Essere giovani oggi
Mario Pollo
(NPG 2007-02-3)
Il primo effetto prodotto dalle trasformazioni culturali riguarda l’insieme del mondo giovanile, sovente definito come «condizione giovanile», che si manifesta da un lato con il prolungamento dell’età giovanile e, dall’altro lato, con la frammentazione/individualizzazione dell’esperienza di essere giovani e dei percorsi di crescita.
Il prolungamento dell’età giovanile
L’età giovanile, in misura decisamente maggiore delle altre età in cui si articola lungo l’asse del tempo la vita delle persone, è una costruzione sociale e culturale.[1]
Questo perché l’età giovanile «si colloca all’interno dei margini mobili tra la dipendenza infantile e l’autonomia dell’età adulta, in quel periodo di puro cambiamento e di inquietudine in cui si realizzano le promesse dell’adolescenza, tra l’immaturità sessuale e la maturità, tra la formazione e il pieno dispiego delle facoltà mentali, tra la mancanza e l’acquisizione di autorità e di potere. In questo senso, nessun limite fisiologico è sufficiente a identificare analiticamente una fase della vita riconducibile piuttosto alla determinazione culturale delle società umane, al modo in cui esse cercano di identificare, di dare ordine e senso a qualcosa che appare tipicamente transitorio, vale a dire caotico e disordinato».[2]
Basta osservare come in questo periodo in tutta l’Europa l’età giovanile si stia prolungando e come, quindi, la transizione all’età adulta stia avvenendo in tempi progressivamente più tardivi.
Oltre ad allungarsi, il tempo della giovinezza si sta differenziando in modo netto da quello dell’adolescenza. Occorre, a questo proposito, ricordare che l’adolescenza è stata inventata all’inizio di questo secolo sotto la spinta delle trasformazioni sociali e della rivoluzione concettuale verificatasi nella considerazione della crescita umana in seguito allo sviluppo delle scienze psicologiche e umane in genere. Infatti nella prima metà del secolo l’adolescenza coincideva quasi completamente con l’età giovanile.
Il prolungamento dell’età giovanile è visto dagli studi sulla cosiddetta condizione giovanile all’interno degli scarti significativi che si sono prodotti tra le frontiere che segnano da un versante il termine della giovinezza e dall’altro versante l’ingresso nella vita adulta.
Infatti in quasi tutti i paesi europei esistono degli scarti, ad esempio, tra la fine degli studi e l’inizio della vita professionale, e tra l’abbandono della casa dei genitori e il matrimonio.
Questi scarti fanno sì che non vi sia più la connessione tra queste quattro soglie, e che il tradizionale momento di fine della giovinezza non sia immediatamente seguito dall’ingresso nell’età adulta, ma da un periodo dai caratteri ambigui che però viene ascritto alla giovinezza.
C’è da dire che questa sconnessione in cui si annida una parte del prolungamento della giovinezza non è uguale in tutti i paesi dell’Europa.
Galland [3] ad esempio ha individuato tre differenti modelli che descrivono il prolungamento della giovinezza in Europa: il modello mediterraneo, quello nordico e quello inglese.
Il modello mediterraneo è caratterizzato da quattro tratti:
– il prolungamento della scolarità;
– una fase lunga di precarietà professionale alla fine degli studi;
– la permanenza tardiva della coabitazione con i genitori, anche dopo la stabilizzazione economica, che è associata ad una forte autonomia dei giovani;
– la contrazione del matrimonio subito dopo il distacco dalla casa dei genitori. Ci sono relativamente pochi giovani che vivono da soli o in coppie non sposate.
Il modello nordico del prolungamento della giovinezza, che comprende anche la Francia, è caratterizzato da un distacco relativamente precoce dalla casa dei genitori ma da un ritardo significativo nella contrazione del matrimonio e nella generazione dei figli. Anche in questo modello vi è il prolungamento degli studi e una fase abbastanza significativa di precarietà professionale alla fine degli stessi studi.
Il modello inglese, che si distingue da quello di tutti gli altri paesi europei, vede un ingresso precoce dei giovani nella vita professionale e il prolungamento della vita in coppia senza figli.
La conseguenza prodotta da questi modelli di prolungamento della giovinezza, che hanno in comune il differimento della procreazione dei figli, ha degli effetti evidenti sulla composizione della popolazione europea per quanto riguarda l’età.
Infatti l’Europa sta vivendo una trasformazione demografica caratterizzata da un progressivo, e per ora scarsamente reversibile, invecchiamento della popolazione in buona parte del suo territorio. Questo fenomeno costituisce il terzo problema anche se, a rigore, esso non è comune a tutti i paesi CEE, in quanto dal punto di vista demografico l’Europa sembra muoversi a due differenti velocità. Infatti le proiezioni demografiche all’anno 2020 dimostrano che vi sarà una contrazione della popolazione in Germania, Italia, Belgio e Danimarca mentre per i restanti paesi vi sarà al contrario un incremento della popolazione.
Tuttavia il saldo complessivo tra paesi in calo e in crescita di popolazione è lievemente negativo, essendo uguale a -0.06%.
Da notare poi che al 2020 in Germania le previsioni indicano un calo del 31.7% della popolazione da 0 a 14 anni, del 15.18% di quella tra i 15 e i 64 anni e un aumento del 34.86% di quella oltre i 65 anni.
In Italia questo dato è ancora più accentuato, essendo previsto il calo del 40.84% della popolazione da 0 a 14 anni, del 12.66% di quella tra i 15 e i 64 anni e un aumento del 46.76% di quella oltre i 65 anni.
La Francia presenta una dinamica ancora diversa, in quanto le proiezioni registrano a quella data un incremento della popolazione da 15 a 65 anni del 2.78%, una riduzione di quella da 0 a 14 del 16.45% e un aumento di quella oltre i 65 anni addirittura del 64.11%.
Il Regno Unito mantiene invece un trend in cui all’aumento della popolazione anziana non corrisponde una diminuzione delle altre fasce di popolazione, avendo un ricambio generazionale assicurato da una adeguata natalità. Infatti la popolazione da 0 a 14 anni si mantiene pressoché stabile calando solo dello 0.06%, quella da 15 a 64 anni aumenta del 2.78% e quella oltre i 65 anni cresce del 25.39%. Questi quattro paesi da soli costituiscono il 71% della popolazione della Comunità Europea.
Esiste ancora una condizione giovanile?
L’analisi del mondo giovanile considerato come una vera e propria condizione si afferma in Italia alla soglia degli anni ’70. È in quegli anni, infatti, che si assiste allo sviluppo delle indagini sulla condizione giovanile. Significativa, ad esempio, fu l’indagine della Doxa «Questi giovani» svolta per la Shell, che fu pubblicata proprio nei primi mesi del 1970.
Non è casuale che lo sviluppo delle inchieste sociali sui giovani sia avvenuto in quegli anni. Infatti è a cavallo del ’68, ovvero dei movimenti collettivi che tradizionalmente si ascrivono a quel periodo cronologico, che nel nostro paese si afferma l’approccio al mondo giovanile in termini di condizione. Il termine condizione, come è noto, presuppone l’esistenza nei giovani «di una forte identità collettiva, di una altrettanto consistente capacità di produrre cultura autonoma (cioè progetti e modelli alternativi di uomo e di società) e di una forte propensione alla mobilitazione sociale».[4]
In quegli anni i giovani apparivano infatti a molti osservatori come un nuovo soggetto politico, in grado di influenzare il mutamento sociale insieme ad altri soggetti sociali e politici, tra cui in primo luogo la classe operaia e poi i soggetti emergenti come le donne e gli emarginati di ogni tipo.
Con la fine degli anni ’70, in coincidenza con l’estenuazione dei movimenti collettivi del ’68 e dintorni, oltre che delle ideologie che li avevano sostenuti, si assiste ad una lenta e progressiva evaporazione della condizione giovanile, ovvero dei giovani in quanto universo unitario e distinto dal resto della società.
Dall’evaporazione della condizione giovanile resta un insieme di cristalli sparso e frammentato, in cui ognuno di essi rappresenta un vissuto soggettivo e privato. In altre parole questo significa che alla fine degli anni ’70, i giovani non sono più un sottosistema sociale, dotato di un forte protagonismo e di una rilevanza sociale, ma un semplice insieme di individui dispersi nell’oceano del sistema sociale incapaci o impossibilitati ad assumere un ruolo di protagonismo sociale.
Non è un caso perciò che proprio in quegli anni i giovani divengano socialmente invisibili, e che cominci ad essere teorizzata la impossibilità di una lettura con categorie universali dei giovani.
Questo processo, iniziato alla fine degli anni ’70, prosegue negli anni ’80 e ’90 sotto la spinta della complessificazione della società, e conduce ad una ancor più forte marginalizzazione dei giovani e ad una ancora maggiore loro chiusura nella dimensione del soggettivo e del relativo.
Questo significa che oggi non si può più parlare di giovani in un senso generale, perché occorre confrontarsi con un insieme composito di soggettività giovanili.
L’individualizzazione e la soggettivizzazione dei percorsi di crescita
Questo insieme composito è il prodotto di una vera e propria individualizzazione del percorso personale di crescita dei giovani, in conseguenza del fatto che nella loro transizione verso l’età adulta seguono un cammino sempre più personale e soggettivo, che è solo parzialmente legato alla loro età anagrafica.
Ma non solo, come afferma Heinz: «Lo scorrere della vita non trova più le sue radici nella classe sociale, in regole di età o di genere o in una pretesa normalità. Si assiste nelle nostre società ad una destandardizzazione della vita degli uomini e delle donne e ad una diversificazione delle scelte di vita. La vita diviene così una successione complessa di situazioni transitorie che gli individui devono selezionare, organizzare e controllare loro stessi. Ognuno deve concepire se stesso come una agenzia pianificatrice delle decisioni di vita.
Le persone oramai sono ritenute responsabili della loro vita, la quale assume forme più individualizzate, ma anche più selettive. La nuova sfida consiste ormai nello sfruttare al meglio le opportunità del mercato, i dispositivi istituzionali e il reticolo delle relazioni sociali per orientare in modo calcolato la propria traiettoria di vita».[5]
Questa tendenza alla soggettivizzazione, di cui l’individualizzazione è un volto, che caratterizza il mondo giovanile è presente anche nel mondo adulto, anche se in modo meno evidente e leggibile, perché essa è il frutto dell’intreccio di quei fenomeni culturali, sociali e psicologico esistenziale che sono all’origine dell’attuale particolare fase della transizione dalla modernità a quella che qualcuno chiama seconda modernità e che sono stati descritti nel dossier di novembre 2006.
Il primo di questi fenomeni è costituito, come si è visto, dalla complessità sociale che – attraverso il suo politeismo di valori, di idee, di concezioni del mondo e della vita, oltre che di poteri, il suo relativismo e la sua posizione fragile verso il «reale» – ha prodotto la frammentazione della cultura sociale in un arcipelago in cui non trovano posto né la verità né l’oggettività.
Il secondo fenomeno è costituito dalla crisi delle grandi narrazioni, ovvero dei grandi sistemi ideologici e di pensiero attraverso cui le persone interpretavano se stesse, la loro vita e il mondo facendo riferimento ad un punto di vista a loro esterno e che era in grado di proiettarle, magari in modo irrealistico, verso il futuro.
Il terzo fenomeno è costituito dalla perdita della capacità delle persone di interpretare il fluire del tempo lungo l’asse lineare della storia e, quindi, di dare alla propria vita la coerenza e l’unitarietà di un progetto capace di dare un senso al frammento di tempo i cui confini sono la nascita e la morte, all’interno del frammento di tempo più grande i cui confini sono, invece, l’inizio e la fine della storia umana.
L’intreccio di questi tre fenomeni culturali nella vita dei giovani ha prodotto in gran parte la deriva del soggettivismo e la loro conseguente chiusura in quell’orizzonte di senso costituito principalmente dai bisogni personali, dalle argomentazioni del desiderio, dai sentimenti, espressi o non, e dai sistemi simbolici interiorizzati.
Questa chiusura si attenua solitamente nelle micro-aperture disegnate dalla relazionalità primaria con le persone con cui si condivide, in un clima di solidarietà affettiva, il piccolo mondo vitale quotidiano. Anche se spesso, in questi casi, più che di vere aperture si tratta di una reciproca accettazione della propria soggettività.
TRA SOGGETTIVIZZAZIONE E ALTERITÀ ESPLOSIVA
Il processo di soggettivizzazione implosiva che i giovani vivono e che, come si è accennato, è figlio dei fenomeni culturali della seconda modernità, si manifesta in vari aspetti della loro condizione esistenziale. I principali di questi aspetti sono rintracciabili nel relativismo etico, nella a-progettualità e nella prigionia del presente che si esprime anche nella reversibilità delle scelte, nella frammentazione dell’identità, nel vissuto virtuale dell’alterità e in alcuni caratteri della loro esperienza religiosa.
Anche se questi segni sembrano proporre alla lettura adulta una interpretazione «negativa», essi debbono essere invece considerati come segni perlomeno ambivalenti, in quanto accanto alla potenzialità regressiva del «disordine» che contengono, esprimono anche una potenzialità evolutiva che, però, può diventare attuale solo se viene educata e fatta esplodere attraverso l’incontro con l’Altro.
Occorre infatti ricordare che nei fondamenti della cultura dell’occidente è presente la consapevolezza che il disordine possiede una potenzialità creatrice e che è attraverso di esso che spesso la condizione umana raggiunge un livello evolutivo più avanzato.
Era questo il motivo che induceva Eraclito ad affermare che: «il più bell’ordine è un mucchio di rifiuti gettati a caso», e che induce un antropologo come Edgar Morin a sostenere che: «è dunque possibile esplorare l’idea di un universo che costituisce il suo ordine e la sua organizzazione nella turbolenza, nell’instabilità, nella devianza, nell’improbabilità, nella dissipazione energetica».[6]
La lettura dei segni cercherà perciò di individuare in essi anche quegli aspetti che sono portatori di una potenzialità evolutiva.
Il relativismo etico
Anche se la credenza che mediamente i giovani oggi non abbiano valori è alquanto diffusa, occorre rilevare che essa è falsa. Infatti, quando si indaga sulla presenza dei valori nel mondo giovanile, si ha la sorpresa di scoprire che la maggioranza dei giovani condivide molti di quei valori che il mondo adulto ritiene importanti per la realizzazione di una condizione umana evoluta e matura.
I problemi inerenti i valori dei giovani non sono legati alla loro assenza, ma piuttosto al prevalere nella loro gerarchizzazione della dimensione personale e soggettiva.
Infatti i sistemi di valore che i giovani hanno interiorizzato vedono nelle posizioni centrali quei valori che sono funzionali alla realizzazione personale e alla relazionalità all’interno del mondo vitale quotidiano che essi abitano.
Non è un caso perciò che le ricerche mettano in evidenza che le tre cose più importanti per la maggioranza dei giovani oggi siano la famiglia, l’amore e l’amicizia.
Quella relazionale è indubbiamente la dimensione esistenziale centrale nell’orizzonte di senso della maggioranza dei giovani italiani come lo è, quasi certamente, per gli adulti.
La chiusura dell’orizzonte esistenziale di molti giovani nella dimensione della relazionalità primaria è anche sottolineata dall’importanza, assolutamente straordinaria, che il gruppo dei pari ha nella vita quotidiana dei giovani.
Questa importanza la si ha anche purtroppo in negativo, in quanto in alcuni casi il gruppo primario assume la funzione di stimolatore e facilitatore dei comportamenti trasgressivi e devianti.
Comunque il gruppo dei pari assume una sua rilevanza particolare, non tanto per le attività che offre o le discussioni che consente al suo interno, ma solo per le relazioni il cui scopo è quello di rassicurare ogni membro sul fatto di esistere e di essere accettato e riconosciuto dagli altri membri del gruppo.
Il gruppo dei pari è da questo punto di vista il luogo della relazione per la relazione.
L’importanza della dimensione relazionale è testimoniata anche dal fatto che nel rapporto amoroso di coppia ciò che viene ritenuto più importante dai giovani è il rispetto, la comprensione, la fedeltà e la capacità di comunicare. Si noti che l’intesa sessuale è ritenuta meno importante di questi aspetti relazionali immateriali.
Questa centralità dei valori legati al loro mondo vitale quotidiano nei giovani si esprime normalmente anche in un modo di vivere la responsabilità etica che, di fatto, è la negazione dell’esistenza di norme a carattere universale o comunque esterne al sentire del soggetto.
Infatti vi è solo una minoranza di giovani che accetta come fondamento del proprio agire un codice etico, religioso o laico, esterno alla loro esperienza personale.
Una parte consistente dei giovani, specialmente nel periodo dell’adolescenza, tende invece a porre come fondamento dell’agire etico o i propri bisogni e desideri, oppure la rivendicazione della centralità della propria coscienza.
Questa rivendicazione di libertà soggettiva nell’agire etico si manifesta soprattutto nella sfera della sessualità.
Infine vi è un’altra parte dei giovani, specialmente tra coloro che sono usciti dall’adolescenza, che riconosce come fondamento dell’agire etico una relazione dialogica tra la scoperta della propria finitudine e del proprio limite personale con quella della responsabilità verso l’altro, verso la sua dignità, la sua libertà e i suoi diritti. Dove però l’altro è solo quello con cui si ha una relazione primaria, personale.
Questa parte dei giovani rivela la maturazione di una concezione di alterità che, pur essendo sempre di breve raggio relazionale, può favorire la scoperta di un fondamento etico più solido, ma che tuttavia se non è educato non riesce ancora farli uscire dalla gabbia dorata del mondo vitale quotidiano e dalle spire del relativismo.
Relativismo che, come si è accennato prima, è uno dei prodotti nella attuale cultura sociale della surmodernità del politeismo etico, e che fa sì che per una gran parte di giovani sia spesso impossibile acquisire la certezza che i valori che sono loro proposti o che hanno già scelto come fondamento del proprio agire siano veri, importanti e giusti, perché essi formano soltanto uno dei tanti sistemi valoriali presenti con pari dignità nella vita sociale che abitano.
Il relativismo prodotto dal policentrismo non si ferma a questo effetto ma va ben oltre, frammentando il tessuto culturale della società in un puzzle matto, in cui ogni tessera pretende di contenere il disegno del tutto. In modo meno ermetico si può dire che il giovane, nel corso del suo quotidiano vivere, sperimenta luoghi differenti che, sovente, gli offrono valori, modelli di vita, codici e norme assai diversi tra di loro quando non addirittura antagonisti.
Il passaggio quotidiano del giovane dalla famiglia alla scuola, al lavoro, al gruppo dei pari, alle associazioni, alle polisportive e ai mass media, è l’esperienza di un cammino in una realtà sociale disomogenea e frammentata che lo invita a vivere in modo pragmatico e aprogettuale, ad evitare scelte coerenti se vuole poter usufruire di tutte le promesse che ogni luogo che attraversa gli fa.
La centratura delle scelte etiche alla sfera della propria coscienza e delle relazioni di mondo vitale in questo quadro sociale è non solo congruente al relativismo etico presente nella cultura sociale, ma è anche un modo che consente al giovane di godere delle opportunità di appagamento dei suoi desideri e bisogni che la realtà sociale gli offre.
Tuttavia i giovani che hanno sperimentato l’educazione del germe di alterità che è presente nel loro vissuto etico sono riusciti ad uscire dalle spire del relativismo e a entrare in un mondo in cui esistono gerarchie di valori e in cui è possibile dare un senso progettuale unitario alla loro vita.
I GIOVANI NEL LABIRINTO DELLA CRISI DELLA NOOTEMPORALITÀ
Uno degli effetti della radicale trasformazione della temporalità è visibile in particolare dal loro porsi in modo incerto, e a volte angoscioso, nei confronti del futuro, dalla debolezza delle loro radici nella memoria culturale, dal come vivano debolmente, nella maggioranza dei casi, le relazioni intergenerazionale con gli adulti, dalla sperimentazione, molto diffusa, dell’assenza dei padri dalla funzione di trasmissione dei valori e delle norme che costituiscono il canone culturale, e dal come, al contrario, essi vivano in modo fortemente significativo la relazionalità con i pari età nel loro percorso di crescita personale.
Infatti, in questa trasformazione della temporalità le generazioni tendono sempre di più ad isolarsi all’interno del loro segmento temporale, indebolendo il legame della solidarietà intergenerazionale nel presente.
La contemporanea indifferenza del mondo degli adulti per quello degli anziani e dei giovani non è che un segno di questa trasformazione.
Questa trasformazione della temporalità ha degli effetti profondi sull’identità dei giovani, sulla loro coscienza e sulla possibilità di dare un senso alla propria esistenza.
Questo significa che oggi il percorso di conquista dell’identità che le nuove generazioni debbono percorrere è frammentato, accidentato e che spesso conduce a quelle forme che vengono definite «deboli». Allo stesso modo la vita priva del tessuto del progetto e della storia appare sempre di più come un caotico susseguirsi di opportunità a volte positive e a volte negative, piacevoli o spiacevoli, ma in cui comunque il paradigma del consumo si manifesta come dominante. La coscienza della propria responsabilità personale e sociale risulta indebolita, e la persona sembra avere responsabilità, spesso illusoria, solo verso se stessa e le persone che le sono spazialmente e affettivamente prossime.
L’identità debole e frammentata, l’impossibilità di pensare alla propria vita come un progetto seppur aperto, l’incoerenza con i suoi corollari del pragmatismo e dell’opportunismo, l’angoscia vestita di depressione o di fuga nell’evasione della ricerca di gratificazioni attraverso il consumo ossessivo che sembra segnare la vita di molti giovani, affondano le loro radici in questa crisi dell’esperienza del tempo che segna la società contemporanea.
I giovani emergendo alla vita si sono trovati immersi in questa nuova temporalità, ed essa è comunque quella in cui debbono, volenti o nolenti, costruire la loro vita.
Tuttavia questa trasformazione non è ancora compiuta, ed esistono alcuni spiragli che indicano che il nuovo tempo della vita può essere diverso da quello che i segni di questa cultura sociale lasciano presagire.
Uno di questi spiragli è costituito dal rapporto dei giovani con l’evento della morte, che è uno degli elementi costitutivi della nootemporalità e che essi non hanno rimosso dal loro orizzonte esistenziale.
Questa mancata rimozione della morte da parte dei giovani indica la possibilità di costruire un nuovo modo di vivere il tempo, che pur accentandone l’estensione orizzontale non ne vanifichi quella verticale.
Questa apertura sfida la responsabilità educativa degli adulti e della loro capacità di dare anima e vita, accogliendo con fiducia e amore la costruzione di sé di ogni giovane con cui entrano in relazione.
Tuttavia per ora questa possibilità rimane un semplice spiraglio su cui agire educativamente, sostenendo la ricerca da parte dei giovani di una progettualità autentica, ovvero di una capacità di vivere il presente in coerenza con il passato personale e storico culturale e, soprattutto, con il sogno di futuro.
Il fatto che la crisi non sia ancora risolta a favore del tempo spazializzato nasce, tra l’altro, dall’osservazione della consapevolezza dell’esistenza del legame tra l’agire nel presente e il futuro nella coscienza della stragrande maggioranza dei giovani.
È però necessario sottolineare che questa consapevolezza appare più legata al pensiero astratto che al reale vissuto dei giovani, in quanto la maggioranza relativa di essi non manifesta un vero atteggiamento progettuale nei confronti del futuro, in quanto si limita a vivere alla giornata o, al massimo, cerca di progettare il futuro a breve termine.
Il rapporto con il futuro [7]
L’assenza di una vera progettualità esistenziale è ben evidenziata dalla carenza di aspirazioni, e spesso di speranza, nei confronti del futuro sia personale che sociale.
Per quanto riguarda le aspirazioni dei giovani nei confronti del loro futuro personale, occorre sottolineare che esse, nella grande maggioranza dei casi, riguardano quasi esclusivamente il farsi una famiglia e l’accedere ad un lavoro soddisfacente. Anche se, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, compaiono spesso le ombre prodotte dalla forte disoccupazione giovanile presente nel nostro paese.
L’assenza della speranza è leggibile poi, e in modo affatto particolare, nell’atteggiamento che i giovani manifestano nei confronti del futuro della società e dell’umanità.
Infatti la maggioranza di essi è convinta che la società italiana nel futuro sarà peggiore di quella attuale, soprattutto per quanto riguarda la solidarietà, la libertà, la giustizia e il benessere.
Questo però non significa che i giovani non abbiano dei sogni circa il futuro della società, ma solo che essi pensano che i loro sogni non potranno realizzarsi. Alla base di questa loro sfiducia vi è una sorta di rassegnazione fatalistica, fondata sulla convinzione che il futuro della società non può in alcun modo essere influenzato dalla loro azione individuale e politica nel presente.
Infatti per la quasi totalità dei giovani il futuro della società è determinato da poteri e fatti che sfuggono al loro controllo, e non hanno perciò alcuna fiducia nei confronti delle azioni di cambiamento sociale che possono essere prodotte dal loro eventuale impegno sociale e politico.
L’immagine che rende bene l’atteggiamento di questi giovani verso il futuro sociale è quella dello spettatore disincantato e passivo.
Si tratta, tra l’altro, di una situazione paradossale, in quanto i sogni di questi giovani nei confronti del futuro della società appaiono spesso concreti e realizzabili, e sono molto distanti dalle proiezioni ideologiche astratte che hanno caratterizzato nel passato i sogni di altre generazioni di giovani.
Passando dall’atteggiamento verso il futuro della società a quello verso il futuro dell’umanità, il pessimismo manifestato dai giovani appare ancora più profondo.
I due terzi di essi, ad esempio, sono convinti, o perlomeno temono, che nel futuro possa scoppiare una guerra mondiale. La stessa quota di giovani è sicura poi che la fame e la povertà nel mondo non potranno essere sconfitte e che, quindi, le disuguaglianze tra i paesi ricchi e quelli poveri continueranno ad esistere se non ad incrementarsi.
Questo sguardo pessimistico nei confronti del futuro dell’umanità è ulteriormente arricchito dalle paure delle catastrofi naturali, degli effetti delle manipolazioni genetiche e, in generale, dalla convinzione dell’esistenza di tendenze autodistruttive nell’essere umano.
Da notare poi che la totalità dei giovani intervistati nella ricerca di cui si è detto è convinta che non potrà mai realizzarsi la pace universale.
Anche riguardo al futuro dell’umanità compare perciò lo stesso senso di impotenza già rilevato nei confronti del futuro della società.
Impotenza che nasce da un senso di profonda estraneità, condito di sfiducia, nei confronti della politica, che non viene assolutamente percepita come lo strumento di azione sociale attraverso cui le persone cercano di realizzare quelle condizioni di vita in cui i loro bisogni possano trovare una adeguata risposta e che, nello stesso tempo, siano il più prossime possibile alla loro visione del mondo.
Un altro fattore che contribuisce a formare nei giovani la scarsa fiducia nella possibilità di costruire un futuro della società e dell’umanità migliore del presente è costituito dal fatto che una parte consistente dei giovani è convinta che il futuro sia solo parzialmente nelle sue mani, in quanto crede che esso sia il frutto di un mix complesso tra le scelte delle persone e il destino.
Al di là di ogni considerazione, resta comunque il fatto che l’orientamento esistenziale dominante negli adolescenti e nei giovani è sostanzialmente rivolto a consumare il presente.
Questo nonostante a livello cognitivo negli stessi giovani sia presente la consapevolezza della possibilità di agire sul futuro personale attraverso le scelte nel presente, e dell’esistenza di un legame profondo tra passato presente e futuro, che tra l’altro fonda la loro identità personale.
Paradossalmente il rapporto con il futuro, che indica l’apertura della possibilità di un recupero significativo della nootemporalità, è dato dal modo attraverso cui i giovani affrontano il rapporto con la consapevolezza dell’esistenza nella loro vita del limite radicale della morte.
Come è stato nella sua storia, l’uomo è emerso alla nootemporalità quando è emerso alla coscienza della morte come limite invalicabile della propria vita.
La coscienza della morte nei giovani è presente e tutt’altro che rimossa, e questo indica che essa è uno dei luoghi da cui può essere ritessuta quella ricerca del senso della vita lungo l’asse del tempo storico lineare e intorno all’interrogativo sul mistero dell’oltre la morte.
È interessante a questo proposito osservare come la grande maggioranza dei giovani e degli adolescenti, al di là della loro fede religiosa, manifesti la convinzione e la speranza in una vita oltre la morte in cui tutto ciò che stato vissuto nell’arco che va dalla nascita alla morte trovi il suo compimento e, per alcuni, la sua retribuzione in una giustizia finalmente piena.
Questo dato indica anche come la ricerca del senso della vita in questi giovani li conduca, necessariamente, a confrontarsi con il tema del limite della morte e del suo oltre. Che la vita, cioè, non possa trovare il suo vero senso se non all’interno di un orizzonte che la trascenda.
Il passato
La crisi della nootemporalità, oltre che nella direzione presente/futuro, si manifesta anche nella direzione presente/passato, ovvero nella crisi del fondamento storico dell’identità personale e culturale dei giovani.
Anche in questo caso si tratta di una crisi i cui esiti non sono ancora leggibili e in cui perciò sono presenti elementi contraddittori o perlomeno ambigui.
Infatti, da un lato appare essere presente nei giovani la memoria storica, spesso nutrita, magari ambiguamente, dal suo fondamento arcaico costituito dal patrimonio leggendario, fiabesco e mitico, mentre dall’altro lato è evidente una carente identificazione con la cultura sociale del luogo in cui vivono, insieme con la manifestazione di una identità personale fortemente allocata sul piano relazionale e scarsamente su quello della storia personale.
È interessante osservare come la storia, sia locale che generale, sia percepita a livello cognitivo come un fattore importante, sia per la comprensione del presente, sia per la progettazione del futuro, da una parte consistente dei giovani. Tuttavia questa percezione non produce atteggiamenti e comportamenti conseguenti, perché la conoscenza della storia non produce «memoria» in quanto coinvolge quasi esclusivamente il livello cognitivo. Lo stesso livello, cioè, della conoscenza scientifica, che, solitamente, per la sua astrazione asettica è assai lontano da quello del vissuto che, invece, è profondamente intriso di connotazioni emotive/affettive.
Si può affermare che in molti giovani è presente la convinzione razionale che la storia è maestra di vita, ma senza però che essa riesca a divenire maestra della loro vita personale e, quindi, ad influenzare le loro scelte esistenziali personali e di gruppo.
Questo significa che la storia non è riuscita a diventare un racconto sapienziale di formazione per i giovani che l’hanno incontrata. Forse perché spesso l’insegnamento di vita che i giovani ricevono per mezzo della storia a scuola viene, di fatto, ignorato nella vita quotidiana concreta del sistema sociale e politico in cui vivono.
Una situazione dello stesso tipo, seppur prodotta da fattori diversi, è riscontrabile anche per quanto riguarda la memoria arcaica veicolata dalle fiabe, dalle leggende e dai miti.
Infatti anche per queste forme del discorso al riconoscimento, a livello razionale, del loro valore formativo in quanto consentono l’acquisizione dei principi e dei valori profondi, archetipici, su cui si fonda la civiltà che abitano, non corrisponde una interiorizzazione degli stessi a livello esistenziale ed emotivo profondo.
Per quanto riguarda in particolare il mito, esso condivide nel vissuto dei giovani lo stesso destino dell’insegnamento della storia, in quanto la sua conoscenza si colloca esclusivamente nel dominio cognitivo.
Non è perciò un caso che la grande maggioranza dei giovani manifesti l’assenza di radici o abbia perlomeno un rapporto ambivalente con la cultura locale.
D’altronde l’identità culturale ha una base emotiva/affettiva molto forte, senza la quale essa non può esistere e non può declinarsi nei legami temporali e spaziali che la caratterizzano.
Molti giovani e adolescenti inoltre abitano dei luoghi esclusivamente funzionali che sono stati privati della loro dimensione esistenziale profonda.
La geografia che orienta il rapporto con lo spazio dei giovani non è quella mitica ma esclusivamente quella fisica e quella politico-economica.
Di fatto questo produce, unitamente alla fuga della storia dalla memoria, una deprivazione dei luoghi geografici, e quindi dello spazio umanizzato, di quella componente temporale che tesse il senso dell’essere dell’uomo nel mondo.
I nonluoghi, di cui abbiamo precendentemente parlato, sono anche il prodotto della perdita della memoria sia storica, sia mitico/leggendaria. Prodotto che, nello stesso tempo, appare anche come causa all’interno di una circolarità retroattiva che tende a rendere stabile e irreversibile questa sorta di secolarizzazione dello spazio che è presente nella realtà sociale e culturale abitata dai giovani.
Rilevante risulta essere il contributo offerto dai media contemporanei a questa omogeneizzazione/secolarizzazione culturale dei luoghi geografici.
Basti pensare, oltre agli ampiamente noti effetti della televisione, a quelli prodotti dalla traduzione delle fiabe in cartoni animati, film, fumetti, ecc. a diffusione mondiale.
Tuttavia nonostante la presenza di questi effetti permane in una minoranza di giovani un radicamento nel luogo e, quindi, in una memoria storica e mitica.
Questo fatto consente di affermare che la crisi della nootemporalità in atto non è ancora risolta, e che rimangono perciò aperte le possibilità verso una temporalità in cui la storia non è ancora smarrita, e in cui il presente può ricercare le sue radici nella trama del racconto che si snoda nel fluire del tempo limitato in cui si dice la vita umana sulla terra.
Tuttavia, perché questo avvenga, è necessario un impegno educativo che aiuti i giovani a collocare il loro cammino nel tempo all’interno di una storia capace di fornire la base per una ricerca del senso del mistero della vita nel futuro sempre aperto dal loro presente.
Il presente
La non risoluzione della crisi della nootemporalità è espressa anche nella concezione del tempo che i giovani e gli adolescenti manifestano nei racconti delle loro storie di vita.
Infatti per la maggioranza di essi il tempo che tesse la loro vita è costituito da una trama in cui si intrecciano più tempi, e in cui il fluire del tempo è percepito come irregolare e discontinuo.
I diversi tempi della loro vita formano per una parte dei giovani il fiume del cambiamento in cui si sentono immersi.
Questa percezione del cambiamento non produce in una buona parte di loro una sensazione di impotenza in quanto, pur essendo consapevoli dell’impossibilità di influire sul corso del fiume del tempo, sono convinti di poter gestire la loro navigazione quotidiana al suo interno attraverso una rigorosa organizzazione dei loro tempi di vita.
C’è però anche una minoranza che vive, invece, questa sensazione di impotenza abbandonandosi passivamente alla corrente del tempo, in quella dimensione che abbiamo definito come «sociotemporalità»: la percezione del tempo sociale come qualcosa che costringe, che impone i ritmi e le attività della propria vita.
La percezione dell’essere immersi nel fiume del tempo produce però anche in una minoranza consistente di giovani un senso di angoscia o di malessere che esprime la loro paura ancestrale di essere un qualcosa di precario che emerge dal nulla e che rapidamente nel nulla ritorna.
A questa minoranza fa da contrappunto una forte maggioranza che con una certa regolarità si ritaglia degli spazi, dei piccoli santuari del tempo, in cui cerca un rapporto più profondo con la propria interiorità attraverso la meditazione, la riflessione su di sé e la propria vita e, in alcuni casi, la preghiera.
Come si vede il vissuto del tempo da parte dei giovani e degli adolescenti appare molto complesso.
Anche per quanto riguarda il vissuto del tempo presente vi è dunque quella dicotomia, già registrata per il passato e il futuro, che indica l’esistenza della crisi della temporalità che attraversa le nuove generazioni.
Crisi che però è ben lontana dall’essere risolta con la fuga dalla nootemporalità, che nonostante tutte le trasformazioni della seconda modernità, resta la temporalità caratteristica e specifica dell’essere umano emerso alla coscienza e alla ricerca del senso della vita.
Anche se la ricerca del senso della vita di questa generazione di giovani è spesso fortemente circoscritta alla sfera del personale e del soggettivo e si realizza in forme deboli, tuttavia è falso affermare che essa è assente.
Nella crisi della temporalità che attraversa il mondo giovanile vi sono anche i segni della speranza e delle potenzialità evolutive che questa generazione può offrire alla storia che abita.
Sta al mondo adulto ascoltare questi segni e fare in modo che essi fioriscano dando forma ad un discorso compiuto.
La reversibilità delle scelte e il rischio
Alla progettualità debole che è emersa nel rapporto dei giovani con il futuro appartiene anche la tendenza, rilevata da ricerche recenti, da parte dei giovani di vivere le scelte come reversibili, tra cui anche quelle legate a comportamenti rischiosi o distruttivi.
Questo dato emerge dalle ultime inchieste dello IARD in cui si osserva che una quota molto consistente di giovani dichiara di essersi assunto dei rischi nel presente che potevano avere dei riflessi negativi sulla loro vita futura.
Rischi che vanno da quelli relativi alla salute a quelli inerenti la guida dell’auto o della moto in stato di ubriachezza.
C’è da notare che l’assunzione dei rischi da parte dei giovani avviene all’interno di una cultura sociale che, come si è visto, è fortemente segnata dalla crisi del futuro che ha indebolito l’agire razionale nel presente e ha espanso le promesse del rischio.
Il pericolo, la possibilità che un’azione possa rivelarsi come nociva e addirittura distruttiva per la persona, è diventato un fattore che invece di dissuadere dal compiere l’azione risulta un elemento di forte fascino dell’azione stessa.
Per quanto riguarda gli adolescenti, questi comportamenti spesso sono sperimentazioni atte a favorire il distacco dalla gestione della loro vita da parte dei genitori e, quindi, l’uscita dal nido protettivo della dipendenza infantile e dell’ambiente strutturato e protetto tessuto dalla famiglia.
Questa ricerca di autonomia attraverso esperienze rischiose e trasgressive espone gli adolescenti che la attuano a potenziali conseguenze negative derivanti dalla propria condotta, come ad esempio gli incidenti stradali, le gravidanze indesiderate, le malattie sessualmente trasmesse, l’abuso di sostanze che in alcuni casi costituisce un vero e proprio ingresso nella tossicodipendenza.
Le ricerche, di carattere epidemiologico, hanno messo in evidenza come gli adolescenti siano più implicati degli adulti nei comportamenti ad elevato rischio.
Occorre ricordare che nell’attuale cultura sociale spesso i comportamenti di rischio svolgono il ruolo di veri e propri riti di iniziazione attraverso cui gli adolescenti cercano il riconoscimento sociale del loro ingresso nel mondo adulto.
Riti di iniziazione che però non sono socialmente accettati e riconosciuti, ma che sono visti invece come delle scorciatoie del percorso che dalla dipendenza infantile conduce all’autonomia adulta.
In ogni caso però questi comportamenti consentono all’adolescente di mettere alla prova le proprie abilità e competenze, di concretizzare i livelli di autonomia e di controllo raggiunti e di sperimentare nuovi e diversificati stili di comportamento.
Da questo punto di vista i comportamenti di rischio oggi sono considerati «normali», in quanto funzionali al raggiungimento dell’identità personale, dell’autonomia e della maturità.
Oltretutto, i comportamenti rischiosi in questa cultura sociale sono funzionali a chi voglia farsi strada nella vita.
Purtroppo c’è un volto negativo nella ricerca del rischio che è costituito dal cosiddetto «ottimismo irrealistico», che fa sì che l’adolescente spesso sottostimi il rischio, e che si esponga a una maggiore probabilità del verificarsi di eventi indesiderati. Eventi che non fanno parte dell’esperienza personale dell’adolescente e che sono percepiti come al di fuori delle sue possibilità di controllo e associati a forti stereotipie sociali. Questo, tra l’altro, produce una significativa riduzione dell’ansia che è associata alle conseguenze negative del comportamento e, quindi, consente anche la salvaguardia della sua stima di sé.
La conseguenza di questo ottimismo irrealistico è che l’aspettativa dei benefici derivanti dal comportamento di rischio fanno superare l’ostacolo costituito dalla valutazione delle possibili conseguenze negative della propria azione.
Se a questo si aggiunge la sensazione di invulnerabilità prodotta dall’egocentrismo adolescenziale e la «sensation seeking», o ricerca di sensazioni, che può essere definita come la necessità continua di sperimentare sensazioni varie, nuove e complesse, si comprende come il rischio sia assunto dagli adolescenti senza una adeguata valutazione delle possibili conseguenze negative per la propria integrità bio-psichica.
Questo significa che il comportamento di rischio non può essere considerato un rito iniziatico, perché manca della necessaria valutazione del rischio e, quindi, della capacità di affrontare le prove in modo relativamente sicuro, pur sperimentando la paura, il senso di distacco e la solitudine durante il loro svolgimento.
Questa situazione lancia una sfida all’educazione: ricostruire percorsi di iniziazione e riti di passaggio socialmente riconosciuti e validati che certifichino l’uscita dalla dipendenza infantile e l’ingresso nella società adulta.
Occorre poi tenere conto che la propensione al rischio di adolescenti e giovani nell’attuale cultura sociale è rinforzata, a causa della perdita del senso lineare e monodirezionale del tempo della storia, dalla presenza in essa della concezione della reversibilità del tempo. Questa concezione si manifesta nel fatto che molti giovani ritengono che da ogni loro scelta, per impegnativa o rischiosa che sia, si possa sempre, o quasi, tornare indietro e ripartire in un’altra direzione. Questo consente ai giovani che vivono la reversibilità della scelte di non negarsi nulla, anche di ciò che è ritenuto trasgressivo, perché sono convinti che tanto si tratta di una scelta da cui è possibile tornare indietro.
Purtroppo, invece, in molte situazioni esistenziali la reversibilità è solo parziale e relativa o, perlomeno, molto difficile. È questo il caso, ad esempio, del consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope che vede molti giovani imprigionati nella distruttività della dipendenza in cui erano entrati con l’illusione di poterne uscire quando volevano.
L’ideologia della reversibilità delle scelte è perciò da considerarsi molto pericolosa, vista la forte esposizione che i giovani in questa fase storica hanno all’abuso dell’alcool e delle droghe, e la maturazione in una quota significativa di essi della concezione dell’ammissibilità del consumo di droghe cosiddette leggere che, molto spesso, non sono affatto leggere o che comunque per alcuni svolgono la funzione di iniziazione al consumo di droghe pesanti.
L’incontro virtuale con l’altro
Se è vero che nella cultura sociale della seconda modernità vi è l’emergere della coppia identità/alterità virtuale, è altrettanto vero che vi sono dei segni che indicano che tra i giovani è in atto un processo di riappropriazione dell’alterità che, anche se per ora si sta giocando solo all’interno del mondo vitale quotidiano, potrà comunque portare alla scoperta di una autentica alterità.
A questo proposito è da segnalare l’esistenza di una minoranza di giovani che ha messo al centro della propria vita una costellazione di valori che può essere definito dell’alterità solidale e che è formata da valori quali: l’uguaglianza, ovvero l’esistenza di uguali opportunità per tutti, la giustizia sociale, intesa come tutela dei più deboli, la disponibilità ad aiutare promovendo il benessere degli altri, la responsabilità, nel senso di essere affidabile per gli altri, l’armonia interiore, il rispetto di sé, la libertà di pensiero e di azione, l’apertura mentale e la tolleranza, e la relazione negativa di tutti questi valori con quelli del potere sociale e della ricchezza materiale.
Questa costellazione valoriale è importante perché segnala la presenza di un sistema di valori ascrivibile, come si è detto, alla categoria della alterità, che è un vero e proprio fondamento etico in grado di ristrutturare l’intero sistema di valori della cultura sociale, restituendo ad esso quella gerarchia che la complessità ha fatto smarrire, imprigionando le scelte etiche di molti giovani nell’angusto limite dei loro bisogni e desideri soggettivi.
L’alterità, infatti, è in grado di restituire al soggetto quel confronto con l’altro da me essenziale per la realizzazione di una eticità meno narcisistica.
La potenzialità trasformatrice della cultura sociale che la presenza di questa costellazione di valori può innescare offre un fondamento concreto alla speranza.
ECCESSIVA-MENTE [8]
La propensione dei giovani al rischio e ad alcune forme di eccesso nasce dal fatto che essi percepiscono, spesso confusamente, che esso svolge nella vita sociale e personale alcune funzioni importanti.
La prima funzione che essi percepiscono è quella dell’eccesso come agente di cambiamento che consente di superare il vecchio limite e di scoprirne uno nuovo, ridefinendo i comportamenti personali o quelli collettivi, conquistando, limitatamente o radicalmente, un nuovo modo di essere. Questo cambiamento è però sempre aperto, sia in senso evolutivo sia in senso regressivo, e rappresenta sempre un rischio, ridotto però dal fatto che, secondo questi giovani, nella situazione di eccesso riemergerebbero i valori e le regole assimilate nei processi socializzanti ed educativi.
Una seconda funzione dell’eccesso che i giovani avvertono è quella che esso sarebbe una sorta di segnale della presenza nella vita sociale di forme di disagio.
Molto più interessante è articolata appare la terza funzione dell’eccesso che viene individuata, in cui si afferma che esso consentirebbe l’introduzione di nuove regole o la riaffermazione delle vecchie nella vita quotidiana della società.
Infine un’ultima funzione dell’eccesso che viene descritta dai giovani è quella liberatoria, o meglio dell’eccesso come rito che celebra la liberazione da una situazione vissuta come costrittiva e/o oppressiva.
Infine occorre sottolineare come dai giovani venga evidenziata la caratteristica dell’eccesso di manifestarsi all’interno di una progressione continua, nel senso che superato un limite si propone di superarne un altro in un movimento senza fine.
Nella funzione dell’eccesso si manifesta in modo chiaro ed evidente la concezione classica della dialettica limitato-illimitato.
Il vissuto dell’eccesso
I giovani percepiscono la società in cui vivono come la società dell’eccesso.
Ma non solo. La loro vita è percepita come tracciata ai bordi dell’eccesso.
Un primo insieme di eccessi, che si può ricavare dagli esempi di eccessi sociali che i giovani hanno indicato, riguarda il tentativo prometeico di controllare la vita e il corpo umano che è presente nell’attuale cultura sociale, e che si esprime nelle pratiche dell’aborto, dell’eutanasia, nelle biotecnologie e nella manipolazione della natura in genere, nella pratica del doping e delle droghe e nella ricerca di una impossibile eterna giovinezza.
Un secondo insieme, molto più esteso, riguarda la dimensione relazionale della vita sociale che produce, da un lato, anonimato e, dall’altro lato, forme di esibizionismo per tentare di sfuggire ad esso, e in cui i rapporti tra le persone tendono a divenire sempre più virtuali e in cui l’identità spesso si riduce all’immagine di se stessi.
Il tutto all’interno di un diffuso conformismo sociale in cui spesso la stessa trasgressione non è altro che una impropria richiesta di aiuto.
Il terzo insieme, infine, riguarda alcuni valori della vita economico-sociale, in cui accanto al consumismo, alla ricerca esasperata del successo, al carrierismo, alla ricerca del guadagno facile, compaiono fenomeni come la globalizzazione, l’eccesso e l’impoverimento dell’informazione, la giapponesizzazione della produzione e dei consumi, l’eccesso di armamenti, la carenza del lavoro, da un lato, e il lavoro minorile, dall’altro lato.
Oltre a questa critica radicale di alcuni valori fondanti l’attuale cultura sociale, i giovani hanno affrontato la descrizione dei loro eccessi personali, che si manifestano nella sfera delle dipendenze, del carattere personale e degli stili di vita.
Le dipendenze che alcuni giovani vivono sono più numerose di quelle degli adolescenti, e riguardano l’alcol e le droghe, il cibo, le comunicazioni telematiche, il tifo sportivo, il cinema, la velocità, l’automobile, il lavoro, i videogiochi e i videopoker.
L’elenco degli eccessi personali caratteriali indicano l’esistenza in questi giovani di una discreta capacità di introspezione e di percezione dei propri limiti personali.
Infine, tra gli eccessi relativi agli stili di vita compaiono alcune interessanti notazioni che riguardano la perdita di senso del proprio lavoro ridotto a merce, la dissoluzione dei ritmi sociotemporali, la difficoltà di elaborazione del lutto, l’eccesso di spese e la difficoltà a vivere la dimensione della gratuità e del dono nella vita sociale.
Questi ultimi eccessi sembrano essere più indotti dalla vita sociale che il frutto di libere e autonome scelte dei giovani.
Limiti e regole
Nella maggioranza dei giovani emerge chiaramente la consapevolezza che il limite è necessario alla vita umana, ma che però esso può essere, nello stesso tempo, sia giusto che ingiusto. Ogni limite, infatti, è sempre percepito come relativo, in quanto si manifesta nelle particolarità delle situazioni individuali, sociali e storiche, ed è disegnato dai valori della cultura sociale e da una moltitudine di altri fattori.
Tuttavia nei giovani vi è la consapevolezza che non si dà né educazione né vita civile senza limite. Lo stesso benessere dell’organismo umano dipende dall’esistenza dei limiti.
Il limite è quasi sempre visto come sinonimo di norma e di regola.
Oltre ai limiti esterni alla persona, come quelli costituiti dalle regole e dalle norme sociali, i giovani individuano anche i limiti personali, costituiti dalle effettive potenzialità e capacità del proprio organismo e della propria personalità.
Molte volte viene però denunciata una sorta di impotenza rispetto alla capacità di gestire efficacemente i propri limiti personali. Impotenza che si traduce in un handicap per la persona tanto nella vita lavorativa, quanto in quella relazionale. Tra l’altro, i giovani individuano nell’eccesso un modo per esplorare i propri limiti personali e spostarli, aumentando in questo modo le risorse che essi hanno a disposizione per realizzare il proprio progetto di vita.
È interessante la considerazione che i giovani fanno secondo cui sia le norme e le regole sociali che quelle personali garantiscono la libertà personale. E questo indica che la connotazione del significato sia di regola che di norma appare pienamente positiva.
Ai limiti e, quindi, alle norme e alle regole viene riconosciuta la funzione di argine nei confronti delle forze istintuali, che spesso possono essere distruttive o quanto meno inadeguate a sostenere la vita sociale e personale dell’individuo. I limiti aiutano perciò le persone a costruirsi secondo un progetto eticamente ed esistenzialmente evoluto.
Un esempio che viene spesso utilizzato dai giovani per sottolineare la funzione sociale delle regole è quello del gioco. La vita sociale è vista come un gioco, che va giocato non con le regole fisse dei giochi tradizionali, ma con delle regole flessibili in grado di evolversi, adattandosi alla complessità delle situazioni e accompagnando le trasformazioni della società.
Le regole, quindi, se evolvono continuamente e si adattano alle trasformazioni sociali e culturali, consentono la convivenza sociale e garantiscono la libertà delle persone proprio perché la limitano.
Dai giovani viene anche sottolineata in modo forte la funzione formativa delle regole, ragione per cui i bambini dovrebbero essere abituati a regolare la propria condotta attraverso regole chiare e precise, a iniziare da quelle alimentari.
Tra l’altro esse servirebbero anche a favorire i vari passaggi attraverso cui avviene la crescita. Passare da una fase dello sviluppo ad un’altra richiederebbe, secondo questo punto di vista, la capacità di agire secondo delle regole specifiche dell’età.
Concludendo si può affermare che i giovani, specialmente quelli che già lavorano, manifestano un livello esteso di accettazione delle regole, delle norme e dei limiti che caratterizzano la società che abitano. In altre parole, i giovani esprimono un totale rispetto della legalità, sia di quella costituita dalle leggi dello stato, sia di quella fatta dal codice etico non scritto della cultura sociale. Anche se si riconosce che quest’ultimo è molto più legato alla soggettività delle persone e, quindi, meno normabile.
Come si vede, tra i giovani esiste, al di là degli stereotipi sociali, una visione della dialettica eccesso/limite che è in grado di far evolvere positivamente la crisi del limite che sembra segnare l’attuale cultura sociale.
L’ESPERIENZA RELIGIOSA [9]
I risultati delle ricerche di tipo qualitativo consentono di affermare che per la grande maggioranza degli adolescenti e dei giovani l’esperienza religiosa si colloca interamente all’interno dei confini del vissuto soggettivo.
Questo dato sembra confermare la prevalenza della dimensione emozionale nell’esperienza religiosa, che va letta certamente come reazione all’aridità del positivismo, che si esprime in una riscoperta della conoscenza attraverso il vissuto soggettivo.
Infatti «alle certezze che si acquisiscono lentamente e che richiedono una lunga ricerca tra le idee, le dottrine e i testi sacri, si contrappone volentieri una conoscenza scaturita da un’esperienza vissuta personalmente: ‘Dio esiste, io l’ho incontrato’ è l’affermazione perentoria di una conoscenza immediata, appena formulata, ma che è fonte di una certezza assoluta».[10]
La fede in Dio e in Gesù
Come diremo più approfonditamente nella scheda a fine articolo, tra i giovani italiani vi è una elevata percentuale di credenti in Dio che si attesta intorno all’82%. Di questi il 75% crede alla religione cattolica, un 1% a altre fedi cristiane e il restante 6% a altre fedi religiose, mentre gli atei sono l’11% e gli agnostici il 6%. Questo significa che il problema dell’attuale fase storica non è quello della fede nell’esistenza di un Essere Supremo, di un Dio, ma nel modo di pensare e vivere questa fede.
Andando oltre il dato statistico, si osserva che tra i giovani italiani, che pur si dichiarano cattolici, emergono differenti modi di credere in Dio e in Gesù.
Per quanto riguarda la credenza in Dio, si osserva che nella maggioranza dei giovani più lontani dalla chiesa è presente o una credenza che ha chiaramente un carattere sincretistico (nel senso che una buona parte di essi ritiene che è lo stesso Dio che si manifesta in modi e forme diverse nelle varie religioni) o una credenza che identifica Dio semplicemente in una forza sovrannaturale, impersonale che non possiede i tratti della bontà o della misericordia, ma solo quelli della onnipotenza e onnipresenza. Una variante a questa credenza è quella che concepisce Dio come una forza interna che l’uomo possiede e che si manifesta nei sentimenti di amore e di amicizia. Si può dire che nei giovani e negli adolescenti che non fanno parte dei gruppi e delle associazioni ecclesiali emergono chiaramente dei caratteri che sono tipici della cosiddetta «religione alla carta».
Vi è anche tra questi giovani «lontani» una minoranza che esprime un autentico credo cristiano, formata in gran parte da giovani di genere femminile. L’appartenenza alla fede cristiana è leggibile in questi giovani nel loro credo trinitario e, quindi, in Gesù. Nella fede in Gesù è leggibile un significativo cambiamento rispetto ad alcuni anni fa, in cui era presente una sorta di rimozione di Gesù e dello Spirito Santo dall’orizzonte della fede giovanile.
Tra i giovani più vicini alla chiesa, ovvero tra quelli che partecipano ai gruppi e alle associazioni ecclesiali, è massicciamente presente la fede in un Dio personale che è presente nella loro vita e che si è rivelato nella storia attraverso Gesù. Occorre sottolineare che questa credenza è espressa con molta più precisione dalle femmine che dai maschi. Si può dire che tra i giovani Gesù ha un ruolo assolutamente centrale nella loro esperienza religiosa, e questo indica un’inversione di tendenza rispetto a un passato recente a cui quasi sicuramente non sono estranee le giornate mondiali della gioventù e le catechesi del Papa Giovanni Paolo II.
Approfondendo il discorso intorno alla fede in Gesù, si osserva che è qui che le trasformazioni della cultura sociale e del suo immaginario rivelano maggiormente il loro influsso, in alcuni casi devastante, in particolare tra gli adolescenti maschi più lontani dalla chiesa. Tra di essi infatti è dominante la convinzione che Gesù sia stato un grande uomo carismatico, un profeta, un grande rivoluzionario, ma sempre e comunque solo un uomo.
Dall’analisi del modo di pensare Gesù da parte degli adolescenti emergono molto chiaramente tre considerazioni.
La prima è che l’immagine di Gesù come Figlio Unigenito di Dio sembra andare progressivamente restringendosi agli adolescenti che hanno un’appartenenza più stretta e solida con la Chiesa. Questo significa che la comunicazione della memoria di Gesù non è più diffusa nella comunicazione sociale, ma solo in quella interna alla comunità ecclesiale o che da questa è emessa. Mentre sino a non molti anni fa una certa qual socializzazione religiosa cristiana poteva avvenire all’interno delle relazioni/comunicazioni della vita sociale quotidiana, oggi questa può avvenire solo all’interno del frammento di società costituito dalla comunità ecclesiale.
La seconda considerazione mette in luce come la catechesi e la comunicazione intorno alla Trinità sembra essere o inesistente o inadeguata, vista la confusione e la bizzarria che segna alcune concezioni di essa.
La terza, invece, ha un carattere positivo in quanto indica come rispetto ad alcuni anni fa, tra gli adolescenti e i giovani vicini alla chiesa, vi sia una maggior centralità di Gesù nella loro esperienza di fede.
Dopo un periodo di apparente eclisse, la fede e il rapporto con Gesù sembrano caratterizzare nuovamente l’esperienza religiosa di quegli adolescenti e giovani che la vivono all’interno della comunità ecclesiale.
La fede in Dio creatore
Passando ad analizzare la fede in Dio creatore dell’universo e della vita, si osserva che essa è minore di quella generica in Dio. Questo significa che ci sono degli adolescenti e dei giovani che credono in Dio ma non nel suo essere il Creatore.
Oltre a questo c’è da segnalare che una parte di coloro che credono che Dio sia il loro creatore non riconosce alcun legame di dipendenza nei suoi confronti, anche perché non percepisce alcun carattere terrifico in lui, ma quasi esclusivamente benevolenza e capacità di comprensione e di perdono.
Anche in questo caso sono leggibili i segni della cultura della modernità che enfatizza l’autonomia, l’autosufficienza e la libertà del soggetto e, quindi, la capacità di autodeterminazione pressoché totale della propria vita.
Il rapporto con Dio
La differenza tra i giovani più vicini e quelli più lontani dalla chiesa si gioca nel modo di vivere il rapporto con Dio. Se è vero che la stragrande maggioranza degli adolescenti e dei giovani ha una qualche forma di rapporto con Dio, è altrettanto vero che la totalità dei giovani più lontani dalla chiesa ha un rapporto personale e solitario con Dio, abbastanza discontinuo e, soprattutto, al di fuori delle forme tradizionali della liturgia e della preghiera comunitaria ecclesiale.
Anche nel rapporto con Gesù si osserva una forte differenza tra i giovani vicini e quelli lontani. Infatti tra i giovani la maggioranza dei lontani non ha alcun rapporto con Gesù, ma ha solo rapporti con Dio.
Tra i giovani vicini la situazione si ribalta completamente. Essi manifestano l’esistenza nella loro vita di rapporti molto vivi, forti e intensi con Gesù, che sono considerati indispensabili per dare un orientamento e una direzione di senso alla propria vita, per dare speranza e per superare le difficoltà, le sconfitte e i fallimenti che segnano la propria vita.
Infine occorre osservare che per quanto riguarda la pratica religiosa c’è da osservare che essa, sia tra i giovani vicini che tra quelli lontani, coincide quasi interamente con la partecipazione alla celebrazione eucaristica.
L’importanza della religione
L’analisi dell’importanza che la religione ha concretamente nella vita dei giovani è alquanto complessa, nel senso che non attraversa solo la vicinanza o la lontananza dalla chiesa ma anche le età. Infatti essa appare più importante nei giovani rispetto agli adolescenti e, naturalmente, tra i vicini rispetto ai lontani.
Per la maggioranza degli adolescenti la dimensione religiosa è poco o niente importante nella loro vita. Occorre osservare che in questa maggioranza non ci sono solo i lontani ma anche una quota significativa di vicini. Questi ultimi si dividono in tre categorie: quelli per cui la religione è importante solo quando sono nel gruppo ecclesiale; quelli che mettono la religione dopo le esigenze della loro vita personale; e infine quelli che vanno a corrente alternata, per i quali la religione alcune volte è importante e altre no.
In tutti e tre i casi sono leggibili gli effetti della polverizzazione della modernità in atto che, da un lato, opera una ipervalorizzazione del soggetto e, dall’altro lato, frantuma ulteriormente l’esperienza di vita delle persone in tanti istanti relativamente autonomi gli uni dagli altri.
La minoranza, costituita – oltre che da una maggioranza da adolescenti appartenenti a gruppi/associazioni ecclesiali – anche da una minoranza di lontani, affida un ruolo importante alla dimensione religiosa nella propria vita per due diverse ragioni. La prima, di tipo psicologico, è costituita dalla convinzione che l’esperienza religiosa influenza positivamente la loro crescita personale, umana e spirituale, mentre la seconda, di tipo esistenziale, sottolinea il fatto che la religione riempie la loro vita di quel senso che altrimenti non avrebbe. Al di là di questo risulta evidente che in ogni caso la presenza della religione è sentita da questi adolescenti come la presenza di Dio che sostiene la vita. Si tratta, comunque, sempre di un’importanza relativa alla vita personale, interiore del soggetto, ma che quasi sempre si esaurisce sulla soglia delle scelte di vita sia personali che sociali. Infatti, per la grande maggioranza degli adolescenti la dimensione religiosa della vita rimane rinchiusa nell’alveo di una esperienza intima, personale, e non si riflette nella vita sociale e relazionale delle persone.
Una fede nascosta, che non diventa vita se non indirettamente. Anzi, quando le esigenze della vita sociale lo richiedono, si possono tradire i principi religiosi per poter essere come le circostanze relazionali di quel momento richiedono.
Il policentrismo etico tipico che deriva verso l’individualismo di questa fase della seconda modernità si manifesta qui in tutta la sua evidenza. La prospettiva del regno sembra essersi dissolta all’interno di una religiosità disincarnata dalla vita.
Passando dagli adolescenti ai giovani, si osserva un riconoscimento molto più ampio, di quello registrato tra gli adolescenti, dell’importanza della religione nella loro vita personale. Tra questi giovani si registrano grosso modo tre diversi atteggiamenti nei confronti della dimensione religiosa dell’esistenza.
Un primo gruppo è formato da giovani per i quali la religione non ha alcuna importanza per la loro vita in quanto si dichiarano non credenti.
Un secondo gruppo è formato da persone che non riconoscono alla religione una importanza per la loro vita personale ma, bensì, una importanza a livello sociale e politico.
Un terzo gruppo infine è formato da coloro per i quali la religione assume una concreta importanza nella loro vita personale. I motivi dell’importanza sono da ricercare negli orientamenti valoriali, nei principi che essa offre e che, quindi, consentono di orientare il percorso esistenziale dei giovani.
È interessante notare come tra le giovani anche lontane vi sia un riconoscimento quasi unanime che la religione è importante per la loro vita. La differenza tra i maschi e le femmine in questa fase storica appare molto accentuata. Tra l’altro, a sostegno del loro atteggiamento, le giovani esprimono riflessioni molto profonde e articolate, qualitativamente superiori a quelle dei loro coetanei maschi.
Passando dai giovani lontani a quelli vicini, si osserva un riconoscimento dell’importanza della religione per la vita personale pressoché unanime. Ma anche qui si nota una qualche differenza tra i maschi e le femmine. Per i maschi tra i motivi che fondano questo riconoscimento vi è la constatazione che la religione lega insieme tutte le parti in cui si declina la vita di una persona e influenza, quindi, le scelte e l’agire personale e sociale del credente, offrendogli anche la speranza, anche se alcune volte vi è l’impossibilità di una comprensione piena della propria esperienza religiosa, che possiede un alone di mistero e di indecifrabilità.
Tra le femmine c’è, rispetto ai maschi, una maggiore articolazione dei motivi che vengono addotti a sostegno dell’affermazione dell’importanza della religione per la loro vita. Una prima motivazione riguarda il fatto che la religione costituisce il fondamento dell’agire personale e sociale, ciò che lo orienta e lo sostiene. Una seconda motivazione è data dal riconoscimento che la religione è, prima di tutto, una relazione con Dio e con Gesù e, quindi, una esperienza di fede più che un insieme di pratiche e di rituali. Essa è anche un rifugio in cui rigenerarsi, trovare consolazione ed essere educati ad affrontare le fatiche, le sconfitte e le sofferenze della vita quotidiana.
Una terza motivazione, infine, è costituita dal sentire la religione come un cammino verso Dio, un cammino di crescita personale a livello umano e spirituale, e quindi dal considerare la religione come una parte essenziale dell’essere umano.
L’appartenenza ecclesiale
Per quanto riguarda il sentimento di appartenenza ecclesiale sono presenti forti differenze tra i maschi e le femmine e, naturalmente, tra gli appartenenti ai gruppi/associazioni ecclesiali e gli altri adolescenti e giovani.
Infatti, la grande maggioranza degli adolescenti e dei giovani maschi che non appartengono a un gruppo o a una associazione ecclesiale dichiara di non sentirsi appartenenti alla chiesa cattolica. Tra le femmine questa situazione si ribalta, in quanto la maggioranza delle giovani si sente parte della chiesa.
Tra i giovani che fanno parte di gruppi e associazioni ecclesiali si osserva un sentimento di appartenenza alla chiesa che si articola in tre diverse forme.
La prima forma è quella del sentimento che può essere definito di appartenenza forte, che è manifestata da giovani che percepiscono l’appartenenza ecclesiale come un elemento fondamentale per la loro vita personale, oltre che per la loro fede.
È un sentimento in cui sono presenti anche l’entusiasmo, la gioia, la fierezza e la fedeltà.
La seconda forma è quella del sentimento che può essere descritto come dell’appartenenza critica. Infatti i giovani che vivono questo senso di appartenenza ecclesiale non condividono spesso alcuni modelli dell’organizzazione e alcuni aspetti della vita ecclesiale, magari perché la sentono distante dalla vita delle persone che abitano il mondo reale. Nonostante questo però hanno scelto, facendo un deciso atto di fede, di stare al suo interno.
La terza forma è quella che può essere definita, paradossalmente, dell’appartenenza senza appartenenza. Questa posizione verso la chiesa è espressa da chi non si sente appartenente alla chiesa, ma che però non può fare a meno di partecipare alla vita della comunità ecclesiale per poter condividere la celebrazione eucaristica.
A questo proposito è necessario rilevare che il far parte di gruppi e associazioni ecclesiali non garantisce sempre un senso forte di appartenenza ecclesiale, in quanto in alcuni casi l’appartenenza si manifesta solo nei confronti del movimento, dell’associazione o del gruppo.
Esperienza etica
L’esplorazione dell’esperienza etica degli adolescenti e dei giovani può essere condotta intorno a tre fuochi.
Il primo è quello del vissuto dei sensi di colpa, il secondo quello della sessualità e il terzo quello della percezione di un limite alla propria libertà.
Il vissuto dei sensi di colpa
Tra gli adolescenti e i giovani si può rilevare come i sensi di colpa siano vissuti più intensamente e in modo più angoscioso dai maschi, soprattutto da quelli non appartenenti ai gruppi e alle associazioni ecclesiali.
Tra gli appartenenti ai gruppi e alle associazioni ecclesiali l’esperienza dei sensi di colpa appare, invece, meno intensa e drammatica.
È questo un dato significativo, perché indica che in questi anni c’è stato un profondo cambiamento nella catechesi relativa alla colpa e, quindi, al peccato, che fa sì che coloro che vivono più intensamente l’appartenenza ecclesiale tendano, sperimentare minori sensi di colpa di chi la vive più tenuemente.
Questo fa sì che mentre per gli adolescenti lontani la religione non giochi alcun ruolo nell’alleviare o nell’aggravare i sensi di colpa, per quelli vicini essa giochi un ruolo importante nel loro superamento.
Tra le femmine vi è, invece, l’assegnazione di un ruolo molto più marginale all’esperienza religiosa nel superamento dei sensi di colpa, anche perché esso produce un profondo malessere, specialmente quando è il risultato di un comportamento che tradisce un loro proposito, perché spesso il peccato è compiuto nonostante la consapevolezza di stare facendo qualcosa di male, che tradisce la volontà e l’amore di Dio.
Passando dagli adolescenti ai giovani, il rapporto esistente tra il vissuto dei sensi di colpa e la religione si modifica profondamente. Infatti, tra i giovani lontani emergono quattro diversi tipi di esperienze.
Il primo tipo di esperienza, vissuta da una minoranza, è quella in cui la fede religiosa accresce il senso di colpa, rendendolo più forte e angosciante.
Un secondo tipo di esperienza è quella in cui la fede religiosa ha un rapporto non lineare con il vissuto della colpa, nel senso che in alcune circostanze lo rende più gravoso e in altre lo allevia.
Nel terzo tipo di esperienza, quello più diffuso, la fede religiosa in un Dio che è un padre misericordioso, sembra alleviare, aiutando a superarlo, il senso di colpa.
Infine, il quarto tipo di esperienza, molto minoritaria, postula una totale indipendenza tra senso di colpa ed esperienza religiosa.
Come già per gli adolescenti, i giovani che fanno parte di gruppi e associazioni ecclesiali manifestano un rapporto meno angosciante con la colpa perché per la maggioranza di essi l’esperienza religiosa è un aiuto decisivo all’accettare serenamente e a superare i sensi di colpa.
I modi attraverso cui il superamento dei sensi di colpa avviene sono almeno cinque.
Il primo modo si basa su una doppia azione della esperienza religiosa, in quanto essa da un lato rende i giovani più consapevoli, evidenziandole, delle proprie colpe, e dall’altro lato attraverso la confessione e la fede nell’amore di Dio, essa aiuta questi stessi giovani a superare i propri sensi di colpa.
Il secondo modo, che potrebbe essere definito a-motivazionale, è la semplice esperienza del superamento del senso di colpa che la religione aiuta a fare, senza che le persone sappiano bene come e perché questo avvenga.
Il terzo modo è quello classico del superamento del senso di colpa grazie al sacramento della riconciliazione.
Il quarto modo è prodotto dalla fede in un Dio che ti ama e ti accetta così come sei, con le tue debolezze e con i tuoi pregi, e questo aiuta i giovani ad accettare la propria finitudine umana. L’accettazione della propria debolezza diventa via alla scoperta della propria forza e della costruzione autentica di sé.
Il quinto modo è quello dell’amore, ovvero attraverso le azioni che manifestano il proprio amore per la vita, per gli altri e per Dio. La colpa viene superata non con la macerazione interiore ma facendo ciò che Gesù ha comandato di fare.
Il vissuto della sessualità
Intorno a questo aspetto della loro vita, negli adolescenti non compaiono significative differenze tra la maggioranza dei vicini, ovvero degli appartenenti ai gruppi e alle associazioni ecclesiali, e i cosiddetti lontani. Infatti c’è solo una minoranza di adolescenti appartenenti, specialmente femmine, che si muove in una direzione diversa da quella indicata dall’attuale cultura sociale dominante.
I rapporti sessuali sono vissuti concretamente dalla maggioranza degli intervistati e non sembrano creare loro alcun senso di colpa, anche se hanno una appartenenza ecclesiale stabile e forte.
C’è spesso il rifiuto di sottomettere la propria sessualità a una qualche norma etica che non sia quella del rispetto dell’altro e il non scendere al di sotto del livello di animalità.
Nel caso degli appartenenti spesso c’è una vera e propria dichiarazione di rifiuto di sottomettere la propria sessualità ai principi morali indicati dalla chiesa.
L’unica differenza che emerge tra i vicini e i lontani riguarda la masturbazione. Mentre i primi tendono a condannarla, i secondi sono spesso propensi a giustificarla.
Da questo conformismo che segna la grande maggioranza degli adolescenti riguardo la sessualità, si stacca un piccolo gruppo, formato da adolescenti, sia maschi che femmine, anche se queste ultime sono in numero maggiore, che non hanno ancora avuto rapporti sessuali.
Non si tratta quasi mai di casi in cui la castità è dovuta al caso o a qualche impossibilità. Infatti dietro di essa c’è sempre una scelta consapevole e libera.
La scelta volontaria e libera della castità nasce sia dal desiderio di farlo con la persona giusta, ovvero con la persona con cui ci sarà un autentico rapporto d’amore, sia da scelte etiche legate alla propria fede religiosa. In entrambi i tipi di scelta c’è, comunque, chiaro il rifiuto del consumismo sessuale dominante, che si esprime spesso anche nel progetto di avere il primo rapporto sessuale solo dopo il matrimonio.
Anche tra i giovani si osserva la presenza dello stesso conformismo rilevato tra gli adolescenti, salvo anche qui per una esigua minoranza, quasi completamente femminile, che ha scelto decisamente la castità prematrimoniale.
La maggioranza dei giovani maschi vive la propria sessualità in modo sereno, come un elemento naturale dell’esistenza e come compimento pieno della relazione d’amore. È interessante osservare che i sensi di colpa prodotti dall’attività sessuale sono maggiormente presenti tra i giovani più lontani, mentre sono quasi completamente assenti tra gli appartenenti ai gruppi ecclesiali.
Tra le giovani vi è una maggiore problematicità e una meno facile accettazione della propria condotta sessuale, specialmente quando essa avviene all’interno di una relazione in cui non vi è un vero sentimento di amore per il proprio partner e, quindi, essa è solo una risposta al desiderio sessuale.
Passando ad analizzare il rapporto degli adolescenti con gli orientamenti della chiesa e del magistero nel campo della morale sessuale, si osserva per prima cosa una significativa differenza tra l’atteggiamento dei maschi e quello delle femmine.
Infatti la quasi totalità dei maschi, sia lontani che vicini, dichiara di essere esplicitamente contraria, o perlomeno afferma di non seguirli, agli orientamenti morali proposti dal magistero in materia sessuale specialmente riguardo i rapporti prematrimoniali e la contraccezione.
Tra le femmine, invece, vi è una minoranza consistente che afferma di condividere gli orientamenti della chiesa e di seguirli senza eccessivi problemi.
In generale si può osservare, quindi, che vi è tra la maggioranza degli adolescenti un rifiuto delle norme morali della chiesa in materia sessuale, in particolare per quanto riguarda i rapporti prematrimoniali e la contraccezione, ma vi è però nello stesso tempo un rifiuto del consumismo sessuale, dominante nell’attuale cultura sociale, e la volontà di connettere l’esperienza sessuale a quella affettiva.
Passando ai giovani, si osserva che sia tra i maschi che tra le femmine non appartenenti solo una esigua minoranza accetta come limite all’espressione della propria sessualità gli orientamenti morali della chiesa. La maggioranza esprime, infatti, un netto rifiuto di questi orientamenti morali con motivazioni differenti.
Circa gli appartenenti ai gruppi/associazioni ecclesiali, sia maschi che femmine, la situazione cambia significativamente, perché la maggioranza di questi giovani sembra avere scelto di aderire alle norme morali della chiesa, affidandosi e vincendo gli eventuali dubbi personali. Anche qui vi è, comunque, una forte minoranza che rivendica come limite alla sessualità unicamente la presenza o l’assenza dell’amore tra i due partner, e rifiutano quindi ogni codice etico eteronomo, oppure che affida solo alla propria soggettività il giudizio morale intorno alla sessualità, sostenendo magari che il loro giudizio nasce dal loro rapporto personale con Dio.
È interessante che la maggioranza che accetta la morale cristiana in ordine alla sessualità, non la segua però concretamente nella propria vita quotidiana.
Esistenza di un limite alla propria libertà di scelta
Solo una esigua minoranza di adolescenti lontani rifiuta di limitare le proprie scelte e la propria libertà di azione. La maggioranza individua, invece, un limite nell’altro, nella sua libertà, nei suoi diritti e nella necessità di garantire la sua integrità, fisica, morale e personale, più che in un codice etico vero e proprio.
C’è anche chi fa riferimento a un codice etico personale, soggettivo, che non coincide con quello sociale o religioso, e che rifiuta a priori ogni principio trascendente.
Vi è solo una minoranza che fa riferimento al codice etico consegnatogli dalla tradizione, in particolare da quella cristiana.
Anche tra la quasi totalità degli adolescenti vicini è, stranamente, assente il riferimento a un codice etico, alla legge divina, alla morale proposta dalla tradizione ecclesiale, perché anche qui il riferimento è costituito esclusivamente dall’altro da me. Questo significa che l’appartenenza o la non appartenenza ecclesiale non produce differenze significative tra questi adolescenti.
Tra i giovani la differenza prodotta dall’appartenenza ecclesiale è solo lievemente più visibile.
I giovani, maschi e femmine, lontani riconoscono tre tipi di limite alla propria libertà di scelta. Il primo è il proprio limite personale e il riconoscimento dei limiti degli altri. Il secondo tipo di limite, quello condiviso dalla larghissima maggioranza, è costituito dall’altro da me, dalla sua libertà, dalla sua autonomia e dai suoi diritti. Tra questi ce ne è uno solo che si rivolge non solo all’altro ma al Totalmente Altro. Infine, il terzo tipo di limite è dato esclusivamente dall’etica personale, soggettiva dell’individuo.
I giovani appartenenti riconoscono, invece, due soli tipi di limite alla propria libertà. Il primo limite, indicato però solo dalla minoranza di essi, è dato dall’amore verso Dio e, quindi, dal riconoscimento della propria creaturalità e dipendenza dalla Sua volontà, mentre la maggioranza individua il proprio limite nel secondo tipo, il riferimento all’altro. La differenza più significativa rispetto ai lontani è che negli appartenenti non compare solo il rispetto dell’altro, ma anche la donatività dell’amore. Come si vede, il limite costituito da una norma eteronoma, anche se proveniente da Dio, non sembra segnare l’orizzonte etico della maggioranza dei giovani e degli adolescenti.
Comunque il fatto che il limite sia segnato dall’altro è comunque positivo, perché l’alterità è comunque il fondamento di ogni costruzione morale.
GIOVANI, RELIGIONE E VITA QUOTIDIANA
Indagine IARD 2006
Nel mese di dicembre 2006 è stata pubblicata la ricerca condotta sulla religiosità giovanile in Italia dall’Istituto IARD per conto del Centro Orientamento Pastorale (Riccardo Grassi, a cura, Giovani, religione e vita quotidiana, Mulino 2006) . Si tratta di una inchiesta di tipo quantitativo condotta nel 2004 su un campione di 2999 giovani italiani tra i 15 e i 35 anni di età.
A fronte dell’indubbia rappresentatività di questo campione dell’universo giovanile italiano, vi è il limite costituito dal fatto di aver utilizzato, come fosse omogenea dal punto di vista psicologico, culturale e sociologico, una fascia di età che comprende in un tutto indifferenziato adolescenti, giovani-giovani, giovani adulti e adulti giovani. Si tratta di un limite questo da non sottovalutare, visto che, ad esempio, uno degli effetti del prolungamento della giovinezza è stato quello di aver differenziato in modo più netto e significativo adolescenza e giovinezza. Un altro limite, che è tipico delle ricerche di tipo quantitativo, è quello di utilizzare indicatori dell’esperienza religiosa che non sono in grado di rispecchiare compiutamente la complessità dell’esperienza religiosa.
Fatta questa doverosa premessa, occorre però dire che i risultati emersi sono interessanti e confermano, tra l’altro, la generalizzabilità di alcuni aspetti della religiosità giovanile emersi nelle ricerche qualitative prima citate.
Il primo dato significativo che emerge dalla ricerca è la conferma che la stragrande maggioranza dei giovani italiani dichiara di credere in Dio (82,2%): gli atei sono l’11% e gli agnostici il 6%. Di questi però solo il 69,4% si dichiara appartenente alla religione cattolica, mentre il restante dei credenti è formato da un 4,8% che si dichiara cristiano senza altri riferimenti specifici, dallo 1,3% di appartenenti a fedi cristiane non cattoliche, dallo 0,2% a religioni monoteistiche non cristiane, e dallo 0,5% a religioni orientali. A questi occorre aggiungere un 6% che crede in un’entità superiore ma senza alcun riferimento ad una religione.
Si tratta di un dato che colloca i giovani italiani al di sopra della media europea, solo poco al di sotto di paesi come Malta, Cipro, Grecia, Portogallo e Polonia che hanno le percentuali più elevate di credenti.
A fronte di questo dato vi è però il fatto, come già emerso dalle ricerche qualitative, che solo un terzo dei giovani che si professano credenti dichiara che la religione è un elemento importante della propria vita, mentre per un altro terzo la religione non ha alcuna rilevanza per la propria vita, e il restante terzo lascia in sospeso il giudizio. Questo dato conferma che la credenza in Dio per la maggioranza dei giovani non ha alcuna influenza sul proprio modo di vita, sulle scelte e sulle condotte morali.
Questo dato si intreccia con quello di una tendenza ad una pratica religiosa individualizzata, dove solo una minoranza, pari a circa un settimo, frequenta in modo costante e sistematico le funzioni religiose. Il restante sembra prediligere forme di preghiera individuale abbastanza incostanti e/o la frequenza saltuaria alle funzioni religiose. La dimensione comunitaria, che è tipica della religione cristiana, sembra vivere una profonda crisi.
È interessante poi l’osservazione che emerge dalla ricerca, della divaricazione tra la partecipazione a momenti emotivamente forti e coinvolgenti e la partecipazione alla vita comunitaria della chiesa locale. Questo dato è in linea con le osservazioni da tempo fatte dai fenomenologi della religione prima citati circa la tendenza ad una religione del corpo, fondata sulle emozioni e, quindi, sulla ricerca di sensazioni.
Un altro dato interessante evidenziato dalla ricerca è la relazione della religiosità giovanile con l’età, il genere, il luogo di residenza e il livello socioculturale della famiglia di origine.
Per quanto riguarda l’età, viene rilevato «un effetto a U», per cui la vicinanza con la religione è massima nell’adolescenza (15-18 anni) e tra gli adulti giovani (30-34 anni) e minima tra i giovani-giovani (20-22 anni).
Passando al genere, la ricerca conferma la maggiore religiosità femminile rispetto a quella maschile.
Interessante per la sua linearità, che indica la forte correlazione, il rapporto tra livello culturale familiare e credenza religiosa. Infatti, l’adesione alla religione cattolica aumenta progressivamente passando dagli appartenenti a una famiglia di livello socioculturale alto (58,9%) a quelli appartenenti a una famiglia di livello culturale basso (77,2%). Un andamento inverso lo si ha per quanto riguarda coloro che credono in un’entità superiore senza fare riferimento ad alcuna religione, che sono il 9,4% nel livello culturale familiare alto e il 3,5% in quello basso. Lo stesso andamento lo si registra tra coloro che si dichiarano atei, che sono il 17,1% tra gli appartenenti a famiglie di livello culturale alto e il 9,4% tra gli appartenenti al livello culturale basso.
Infine, per quanto riguarda il luogo di residenza intervengono due variabili: l’abitare in un comune piccolo o in un’area metropolitana, e l’abitare al nord e centro o al sud. Infatti, gli indicatori della credenza e della pratica religiosa indicano che essa è maggiore in chi abita in piccoli comuni e in chi vive nelle regioni meridionali.
Il rapporto incrociando alcune variabili, come il tipo di credenza religiosa, la frequenza dei riti e la preghiera, ha individuato una tipologia di giovani formata da undici tipi:
1. non credente: 6,3%
2. agnostico: 11,4%
3. credenza in un dio generico: 6,0%
4. appartenente a una minoranza religiosa: 2,0%
5. cristiano generico: 4,8%
6. cattolico lontano: 4,7%
7. cattolico occasionale: 18,0%
8. cattolico ritualista: 16,7%
9. cattolico intimista: 9,9%
10. cattolico moderato: 13,6%
11. cattolico fervente: 6,7%
Questa tipologia, che nel rapporto di ricerca è analizzata in modo sistematico ed approfondito e interrelata con vari indicatori, indica l’esistenza di una frammentazione dell’esperienza religiosa giovanile che è congruente con la caratteristica della complessità e, quindi, del policentrismo che caratterizza l’attuale cultura sociale.
La ricerca dello IARD dà conto poi di come è avvenuta la socializzazione religiosa dei giovani intervistati. La famiglia di origine appare decisiva nell’educazione religiosa, e la ricerca ha individuato una relazione tra l’intensità del vissuto religioso e la sua importanza concreta e la religiosità della famiglia di origine. Oltre a questo l’inchiesta evidenzia come l’educazione religiosa avvenga prevalentemente per via matrilineare (madre e nonna materna).
Viene confermata l’importanza dell’educazione religiosa familiare che appare più decisiva di quella proposta dai percorsi educativi istituzionali.
Oltre ai temi più squisitamente religiosi, la ricerca ha indagato il rapporto dei giovani con i valori e le norme sociali, la famiglia, la scuola, il lavoro, il tempo libero, l’identità personale, il rapporto con il futuro e la propensione al rischio. È interessante come anche questi dati siano stati interrelati con la tipologia religiosa alla ricerca di come e quanto il tipo di religiosità personale influenzi queste dimensioni della vita personale e sociale dei giovani.
Non c’è qui lo spazio per dare, seppure in modo sintetico, i risultati della ricerca, per cui rimandiamo alla lettura del libro chi desidera fare un opportuno approfondimento.
Per concludere, si possono citare i risultati della parte relativa al rapporto giovani e valori, dove emergono come «valori di massa», per l’alta percentuale di scelta, la salute, la famiglia, la pace, la libertà, l’amore e l’amicizia; e dove invece la solidarietà, gli interessi culturali, l’impegno sociale e la religione risultano tra i «valori minoritari», con la politica all’ultimo posto e collocata tra i «valori di nicchia».
Questi dati confermano il persistere dell’orizzonte esistenziale dei giovani all’interno della soggettività e del mondo vitale quotidiano e, quindi, come siano in crisi i transattori capaci di collegare l’esperienza personale soggettiva, di mondo vitale, con il sistema sociale astratto. Ma non solo. Analizzando il dato relativo alla religione, si osserva che solo per il 40% dei cattolici praticanti essa appare molto importante, mentre per i cattolici praticanti questa percentuale scende al 7%. Questo dato conferma quanto prima detto circa la scissione tra fede e vita che sembra caratterizzare l’esperienza religiosa di molti giovani e adolescenti.
(Mario Pollo)
[1] Levi G. – E Schmitt J.C., Storia dei giovani. 1. Dall’antichità all’età moderna, Laterza, Bari 1994, p. VI.
[2] Ivi, p. VI.
[3] Galland O., Che cosa è la gioventù, in Cavalli A. – Galland O. (a cura di), Senza fretta di crescere, Liguori Editore, 1996, p. 7.
[4] Milanesi G., Il disagio: una concettualizzazione preliminare, in Pollo M. (a cura di), La gioventù negata, Labos-TER, Roma 1994, p. 43.
[5] Heinz W.R., L’ingresso nella vita attiva in Germania e in Gran Bretagna, in Cavalli A. – Galland O. (a cura di), Senza fretta di crescere, Liguori 1996, pp. 83-84.
[6] Morin E., Il Metodo. Ordine disordine organizzazione, Feltrinelli 1987, p. 53.
[7] Questa parte sul vissuto del tempo da parte dei giovani è ricavata dalla ricerca esposta nel volume: Pollo M., I labirinti del tempo, Franco Angeli, 2000.
[8] In questa parte si fa riferimento alla ricerca pubblicata nel volume: Pollo M., Eccessiva-mente, Franco Angeli 2002.
[9] Questa parte è tratta dalle ricerche pubblicate nei volumi: Pollo M., Il volto giovane della ricerca di Dio, Piemme 2002.
[10] Meslin M., L’esperienza religiosa, in Lenoir F. e Masquelier Y.T., La religione, Vol. VI : i temi, Utet, Torino 2001, p. 166.