La nostalgia di Dio nell’arte moderna e contemporanea /6
Maria Rattà
(NPG 2024-03-77)
Attesa, identità, sogno. La nostalgia del futuro si colora delle tinte di queste tre dimensioni, in un cerchio che si chiude idealmente (ma non solo) collegando il domani al passato e al presente, il Cielo da cui proveniamo al Cielo a cui torneremo.
Identità: perché la radice etimologica del futuro viene dal latino futurus, participio passato di esse, essere. Il futuro ci dice qualcosa di noi, ci svela a noi stessi.
Sogno: perché fin da piccoli impariamo il linguaggio del futuro, progettando ciò che faremo, ciò che vorremmo fare, ciò che vorremmo diventare. Già le favole ci abituano a questa lingua, parlandoci di desideri e temi che molto più hanno a che fare con gli adulti che coi bambini. Ma proprio il sogno ci tiene vivi, e ci permette di non rimanere intrappolati in un presente statico e triste, oppure ancorati a un passato che non può ritornare.
Attesa: perché ciò che ancora non è richiede un passaggio (breve o lungo) di tempo da attraversare, e una buona dose di pazienza con cui incamminarsi per raggiungerlo. E l’attendere può diventare tempo di noia, di dolore, di disperazione… oppure trasfigurarsi in una gioia anticipata.
Tre sfere – l’attesa, l’identità, il sogno – che possono dunque assumere i connotati della bellezza o quelli dello squallore.
La nostalgia del futuro traccia percorsi di bellezza solamente quando i desideri dell’uomo si allineano al grande desiderio di Dio, al sogno che Egli sogna per il futuro di ogni uomo e di ogni donna.
Certo, più facile a dirsi che a farsi, ma non impossibile.
Questione, anzitutto, di discernimento. Lo sa bene san Giuseppe, che vive una notte tormentata dopo la scoperta della gravidanza della promessa sposa Maria. Arcabas lo descrive mentre dorme su un giaciglio che ha il colore e la durezza della pietra – quasi un’ara sacrificale – e con un velo sugli occhi: non una maschera per proteggersi dalla luce, ma quella sottile materia/non materia che sono i dubbi e le difficoltà umane dinanzi alle grandi scelte della vita e all’incognita del domani. Materia/non materia, sì, perché solo con questa semitrasparenza nello sguardo è possibile lasciare libero l’occhio interiore, quello attraverso cui filtra la voce di Dio anche nei momenti angoscianti e turbolenti della vita. E infatti Giuseppe rimane in ascolto dell’angelo – messaggero divino – per cambiare il corso della propria storia, di quella di Maria, di Gesù e dell’umanità intera. Accettando che la propria felicità non stia nella propria nostalgia di futuro, ma in quella più vasta, pensata da Dio per lui.
Essere aperti alla capacità di desiderare il futuro come Dio lo desidera per noi è rimanere, fondamentalmente, capaci di amare, nonostante tutto. Quando invece si chiude la porta al progetto di Dio, il sogno si tramuta in incubo infernale. Così avviene per Livia, personaggio della vibrante e intensa penna di Maurizio de Giovanni. Lei, donna stupenda, colta, raffinata, che non riesce a far breccia nel cuore dell’uomo che ama (il misterioso commissario Ricciardi), prendendo atto del suo inscalfibile rifiuto passa dall’amore all’odio. Assopendosi, dopo il turbinio dei pensieri e dei sentimenti, in un sonno agitato. E così «la coscienza si siede, acquattandosi nella notte. E cede il passo ai sogni confusi. E agli incubi disperati»[1].
Che incubi e futuro siano connessi non lo dicono però solo la letteratura o l’arte (che spesso dà ai brutti sogni le sembianze di figure demoniache), ma anche la scienza: la ricerca evidenzia come ad avere gli incubi più frequenti e più spaventosi siano le persone con un’elevata preoccupazione per l’avvenire.
La nostalgia del futuro si lega così anche a un’altra parola: affidamento. È quello che Gesù ci insegna nella preghiera del Padre Nostro, e non solo in essa: abbiamo un Padre a cui chiedere il necessario quotidiano per il corpo e per lo spirito, sia per l’adesso che per il poi. Un Padre che sa già ciò di cui abbiamo bisogno, ma a cui occorre rivolgersi con fede. Un Padre che, in chiusura di preghiera, imploriamo di liberarci dal male. E cos’è il male se non, e qui torniamo sempre allo stesso punto come se girassimo in cerchio, la mancanza di amore, di amore vero?
Ecco perché la poetessa Beatrice Zerbini può scrivere: «[Dacci] solo amore, / consueto, / consensuale, / mansueto e congeniale, / e che duri / che non spergiuri / che ci veda e che si veda, / che ci creda»[2].
Dacci un amore che non sappia solo di presente, ma anche di domani, perché l’amore dà senso allo scorrere dei giorni: a quelli passati – che non possiamo cambiare –, a quelli presenti, che non possiamo che vivere così come sono, e a quelli futuri, che sogniamo colmi, gioiosi, sostenuti dal sentimento su cui riposare come bimbi svezzati in braccio alla propria madre (parafrasando il Salmo 131,2). Dacci un amore eterno, perché solo la carità non avrà mai fine, e solo nella carità saremo “vivi per sempre”. La nostalgia “buona” del futuro si spegne ogniqualvolta smettiamo di amare; si tramuta da sogno in incubo quando pensiamo di dover ripagare con l’odio chi non ricambia il nostro affetto. I due grandi comandamenti lasciatici da Gesù, proprio come il Padre Nostro, insegnano invece ad agire diversamente: amerai il Signore tuo Dio; amerai il tuo prossimo (cfr. Mt 22,37-38). «Tu amerai: il tuo futuro è nell’amare. Amando nell’oggi, apri per te un futuro sensato. Amando ti dai un futuro perché l’amore ha sempre ragione e basta a se stesso. Anche se non viene capito o misconosciuto o disprezzato»[3]. Esattamente come nella logica delle beatitudini, che per Gesù non sono semplicemente proiettate nel futuro, ma già radicate in un presente in cui potersi sentire beati.
Un salto temporale possibile fintanto che davvero crediamo nella più grande promessa di futuro per l’uomo: il paradiso. Quel paradiso che Gesù assicura al buon ladrone pentito, quel paradiso in cui si trova Cristo, il Risorto. Quel paradiso di cui abbiamo pegno e anticipo nell’Eucaristia, e in cui l’attesa del futuro agognato sembra quasi “azzerarsi” (parafrasando alcune parole dello scrittore Vincenzo Gambardella). Si dovrebbe allora vivere l’Eucaristia con la stessa gioia di cui parla la volpe de Il Piccolo Principe: «Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora. Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò a essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti»[4].
In quel rito che è l’Eucaristia Gesù è colui che sempre attende l’uomo, per cominciare a colmare l’attesa che proprio nel cuore umano alberga. Nell’Eucaristia Cristo comincia già a trasfigurarci, a trasformarci in persone capaci di amare come lui. Nell’Eucaristia il nostro cammino di santità prende uno slancio nuovo, e ci aiuta a farci “luce”, come Egli è luce. Perché luce saremo anche in Cielo, così come presenta i santi l’artista cattolica Elizabeth Wang, nella sua opera Quando preghiamo durante la Messa siamo uniti a Cristo in gloria e con l’unione dei suoi santi e delle anime del Purgatorio. Simili a candele vediamo tanto le anime del paradiso quanto quelle che ancora aspettano di salire al cospetto di Dio; sono pienamente illuminate le prime, come luminosa è Maria, la donna vestita di sole dell’Apocalisse, nella visione pittorica di Alice Pike Barney: una Madonna dal cui grembo ricolmo di Vita si irradia una luminosità straordinaria, dai colori che sembrano quasi rimandare all’aurora boreale, perché la Vergine Madre è l’aurora che annuncia il sole vero, come recita un antico inno mariano.
In questa donna splendente di luce vediamo già cosa siamo chiamati a diventare: lei è «il futuro che noi aspettiamo»[5], secondo le parole del card. Angelo Comastri.
Se il futuro che ci attende è di tale splendore, nemmeno la più grande paura del futuro deve distoglierci dalla nostalgia sana del domani. La morte può diventare dolce, come nelle parole di Ada Negri, in cui il fulgore di Dio torna a dominare: «Fa' ch'io mi stacchi dal più alto ramo / di mia vita, così, senza lamento, / penetrata di Te come del sole»[6].
Vale dunque la pena faticare nel cammino per tornare a casa, nella nostra vera Patria. Nella certezza, come scriveva Emily Dickinson, che «I piedi di chi cammina verso casa / Con più allegri sandali vanno»[7]. E così, anche se «Le mie cifre non riescono a dirmi / A che distanza sia il villaggio - / I cui contadini sono gli angeli - / I cui Campi costellano i cieli – […] / La mia fede adora quel Buio - / Che dalle sue solenni abbazie / Tale risurrezione riversa».
In un moto luminoso di eterno futuro dove ogni nostalgia sarà finalmente saziata.
NOTE
[1] Maurizio De Giovanni, Anime di vetro. Falene per il Commissario Ricciardi, Einaudi, 2017, p. 197.
[2] Beatrice Zerbini, Padre nostro, Pagina Facebook della poetessa, https://www.facebook.com/ancheiricchipiangono/photos/a.1582928992023668/2207416712908223/?type=3
[3] Luciano Manicardi, Il tuo futuro è nell’amare, Sito internet del Monastero di Bose, https://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/14158-il-tuo-futuro-e-nell-amare
[4] Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, Bompiani, 1997, p. 94.
[5] Angelo Comastri, Preghiera a Maria Assunta in Cielo, in 100 preghiere, Palumbi editore, 2021, p. 125, disponibile anche in pdf sul sito dell’Editore, https://www.edizionipalumbi.it/wp-content/uploads/2020/07/100_preghiere_NUOVA%20EDIZIONE.pdf
[6] Emily Dickinson, J7 (1858) / F16 (1858), Sito internet Emily Dickinson - The Complete Poems - Tutte le poesie, https://www.emilydickinson.it/j0001-0050.html
[7] Ibidem.