Intervista a Giuseppe Mari
A cura di Rossano Sala
(NPG 2018-06-10)
Partiamo dallo sguardo della pedagogia cristiana. Abbiamo chiesto al prof. Giuseppe Mari, professore Ordinario di Pedagogia generale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, di aiutarci a riflettere intorno ai grandi temi del Sinodo. La condizione giovanile nel nostro tempo tardo-moderno, la situazione della fede nel mondo di oggi e il cammino di scoperta della propria vocazione sono le tematiche principali che affronteremo partendo da un taglio antropologico ed educativo, senza però disdegnare uno sguardo teologico.
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Apriamo le danze con uno sguardo generale. Oggi, almeno in Europa, assistiamo ad una visibile crisi di fede. L’incertezza e la mancanza di punti fermi paradossalmente sembrano essere le uniche cose “certe”. Da dove viene questa nuova ondata di secolarizzazione e dove ci potrebbe portare?
Non trovo sorprendente che, dopo circa tre secoli nei quali la cultura “scientifica” ha prevalentemente ripetuto che la fede, se non è dannosa, è certamente insignificante, oggi facciamo fatica a credere. Il mito della “modernizzazione” (diffusosi soprattutto nel dopoguerra) ha spinto ancora più in là l’affondo presentando la fede cristiana come un ostacolo all’affermazione dell’essere umano. Quello che mi stupisce è che il Novecento sembra passato invano. È stato il secolo più ateo e agnostico della storia, ma anche quello che ha grondato più sangue. Inoltre, dopo che – da varie prospettive – si è respinto l’asfissiante abbraccio del positivismo (convinto che la verità sia solo quella dei numeri e delle misurazioni), oggi torna l’enfasi sulle statistiche e sui test. Dovremmo ricordare quello che diceva un grande storico – Marrou – ossia che la storia è il più grande esperimento mai realizzato e, prima di rincorrere le cronache, fare un’attenta verifica almeno del recente passato.
Per ricavarne che cosa?
Che molte promesse non sono state mantenute, tant’è vero che si prova a farle dimenticare promuovendo l’omologazione dei comportamenti sugli standard più bassi.
Ad esempio?
Per restare al recente passato, potremmo fare qualche bilancio relativamente alla “rivoluzione sessuale” di fine anni Sessanta: venne promesso il “sesso edenico”, ma ci ritroviamo con il “sesso delle caverne” come mostra l’esplosione della violenza sessuale. Non c’è solo questo. C’è stata la promessa di consumi diffusi e alla portata di tutti: se ci si ritrova a fare spesa nei discount, vuol dire che altre forme di distribuzione non sono più alla portata: anche in questo caso, qualcosa non ha funzionato. Certo, si può reagire – come sta accadendo – facendo precipitare tutto sul consumo “purché sia”, ma non mi sembra una conquista: piuttosto uno stratagemma diversivo.
Anche la Chiesa sta soffrendo molto in questo frangente. Abbiamo dei cammini di “iniziazione cristiana” che non conducono alla vita cristiana, ma – in partica – al suo abbandono (se consideriamo la quota minima di coloro che frequentano la S. Messa domenicale dopo aver ricevuto i Sacramenti). Abbiamo una Chiesa che fatica a trovare il suo posto in questo nuovo contesto dove la fede sembra essere diventata un’opzione tra le altre…
… se genericamente ci si attesta sui consumi per surrogare la mancanza dell’essenziale, questo accade in ogni ambito, inclusa la fede. Quella che stiamo affrontando è una spinta generale a produrre per consumare e a consumare per produrre, come se questo bastasse per la tenuta societaria. La Chiesa è sottoposta a questa pressione, ma cerca di esercitare il richiamo profetico all’essenziale che va oltre l’utile. Non bisogna desistere.
In che senso?
Il dispositivo produzione-consumo e viceversa è il più semplice, tant’è vero che regge perfettamente la vita animale e, più in generale, il ciclo della natura. Ma l’essere umano non è un animale perché è libero ossia ha una dignità intrinseca e originaria, in base alla quale ciò che è utile va ordinato e subordinato a ciò che è essenziale, non il contrario. Non siamo i primi ad affrontare questa sfida. La distinzione a cui mi sono riferito è quella che Sant’Agostino traccia fra l’“usare” e il “fruire”: vuol dire che il problema c’era anche un millennio e mezzo fa, probabilmente c’è sempre stato.
Lei è un pedagogista. Da tante parti si invoca un rinnovato approccio antropologico agli argomenti educativi e persino a quelli di fede. Effettivamente sembra che la “questione antropologica” sia ritornata all’ordine del giorno, proprio perché oggi l’uomo e la sua dignità appaiono fortemente minacciati. Perché in questo momento storico l’approccio antropologico è da preferirsi rispetto ad altri?
Forse perché, oggi più di ieri, il potere dell’essere umano sull’essere umano è cresciuto a dismisura soprattutto attraverso la tecnica. Non è casuale che, lungo il Novecento, autori di diversa ispirazione (per fare solo tre nomi: il cattolico Guardini, il marxista Horkheimer e il laico Heidegger) abbiano tutti posto il problema della tecnica come fondamentale. Dal momento che la tecnica è un prodotto umano, la questione immediatamente rimanda a chi sia l’essere umano. Da qui possiamo, quindi, partire per una messa a punto della situazione.
Occorre un rilancio dell’umanesimo?
Certamente questa è una direttrice feconda per il pensiero e per l’azione, ma con l’accortezza di evitare lo scioglimento della fede in una generica filantropia. Ce lo ha ricordato il Convegno ecclesiale di Firenze: “In Cristo il nuovo umanesimo” – non “un nuovo umanesimo”. L’umanesimo cristiano è teocentrico, non antropocentrico ovvero è antropocentrico perché è teocentrico. Papa Francesco, nella enciclica Laudato si’, fa una critica precisa dell’antropocentrismo autoreferenziale (quindi agnostico, se non ateo) che ha prevalso durante la modernità e che – per reazione – ispira oggi le tendenze post- e trans-umanistiche.
Mai come oggi abbiamo avuto così tante possibilità e così tanti strumenti a disposizione e mai come oggi siamo in difficoltà sulle dinamiche dei fini, degli orientamenti, della destinazione della propria esistenza e del proprio impegno. Come si spiega questa perdita di sapere sui fini?
Se teniamo sullo sfondo la modernità, occorre ricordare che la “rivoluzione scientifica” si è caratterizzata proprio per l’abbandono di quella che gli antichi chiamavano “causa finale”: in altre parole, si è ristretta la conoscenza scientifica alla descrizione funzionale. Ma questo non può bastare all’essere umano che – essendo libero – si chiede non solamente “come” le cose avvengano, ma anche “perché”, nel senso di “in vista di che cosa”. Da questo punto di vista, è essenziale raccogliere l’invito di Papa Benedetto ad “allargare l’idea di razionalità”.
Quali sono le conseguenze sulle giovani generazioni?
Fra tutte le età della vita, la giovinezza è quella più orientata al futuro perché si affaccia sull’esistenza con tutta la tonicità psico-fisico-morale di cui è capace il giovane. Se manca il riconoscimento dei fini, si precipita sul presente e all’assertività si sostituisce la compensazione. Insomma, ne seguono le forme di disagio e di devianza che non occorre descrivere, perché sono sotto gli occhi di tutti.
Come valuta la scelta del prossimo Sinodo, che desidera rispolverare la vocazione? Le pare una mossa di futuro o un ritorno archeologico? Vede questo orientamento come una profezia o come un corto circuito? Perché?
Dobbiamo essere grati a Papa Francesco per aver convocato il Sinodo facendo del “discernimento vocazionale” il riferimento essenziale. Siamo sommersi dalle analisi descrittive sui giovani (come su tutto il resto), ma dobbiamo avere chiaro che da un quintale di analisi non si ricava un grammo di sintesi, perché sono due procedimenti conoscitivi diversi. È quindi importante che non ci accodiamo al flusso di parole che rischia di rendere evanescente l’incontro con la Parola e con la Tradizione viva che ce la trasmette.
“Vocazione” rimanda a “decisione” e questa parola postula l’adulto capace di prenderla, ma oggi si sente spesso dire che anche l’“adultità” è in crisi…
… letteralmente “decidersi” significa “tagliare” cioè prendere una decisione che, nel momento stesso in cui viene assunta, “taglia” rispetto ad altre. Faccio un esempio. Se metto al mondo un figlio, per il fatto stesso che questo accade io divento padre: poi potrò essere un buon padre o un cattivo padre, ma certamente ho “tagliato” rispetto alla condizione precedente nella quale non ero padre, e non posso tornare indietro.
Qual è, quindi, la questione?
La questione è la libertà. Se – per dire che cos’è la libertà – partiamo dalla facoltà di decidersi tra alternative, allora virtualmente non c’è alcun criterio stabile ed è quello che sta accadendo: com’è possibile decidersi in questo modo? È possibile farlo solamente in termini temporanei: è interessante notare che oggi sono in crisi sia la vocazione al matrimonio sia quella alla consacrazione nel celibato che sono certamente diverse, ma convergenti sul punto originario: la decisione assunta come irrevocabile.
Come va allora presentata la libertà?
Sant’Agostino chiama la libertà d’arbitrio (quella che ho descritto prima) “libertà minore”; ad essa affianca la “libertà maggiore” ossia la vera libertà che consiste nello scegliere il bene senza costrizione. Dobbiamo educare a questo, ma – per farlo – occorrono almeno due cose:
1. identificare nella dignità della persona il criterio prossimo per decidersi solo in favore di quello che ci merita ossia che è alla nostra altezza morale;
2. adottare una disciplina nei comportamenti che permetta di respingere quello che non ci merita anche se ci attira.
La prima condizione viene soddisfatta attraverso il riconoscimento dei valori (rispetto al quale siamo generalmente attenti), ma la seconda richiede la pratica delle virtù, che ci trova invece molto scoperti.
In che senso?
Nel senso che l’attuale pratica educativa è troppo sbilanciata in senso cognitivo ossia tratta l’essere umano come se fosse solo “testa”, mentre è anche “cuore” ed è anche “mani”, nel senso che ogni nostra decisione operativa passa attraverso il nostro corpo, quindi fa i conti con pulsioni, emozioni e sentimenti, oltre che idee. E passa soprattutto attraverso comportamenti concreti, che diventano “abiti” della persona.
Siamo così arrivati al corpo che, negli ultimi decenni, ha ispirato molte riflessioni. Perché il tema del corpo è strategico e quali potrebbero essere i guadagni a cui possiamo andare incontro riflettendo su di esso?
Prima ho richiamato la svolta culturale di fine anni Sessanta che ha avuto come protagonista proprio il corpo, di cui si è detto che veniva liberato dai vincoli della ipocrisia e del perbenismo. Osservo che, dopo cinquant’anni, qualcosa non funziona. Che cosa c’è in comune fra il consumo di sostanze, l’abuso alcoolico e le “pratiche adrenaliniche” che attirano i nostri ragazzi esponendoli a comportamenti dannosi per sé stessi oltre che per gli altri? La percezione sensoriale alterata, quindi il corpo. La mia impressione è che la “liberazione” del corpo si sia risolta nella “cosificazione” del corpo, usato e quindi abusato perché il nostro corpo siamo ancora noi, quindi usarlo, significa usarci e questo è profondamente ripugnante.
Ma viene presentato come appagante…
… certo: è così nell’ottica dell’uso e del consumo, che mette al centro di tutto il godimento. Ma è anche profondamente frustrante perché tratta il corpo umano come se fosse animale, mentre è spirituale, cioè “impregnato” di libertà. Ce lo ricordano, tragicamente, i disturbi alimentari, rispetto a cui il rapporto del nostro corpo con il cibo si rivela collegato non alla logica puramente funzionale della nutrizione, ma alla relazione simbolica con il mondo. Non è casuale che solo al corpo umano associamo la “corporeità” che identifica la fisicità come espressione della originalità personale. Le catechesi sul corpo e sulla sessualità di Giovanni Paolo II rimangono essenziali per illuminare questo e guidare la pratica educativa.
Come educare la corporeità?
Si tratta di guidare alla libertà come capacità di governare sé stessi ossia di decidersi solo per ciò che merita la nostra scelta perché ci corrisponde in quanto all’altezza della nostra dignità. 1Cor 6,12 sembra scritto per noi: “Tutto mi è lecito! Ma non tutto giova. Tutto mi è lecito! Ma io non mi lascerò dominare da nulla”. Dobbiamo presentare la conquista di sé stessi non semplicemente come la rinuncia a qualcosa, ma come l’opportunità di acquisire autostima attraverso la conquista del nostro corpo. Se non conquistiamo noi stessi, che cosa mai potremo conseguire? Teniamo conto, inoltre, che si può donare solo ciò che si possiede, ma, se non si possiede il proprio corpo, come lo si potrà donare nel matrimonio oppure nella consacrazione attraverso il celibato? Forse è qui una delle radici di tanta fragilità nel mantenere la promessa sponsale secondo la carne come secondo lo spirito. L’educazione alla virtù risponde a questa logica perché esprime la “forza” come “disciplina”. Lo deve fare in modo assertivo, come insegna l’epistolario paolino quando paragona la vita di fede alle pratiche sportiva e militare.
Il corpo è portatore dei marcatori della sessualità, e quindi della differenza tra uomo e donna. C’è un ampio dibattito sull’articolata questione Gender. In che senso una riflessione non ingenua sul corpo può aiutarci a dirimere e approfondire alcune questioni relative al tema?
Il corpo è strutturalmente sessuato in riferimento alle identità maschile e femminile: questo – a mio avviso – è il punto di partenza. È vero che l’essere umano – in forza della sua libertà – sa praticare la ricomprensione simbolica del dimorfismo sessuale fisico, ma questo non significa cancellarlo, perché altrimenti nemmeno la lettura simbolica potrebbe avvenire. Da parte mia, accolgo la distinzione tra Sex e Gender, dove il primo vocabolo identifica la differenza maschio/femmina sul piano descrittivo e il secondo su quello antropologico. Ma nego decisamente che il significato Gender sia puramente socio-convenzionale: ci sono certamente le convenzioni (e vanno corrette quando implicano la discriminazione tra uomo e donna), ma c’è un radicamento nel corpo che non ha valenza convenzionale, bensì “naturale” nel senso di “originaria”. Ne possiamo ricavare che uomo e donna hanno identica dignità, ma diversa identità: su questo si fonda l’educazione sessuale. Gli stessi “Gender studies”, se si limitano a offrire materiali in ordine alla identificazione del maschile e del femminile, sono – a mio avviso – utili, ma se si spingono fino a dare una interpretazione socio-convenzionale della differenza maschio-femmina, ritengo che siano ideologici, cioè infondati.
Il cristianesimo è la religione dell’incarnazione. È evidente che il corpo assume un rilievo altissimo per i credenti in un Dio che è diventato carne. Il nostro tempo vede sorgere vari tipi di gnosi e forme neopagane che vorrebbero eliminare il corpo…
… la crisi di fede, che stiamo attraversando, a me sembra che stia facendo diventare non atei, ma pagani. Il mondo pagano, anche nelle sue più alte manifestazioni spirituali (penso alla Grecia “classica”), ha espresso la tendenziale svalutazione del corpo, in molti casi il suo aperto disprezzo, perché soggetto alla corruzione.
Che cosa caratterizza il paganesimo?
L’assolutizzazione della finitudine, nella quale – per restare al tema del corpo – la fisicità è destinata alla dissoluzione. Una delle tracce più evidenti della ripaganizzazione attuale è lo sdoganamento – nell’immaginario diffuso – di una pratica pagana – il suicidio – che esprime al massimo grado l’assolutizzazione di ciò che è finito – in questo caso la vita terrena – perché viene assunto come totalmente dipendente dalla decisione umana.
Dov’è il limite del paganesimo?
Sul piano storico, la mia impressione è che il paganesimo cade quando si confronta con la domanda d’amore del cuore umano che non è mai soddisfatta dalla finitudine dei gesti umani che provano a corrispondervi. Giustamente la domanda da cui siamo partiti, menziona la “gnosi”, espressione che significa “conoscenza”. Nella gnosi si professa la possibilità di salvarsi attraverso la conoscenza, mentre il cristianesimo associa la salvezza all’amore. Ma non è un amore “consumistico” perché è l’amore che Dio offre alla creatura liberamente (questo significa agápe). È interessante notare che i Padri della Chiesa che si confrontarono con la gnosi, non negarono che anche la fede cristiana fosse una conoscenza, ma la qualificarono come “buona gnosi” perché la misero in dipendenza dall’amore di Dio. Forse il pagano di oggi – come quello di ieri – è in cerca dell’annuncio dell’amore che salva. Del resto, a questo Papa Wojtyla ricondusse la “nuova evangelizzazione” nella lettera Christifideles laici: “Dio ti ama!”; e Papa Francesco continuamente ci ricorda che quello cristiano è l’annuncio della misericordia – cioè dell’amore – tenerissimo di Dio per la sua creatura.
Torniamo sull’idea di vocazione. Ci sono alcuni altri concetti che appaiono, di primo acchito, simili e che fanno parte di questa costellazione. Una prima parola è quella di “scelta”. Essa rimanda, nell’odierno mercato neoliberale in cui siamo inseriti e a volte prigionieri, ad una dinamica che sembra apparire molto appetibile ad un primo sguardo, perché lega la libertà ad una sempre maggiore possibilità di scelta. Ma è proprio così liberante una libertà pensata in ordine alla scelta?
Il tema della libertà è strategico, forse oggi più di ieri. È importante ricordare che la libertà non è un fine, ma un mezzo. Siamo liberi per diventare migliori, cioè per alimentare la nostra dignità che precede le nostre azioni perché è ciò che le permette. Il liberalismo va educato a non ri(con)durre l’essere umano a produttore/consumatore. È curioso notare che questa medesima tendenza ha connotato il comunismo. In effetti, se tutto si gioca sulla sola proprietà dei mezzi di produzione (assegnata dagli uni all’individuo, dagli altri alla collettività), ma non si arriva a riconoscere la dignità dell’essere umano (ossia la verità che lo identifica), la libertà viene svilita su entrambi i fronti. Come Papa Francesco ha ricordato agli studenti delle scuole gesuitiche, in una delle sue prime udienze, siamo liberi per diventare “magnanimi”, non per rattrappirci – come roditori – solo su quello che soddisfa le nostre “voglie”.
Un’altra parola che gira intorno all’orizzonte della vocazione è quella del “progetto”. Certo esso dice la capacità di organizzare la propria esistenza in forma disciplinata e orientata, ma può anche diventare un termine che rimanda ad una prospettiva molto autoreferenziale e in fondo narcisistica, centrata su di sé e sui propri desideri e bisogni, senza che si tenga conto della relazione con gli altri e con l’Altro. Che cosa ne pensa?
Condivido. Se la parola “progetto” significa che non si sta improvvisando, va bene; ma, se comporta l’assimilazione dell’agire e dell’educare a una pianificazione, siamo fuori strada. Infatti, i cristiani credono che tutta la storia è il luogo dove si incontrano (e si scontrano) le libertà di Dio e dell’essere umano, che non sono sullo stesso piano anche se Dio ci tratta come se lo fossimo. Il termine “cristiano” per alludere al futuro non è “progetto”, ma “vocazione” perché – tra le due – è questa la parola che dice il primato di Dio e della relazione con Lui, che va chiaramente riconosciuto e affermato altrimenti si finisce – come disse Papa Francesco nella omelia della S. Messa celebrata con il Cardinali dopo l’elezione – per essere una ONG, ma non la Chiesa di Cristo.
Dal punto di vista antropologico due parole mi paiono importanti per avvicinarci all’essenza della “vocazione”: la filialità e la sponsalità. La prima dice che l’esistenza non è prima di tutto un progetto o una scelta, ma un dono che evoca appunto la grazia della vita, il tempo della gestazione e anche il momento traumatici della nascita. Il secondo termine suggerisce che io sono me stesso solo nella logica di una comunione con l’altro da me, resa possibile da una libertà che si dona senza riserve. Ritiene che queste categorie siano adatte per avvicinarci ad una riflessione seria sulla vocazione? Oppure ha altre proposte in merito?
Queste parole costituiscono il vocabolario “elementare” nel senso di “fondamentale”, a cui vanno ordinate tutte le conoscenze che possiamo trarre dalle “scienze umane” che altrimenti finiscono per essere autoreferenziali, quindi fuorvianti. La filialità ricorda almeno due cose: in senso lato, che non ci siamo fatti da noi stessi (la qual cosa invalida la tendenza – oggi diffusa – ad appiattire la libertà sull’autodeterminazione); nello specifico cristiano, che abbiamo una dignità originaria, quella di essere “figli nel Figlio”. È essenziale avere chiaro questo perché fa cogliere il potere affrancante della fede in Gesù Cristo ossia squalifica la propaganda di segno contrario, quella che – dicevo all’inizio – da almeno tre secoli professa che la fede, quando non è dannosa, è certamente insignificante.
La sponsalità è – allo stesso modo – essenziale perché ci ricorda che non esistiamo per vivere solo per noi stessi. Ho già richiamato la contemporanea crisi di matrimonio e consacrazione nel celibato. Ci dice che il problema è lo stesso, ma anche che la prospettiva risolutiva è la medesima: ricordare che siamo strutturalmente relazionali, educare alla capacità di decidersi per l’altro e non solamente per noi stessi.
Filialità e sponsalità hanno a che fare con una promessa fiduciosa che chiede di essere onorata. Il tema della “promessa”, che affida la vita e la relazione alla libertà dell’altro, è un altro tema antropologico di tutto rilievo. La promessa evoca in maniera forte il tema dei legami, della fedeltà alla parola data, ad una scelta che impegna la propria libertà e in questo modo la riempie di senso. Pensa che questa categoria possa venire in soccorso al cammino sinodale? In che modo?
È una pista rilevante che pone la sfida sia di riconoscere la sponsalità – secondo la carne e secondo lo spirito – come vocazione di fondo dell’essere umano sia di educare alla capacità di corrispondervi. In tal senso, la vocazione a diventare sposi e padri in quanto maschi e spose e madri in quanto femmine potrebbe essere l’asse portante attorno a cui ordinare la pratica educativa nel suo complesso.
Eccoci giunti alla parola chiave del Sinodo: “vocazione”. Essa è immediatamente una parola relazionale, perché in essa è presupposto un chiamante e un chiamato che si mettono in comunicazione. Un “chiamare” che rimanda immediatamente alla parola “amare”. Riprendere sul serio la questione vocazionale può essere la chiave di volta del rinnovamento dell’identità cristiana e di tutti i battezzati: siano essi laici giovani o sposati, consacrati, ministri. In che senso la coscienza vocazionale è decisiva per un rinnovamento civile ed ecclesiale?
Se non c’è vocazione, c’è autoreferenzialità – ecco perché questa categoria ha valenza anche civile e non solamente ecclesiale. Penso che dobbiamo riprendere fiducia in un patrimonio di saggezza che è tipico dell’educazione cristiana (forse anche per questo i nostri Vescovi ci hanno donato il documento “Educare alla vita buona del Vangelo”). Si tratta – a mio avviso – di essere più attenti alla storia che alla cronaca: quello che accade qui e ora è certamente rilevante, ma, se non sono capace di abbracciarlo in un’ottica più ampia, può essere ingannevole o comunque fuorviante. Come ci insegna il Vaticano II, essere aggiornati non significa inseguire le “notizie”, ma esplorare la “Notizia”.
Ci aiuti a declinare dal punto di vista educativo e pastorale la questione. Quali processi e quali metodologie operative le paiono più adeguati per aiutare i giovani ad entrare nel ritmo del discernimento vocazionale? Che cosa possiamo privilegiare, nel nostro modo di educare, per creare una “cultura vocazionale”, dove ogni giovane e ogni uomo possano prendere coscienza di avere una “missione” su questa terra?
La questione non è facile perché la crisi di fede sta ovviamente coinvolgendo anche l’educazione cristiana. Vorrei, tuttavia, condividere un’ipotesi che espongo in questi termini, pur avendo coscienza della loro schematicità e approssimazione. La mia impressione è che la nostra attuale educazione – così come generalmente la pratichiamo negli ambienti ecclesiali – ruoti attorno a due fuochi: quello formativo e quello aggregativo. È sempre una mia impressione, quella secondo cui il momento aggregativo prevale nettamente sull’altro che fa anche fatica probabilmente a identificare quali siano i contenuti essenziali da trasmettere. Questo lo dico perché è evidente la diffusa ignoranza religiosa di tanti che hanno percorso per intero l’iter formativo ecclesiale. Una prospettiva diversa potrebbe essere questa: sostituire il momento aggregativo con la pratica “in solido” della carità e identificare alcuni contenuti inderogabili della formazione. Vanno fatte almeno due precisazioni: sostituendo con la pratica della carità il momento aggregativo non sostengo che quest’ultimo vada tolto, ma che va reso solo complementare rispetto ai due fuochi prevalenti – quello formativo e quello caritativo –. Il secondo, in particolare, potrebbe permettere sia di dare l’esemplificazione pratica di quanto l’altro espone “in teoria” sia di far scoprire la bellezza del servizio: la qual cosa ovviamente è essenziale in ordine alla scelta vocazionale sia matrimoniale che di speciale consacrazione.
Infine, una battuta sulla “vocazione” della Chiesa in questo frangente della storia. Alcuni autori dicono che la categoria che meglio interpreta il nostro tempo è quella di “metamorfosi”, visti i cambiamenti in atto che non sappiamo bene dove ci porteranno. Noi siamo, almeno in Europa, sempre più una “minoranza” dal punto di vista quantitativo. Non siamo tutto e non dominiamo tutto, come in altre epoche della storia europea. Che cosa siamo chiamati a portare all’Europa oggi, come qualcosa che è specificamente nostro, ma che può essere fecondo per tutti?
Quella che offro è più una suggestione che una proposta, data l’ampiezza della domanda. Qualche anno fa, tra i miei studenti dell’ISSR di Milano (dove tengo un insegnamento oltre a quelli di cui sono titolare in Università Cattolica), mi colpiva un quarantenne africano che seguiva con molta attenzione ogni lezione. Mi venne il desiderio di scambiare qualche parola con lui. Andammo così a prendere un caffè insieme e lui mi raccontò la sua storia di credente che aveva riscoperto – dopo varie traversie – la fede nella quale era stato educato da bambino: oggi è un validissimo docente di Religione cattolica. Gli chiesi come – alla luce della sua esperienza di vita – vedeva il nostro cattolicesimo e lui utilizzò un’immagine che mi è rimasta impressa nella memoria e che racconto frequentemente. Mi disse: “Da noi, in Africa, il cristianesimo non è ancora riuscito a portarci fuori dall’Egitto perché la vita umana continua ad essere esposta alla violenza e all’ingiustizia, ma voi, in Europa, siete finiti a Babilonia”. Ho trovato queste parole molto vere. In Europa, rischiamo di non avere per nulla chiaro che la fede cristiana ci ha liberato facendoci riconoscere la nostra dignità. Se è vero questo, mi viene da concludere che una categoria adatta potrebbe essere quella di sfida, perché la parola identifica la non rassegnazione, anzi la convinzione che si deve e si può agire in favore di un rinnovamento che non consiste nell’adeguamento alle mode, ma nel riconoscimento dell’essenziale.
Preparando l’introduzione a due brevi saggi di Papa Wojtyla che ho pubblicato, ho imparato che la parola polacca per “sfida” è wyzwanie, collegata al verbo wyzwalác che significa “liberare”. Forse è per questo che Giovanni Paolo II utilizzava sempre questa espressione quando parlava ai giovani. La vocazione è “sfida”, così come la libertà e – più in generale – la vita umana, perché racchiude il richiamo a non adattarsi ovvero a non starsene anestetizzati sul divano, come Papa Francesco ha detto ai giovani durante l’ultima GMG. Oggi, come ieri, l’annuncio cristiano è una sfida a non rassegnarsi e consegnarsi al presunto “dato”, una sfida a sapervi riconoscere il “mandato” che la libertà – come la vocazione – reca in sé. La “sfida” identifica la fede per quello che è nel profondo: profezia.