Carlo Nanni
(NPG 1999-03-34)
Anche tra i laici ha suscitato un certo interesse l’ultima Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II Fides et Ratio. Fede e ragione sono intese dal Papa come due ali che permettono di ricercare la verità, arrivare a Dio, comprendere la nostra vita.
Il mio intervento si muoverà nella linea di questa sinergia di ragione e fede, applicandola alla ricerca e alla formazione universitaria.
La funzione critico-teorica nella formazione universitaria
Nonostante l’accentuata finalizzazione dell’università alla formazione di competenze professionali, rimangono ineludibili quelle che Humboldt disse le due funzioni basilari dell’università: la ricerca e l’insegnamento a livello di cultura accademica («Forschung und Lehre»).
In funzione di queste funzioni essenziali dell’Università, può essere utile il ruolo che a riguardo può svolgere la ricerca critico-teorica, in genere e in particolare nell’ambito dei saperi pedagogici. In quel che segue mi riferirò soprattutto a questi ultimi.
Sembra oggi che la ricerca teorica debba avere anzitutto il compito di fare opera di chiarificazione del linguaggio scientifico e non scientifico, mediante una sorta di analisi logica volta a far emergere con chiarezza la problematicità dei saperi universitari in tutta la loro poliedricità.
Alla ricerca teorica è stato inoltre tradizionalmente richiesto di assolvere alla funzione di coordinazione critica, di ricerca di coerenza e di comprensione generale nella molteplicità dei dati e delle acquisizioni, che provengono sia dal sapere spontaneo sia dal sapere letterario sia dal sapere scientifico o tecnologico.
Si è pure evidenziata, ma talora anche vivacemente negata, la capacità di discussione critica dell’approccio critico-teorico nei confronti degli stereotipi e dei pregiudizi culturali o nei confronti di posizioni e di prospettive ideologiche, che vengono veicolati nella ricerca e nell’insegnamento universitario. Ma da molte parti si è chiesto ad essa di fare opera di demitizzazione di quel «dio» che ogni società o gruppo accademico «adora» quando fa scienza o accademia.
Oltre a ciò si è pure prospettata la possibilità di considerare la ricerca critico-teorica come organo dell’immaginazione costruttiva e del pensiero prospettico e alternativo, che va oltre il resoconto del fatto compiuto, spingendo verso il possibile o verso intuizioni inedite e visioni alternative, in vista di «vie nuove» o diverse per la ricerca scientifica e tecnologica.
Ma più radicalmente, da varie parti, soprattutto in questi ultimi tempi, si richiede alla ricerca critico-teorica di tematizzare e di contribuire a dar risposta alle questioni riguardanti la comprensione generale e il senso del sapere, della scienza e della tecnica. Ciò vale soprattutto oggi in connessione con le ricadute che sull’università vengono ad avere i fenomeni del pluralismo, della crisi delle ideologie, della multiculturalità.
Alla riflessione critico-teorica viene fatta richiesta di una ricerca valutativa e critica della «paideia», cioè della cultura educativa tradizionale e moderna, entrambe messe alle corde dalla complessità sociale e dalla globalizzazione e mondializzazione del mercato.
Ma, oggi come oggi, non si può sorvolare un altro ambito di riflessione critica, quello costituito dal sottile intreccio che si viene ad avere tra il «fare» e l’«agire», tra la «produzione» e la «stimolazione» dell’apprendimento nell’insegnamento. In altre parole occorrono uno studio e una indagine che riflettano e ricerchino la razionalità (= il «logos») della tecnologia contemporanea e dei suoi futuri sviluppi.
È necessario, cioè, un sapere che non solo abiliti ad usare i «media», antichi e nuovi, in modo appropriato e adeguato ai bisogni dell’apprendimento e dell’esercizio professionale, ma che insieme stimoli a coglierne il senso, i limiti, la necessaria integrazione nell’insieme degli interventi sociali di formazione e di promozione umana.
A livello più ampio un’indagine teorica dovrà vertere, infine, sulle procedure e sull’insieme dell’organizzazione dell’azione formativa e culturale universitaria, come pure sugli interventi e sui profili professionali che si prospettano come risultato dell’esperienza universitaria, in vista di una sorta di «filosofia» (e di un’etica in particolare) dell’organizzazione e delle professioni e del lavoro sociale.
L’apporto del «depositum fidei» alla formazione universitaria
In questa ricerca, ha qualcosa da dire quanto proviene dalla tradizione di fede cristiana (quello che in termini tecnici è denominato il «depositum fidei»)?
Da sempre il Vangelo, pur affermando la sua trans-culturalità, si è incarnato nelle diverse culture, facendosi ellenistico, occidentale, americano, africano, asiatico, antico, moderno e postmoderno. Nel far ciò ha messo in luce i limiti umani, sociali, culturali, storici, civili dell’esistenza individuale e collettiva, ma in pari tempo ha indicato mete più alte. Ha svolto cioè nei confronti delle culture storiche una funzione critico-profetica.
D’altra parte la vita di fede è stata stimolata dalle diverse culture in cui si è incarnata.
C’è quindi una sorta di circolarità tra fede cristiana e cultura. La prima si incarna, evangelizza e dà alla cultura un respiro di trascendenza. A sua volta la cultura permette alla fede cristiana di comprendersi meglio, di esprimersi e di dilatarsi nella storia, trovando la misura umana e la portata storica di quanto proclama al mondo.
Come si concretizza questa dinamica di cultura e fede a livello di formazione universitaria?
L’adeguazione tra formazione universitaria e vita personale
Una prima stimolazione della fede cristiana alla formazione universitaria è tesa alla promozione di una formazione universitaria che sia integrata con la vita personale e con la ricerca di unitarietà di essa.
La cultura antropologica contemporanea sembra pervasa da un profondo pluralismo e attraversata da incisivi giochi interculturali. Parimenti la ricerca scientifica, fin dall’inizio del secolo, ha mostrato e mostra vasti processi di mutamento e di innovazione, che sembrano scuotere a fondo i paradigmi tradizionalmente acquisiti nella vicenda scientifica occidentale. Lo sviluppo tecnologico-informatico degli ultimi decenni ha dilatato le possibilità tecniche, ma anche la problematicità umana degli sviluppi, virtuali ed effettivi, che esso va aprendo.
Anche la formazione universitaria ne è coinvolta. In questo travaglio che l’attraversa e che chiede una «nuova paideia» anche all’università, il contributo della tradizione cristiana può aiutare nella ricerca dell’adeguazione tra acquisizione di competenze e vita personale.
La persona nella sua storica e aperta intenzionalità di vita è la «prima via» del Vangelo. Per chi si ispira ad esso, ne viene di conseguenza che anche l’università avrà da assumere come compito prioritario di «corrispondere» alla domanda di conoscenza scientifica e di competenza professionale degli studenti e delle studentesse. Le stesse esigenze del mercato e della produzione economica avranno da essere integrate con le attese e le aspirazioni personali (vengono «dopo»: non possono essere «avanti» e «prima» delle persone e della loro vita).
Il corrispettivo pedagogico-didattico sarà una didattica attenta a tutti, in particolare ai più deboli (in linea con quella preferenzialità di «servizio ai poveri» indicata dal Vangelo), con chiaro favore accordato alla ricerca personale e a quella di gruppo, così come a metodi di apprendimento cooperativo.
L’attenzione all’oltre e al futuro della cultura universitaria
Un secondo contributo va nella linea della ricerca di un quadro più ampio per la cultura universitaria occidentale.
L’occidente moderno ha portato al mondo la coscienza viva delle libertà personali e politiche, grazie alla forza della scienza e della tecnica. Ha chiamato i singoli e le nazioni ad essere «adulti» nella loro condotta storica, responsabili del loro «destino» individuale e comunitario, costruttori di civiltà e di mondi razionali e illuminati.
Peraltro, gli esiti negativi dei modelli di sviluppo del «Welfare State», e prima ancora dell’ideologia dello sviluppo illimitato, invitano a passare dall’avere all’essere.
E oggi, dopo la caduta del modello della prassi liberatrice di ispirazione marxista (e nel contesto della questionabile ripresa dell’economicismo capitalistico liberistico), si comincia ad intravedere che occorre passare anche da una priorità dell’agire a quella dell’essere: pena di umiliare la qualità umana della vita, facilmente sbilanciata sull’utile, sul funzionale, sul produttivo, sull’efficiente ed efficace, a scapito della gratuità, della contemplatività, della riflessività, della saggezza, dell’esteticità ed eticità della vita, della pacifica con-vivialità, della non-violenza dei rapporti interpersonali e sociali.
Le insufficienze dell’economicismo attuale e del modello occidentale di sviluppo (oltre che la positiva reazione delle religioni e di persone profondamente spirituali) ci invitano anche a criticare gli sbilanciamenti e i tabù della modernità occidentale: lo sbilanciamento sull’io (che riduce l’altro ad oggetto e non riesce a vederne l’alterità soggettiva e il volto di una irriducibile interiorità, proprietà e soggettività, oltre che a dimenticare quasi del tutto il noi sociale, familiare, istituzionale); lo sbilanciamento sulle cose mercificate da possedere e consumare (per cui diventa preponderante e ossessivo il «carpe diem» e diventa difficile vivere umanamente quello che si sta facendo e vivendo, come vuole l’antico detto «age quod agis» o più precisamente il «kairòs» evangelico); il «tabù» del dolore, della sofferenza, della morte, dell’handicap, dello svantaggio economico (fors’anche collegato ad un modo di vedere la vita tutta chiusa nella «curva dei giorni»), che pertanto si cercano di evitare in tutti i modi (invece di affrontarli e viverli almeno dignitosamente in senso di libertà e di umanità, se non in senso religioso di significazione escatologica di una umanità più «alta»).
Non dovrà anche una cultura e una formazione universitaria andare verso tali prospettive?
Lo sviluppo della dimensione etica e religiosa dell’esistenza
Un terzo contributo mi sembra debba andare verso l’evidenziazione della dimensione etica e religiosa dell’esistenza, che non può essere messa fuori dei «pensieri» di una formazione universitaria e dalla relativa docenza.
L’insegnamento disciplinare, la ricerca interdisciplinare, il tirocinio pratico permettono di apprendere idee, visioni di fondo, modelli, tecniche, metodi, strategie conoscitive e operative, ma anche valori da riconoscere e da ricercare e verità da scoprire e da apprezzare.
Attraverso l’assunzione critica e sistematica delle idee regolatrici delle discipline scientifiche si è avviati a cogliere le logiche del sapere disciplinare e ad allargarsi ai grandi snodi procedurali e contenutistici della scienza, della tecnica e della cultura in generale. Però in tal modo, non si acquistano solo competenze professionali, ma si viene spinti anche a «rileggere» il personale e comunitario fare esperienza del mondo, della storia, della vita.
Non si dovrà allora evidenziare questi sviluppi formativi nel percorso curricolare universitario? Non occorrerà stimolare pure a quel minimo di capacità di auto-trascendenza e di apertura al trascendente ideale e religioso, che l’esistenza individuale e comunitaria oggi più che mai richiede?
In questa transfinalizzazione dei processi di apprendimento, si intravede, in particolare, il contributo formativo che può venire dall’analisi critica e sistematica della cultura religiosa stessa, al cui interno il patrimonio di fede cristiano viene a porsi. Essa, infatti, può risultare come un «tesoro culturale» da cui attingere «cose nuove» e «cose antiche», nel raffronto sistematico con altre culture e professioni religiose e di fede, oltre che con la cultura laica occidentale.
Conclusione
Ovviamente, perché il «patrimonium fidei» funzioni da elemento di critica e di sviluppo della formazione universitaria, occorre poterlo avere adeguatamente interiorizzato e integrato con la personale cultura generale e specifica: è questo certamente un compito per gli intellettuali che si dicono cristiani.
Ad essi si impone pure un altro compito: quello di dialogare con chi è portatore di altre prospettive culturali e di altre concezioni magari più funzionali e pragmatiche dell’università.
In questo, la consuetudine di un personale raccordo tra «fides et ratio» potrà agevolare la ricerca della piattaforma comune del dialogare e del dibattere.
A me pare che dal punto di vista teorico, essa porti a considerare nei diritti umani e nei principi costituzionali il «quadro di riferimento contenutistico e valoriale» minimo e acconsentibile da tutti, pur nella differenziazione delle giustificazioni di essi; e in una ragione, insieme unitaria e articolata (dandosi concretamente come ragione teologica, filosofica, scientifica, tecnologica, pratica, estetica...), la «forma culturale» adeguata per l’essere e per le funzioni dell’università.
Si tratta certamente di un qualcosa a cui applicarsi, più che di una realtà già data e assicurata.