua generosità, questa poetica dell'esistenza dispensa i suoi effetti nella regione della politica. A questo proposito, Hannah Arendt non aveva torto a vedere anche nel perdono una grandezza politica. Ritroviamo qui l'oblio attivo e la sua necessità terapeutica.
    Del resto, la grandezza di certi uomini politici si riconosce dalla loro capacità di chiedere perdono alle vittime delle estorsioni commesse dai loro predecessori. Anche nella dimensione politica, l'importante non è l'oblio, ma spezzare il debito. È allora che il perdono si rivela essere, proprio in virtù della sua generosità, come cemento tra elaborazione della memoria ed elaborazione del lutto

    (Ésprit 1996)


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