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    Il corpo di carne e spirito

    Giuseppe Trotta


    «“Io” dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande, cui tu non vuoi credere, il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice “Io”, ma fa “Io”» (F. Nietzsche, «Così parlò Zarathustra», in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, Adelphi, Milano 19864, 34). Per secoli in Occidente l’intelletto con la sua razionalità astratta è stato considerato il proprium dell’uomo, ciò che definisce l’ambito del “suo” e ne determina l’identità soggettiva. La cultura contemporanea ha ribaltato questo paradigma in favore del corpo e della sua istintività. Nella sua materialità, infatti, è sensibile e immediato, oggetto conoscibile e manipolabile dalle tecnoscienze, ma al tempo stesso unico e inalienabile: nessuno, per quanto possa asservire il corpo di un altro, sfruttarlo, ucciderlo, può sostituirlo al suo, appropriandosene. Ecco perché esso è diventato un crocevia del dibattito sulle libertà individuali e l’autodeterminazione: la possibilità di gestirlo autonomamente è condizione e segno dell’essere liberi.
    Anche nella prospettiva cristiana l’incarnazione e la resurrezione conferiscono al corpo un ruolo determinante, rimasto, però, in secondo piano nel corso della diffusione del messaggio biblico dal suo contesto originario semitico a quello greco-romano. Chiarire alcuni aspetti della questione dal punto di vista biblico può offrire riferimenti utili per evitare riduzionismi e sopravvalutazioni.

    Coscienza di un limite

    Dopo aver sperimentato l’opposizione all’annuncio del Vangelo da parte dei giudei nelle sinagoghe dei principali centri dell’Asia minore, Paolo e i suoi collaboratori si rivolgono ai gentili, ovvero ai non ebrei di religione pagana interessati al monoteismo e talvolta divenuti proseliti, convertiti (cfr Atti degli apostoli 13). La lingua comune in questo contesto è il greco e i testi biblici sono letti nella versione detta “dei Settanta”. È da questa matrice culturale ebraica, che ha già trovato un’espressione in greco, che Paolo desume i termini e i concetti con cui interpreta e annuncia l’evento cristiano, introducendone all’occorrenza anche di nuovi.
    L’ebraico impiega un’unica parola, bāśār, per dire carne e corpo, mentre il greco due: sarx e soma. La prima indica l’uomo nel suo essere creatura mortale, limitata e fragile; la seconda sia la forma umana visibile, insieme di più membra, sia il cadavere. L’espressione ebraica “ogni carne” ricorre spesso per indicare l’umanità nel suo insieme, in quanto l’elemento carnale è proprio dell’uomo, mentre il soffio vitale (o spirito) che lo rende vivo viene da Dio e a lui ritorna al momento della morte, quando il corpo torna a essere polvere. La caducità della carne comporta anche una fragilità dal punto di vista morale: Dio guardò la terra ed ecco, essa era corrotta, perché ogni uomo (lett. “ogni carne”) aveva pervertito la sua condotta sulla terra (Genesi 6,12).
    Per non fraintendere i testi paolini bisogna tener conto di questo sfondo linguistico e concettuale. Ad esempio, quando Paolo parla del conflitto fra carne e spirito: Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me (Romani 7,18-21). Il brano paolino non è una svalutazione della corporeità o la stigmatizzazione di alcuni peccati, come quelli legati alla sessualità, ma dà conto dell’esperienza di una divisione interiore, di un conflitto vissuto nella concretezza del proprio corpo agente nel mondo fra una parte capace di grandi desideri, cioè lo spirito, e una debole incapace di realizzarli, la carne. Questa tensione inscritta nell’essere corporeo si presenta alla coscienza come un limite fisicamente insuperabile, ma non per questo aggirabile sopprimendo la carne a favore dello spirito. Dal punto di vista biblico, infatti, è solo l’unione dei due elementi a costituire l’uomo come corpo vivente nel mondo: se Dio richiamasse a sé il suo spirito e il suo soffio, ogni carne morirebbe all’istante e l’uomo ritornerebbe in polvere (Giobbe 34,14-15).
    Tuttavia, i due estremi in conflitto fra loro non sono vissuti come equivalenti. Paolo si identifica col desiderio di bene al punto da sperimentare nell’impossibilità di realizzarlo la perdita di controllo, come se un altro operasse in lui: il peccato che abita in me. Questa tensione fra una parte limitata, che s’impone alla volontà, e una potenzialmente infinita, che supera l’altra, ma non la può eliminare, manifesta il corpo come un limite positivo, nel senso greco di apertura, «possibilità di aprirci (a) un mondo» (cfr S. Bongiovanni, «Corporeità e alterità: l’identità incarnata», in Rassegna di Teologia, 42 [2001] 505-520). Cresciuto nel giudaismo di stampo farisaico, Paolo aveva creduto di poter realizzare tale apertura superando la condizione di debolezza congenita inclinata al male mediante l’osservanza della Legge, ma ne ha sperimentato l’impossibilità. Divenuto cristiano, la vede realizzata nella resurrezione di Gesù: Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Grazie a Dio per mezzo di Cristo nostro Signore! […] E se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi (Romani 7,24-25.8,11).
    Stando ai racconti evangelici di incontro col Risorto, Gesù si mostra ai discepoli con un corpo sensibile, dotato di una qualche forma materiale: mangia in loro presenza e si fa toccare (cfr Luca 24,36-43). Così, nel partecipare per grazia mediante la fede alla resurrezione di Gesù, Paolo non prospetta al discepolo l’eliminazione di una parte del suo corpo, ma una duplice trasformazione: lo spirito che gli dà vita diventa lo stesso Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti; la carne mortale diventa incorruttibile, come spiega ai corinzi rispondendo a una loro domanda in merito: Così anche la risurrezione dei morti: (il corpo) si semina corruttibile, risorge incorruttibile; si semina nella miseria, risorge glorioso; si semina nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale (lett. “psichico”), risorge corpo spirituale. […] È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità (cfr 1Corinzi 15,35-57). Nell’accezione paolina, corpo psichico è l’uomo che interpreta la realtà a partire da una sapienza umana incapace di aprirsi a quella divina – l’amore rivelato da Gesù – comunicata allo spirito umano dallo Spirito di Dio, e che quindi vive secondo la carne, ovvero fondando la sua vita sulla sua sola dimensione finita, autoreferenziale, destinata a perire. Si tratta della condizione di fondo di tutti gli uomini, in quanto incarnata nel nascere corpo psichico, incapace con le sue sole forze di vivere secondo lo Spirito, ma destinato a trasformarsi in corpo spirituale (cfr 1Corinzi 2,9-16 e Romani 8,1-10). Carne e spirito, quindi, sono due modi di vivere, di concepire la realtà, due dimensioni costitutive dell’uomo nella sua identità corporea, che le rende sensibili nella tensione e talvolta nel conflitto, ma anche nel cammino di progressiva unificazione, di cui il corpo è l’elemento di continuità.

    Comunione con l’altro

    Questa visione unitaria e continua, fondata sulla corporeità e sulla resurrezione di Gesù, permette a Tertulliano, un padre della Chiesa vissuto nel II sec., di affermare: la carne è il cardine della salvezza (De carnis resurrectione, 8,3). Ma la cultura ellenistica influenza il cristianesimo con la sua concezione dualistica dell’uomo, come un composto di due sostanze diverse, corpo e anima, di cui solo la seconda immortale e quindi da salvare dalla corruzione propria dell’altra. Mentre l’uso del greco permette a Paolo di specificare meglio la concezione ebraica della corporeità, in questo caso introduce un equivoco. Infatti vita in ebraico si dice nefeš, che significa propriamente gola, e, in senso traslato, respiro, corrispondente nell’uomo al soffio o spirito proveniente da Dio, mentre il greco usa psyché, che vuol dire anche anima e quindi può astrarre dalla diretta correlazione al corpo. Di conseguenza, la critica della carne, intesa come resistenza all’azione di Dio nell’uomo, diventa svalutazione della materialità tout court, dalla quale ci si deve liberare per vivere in pienezza.
    Se la piena realizzazione della vita umana consiste nell’amore, l’idea di raggiungerla attraverso l’eliminazione di una parte implica una concezione fusionale dell’amore, inteso come assenza di tensione con l’altro, quando in realtà si tratta di comporre in armonia gli opposti in conflitto. Così il corpo non è solo il luogo di una divisione insanabile fra carne e spirito, ma anche possibilità di esperire l’unità interiore e la comunione con l’altro, di cui la forma più immediata è quella sponsale.
    Per questo, scrivendo alle comunità cristiane di Efeso, Paolo, o qualcuno dei suoi discepoli, afferma: i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! (Efesini 5,28-32). Come si vede, una sana cura per il proprio corpo comporta un’unificazione interiore che è condizione di possibilità per la comunione con l’altro. Inoltre il termine carne, che qui indica la materia del corpo, non solo perde l’accezione negativa di realtà opposta al bene, ma è tramite di un’unione nell’amore paragonabile a quella fra Cristo e la Chiesa.
    Del resto proprio in questo senso di comunione nella diversità Paolo a più riprese parla della comunità cristiana, ricorrendo all’immagine di un insieme di membra distinte riunite in un unico corpo. È il senso metaforico della parola desunto dal greco e impiegato, ad esempio, per dirimere le controversie nate tra i primi cristiani a Corinto. Alcuni avevano il dono di parlare in lingue per azione dello Spirito santo e si ritenevano privilegiati e degni di particolare riguardo, destinati a occupare un posto di preminenza. Paolo, invece, come Gesù (cfr Marco 10,35-45), ritiene questo atteggiamento distruttivo per la vita della comunità e invita tutti a considerare i doni ricevuti come una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune, similmente alle singole parti del corpo diverse fra loro ma cooperanti al bene dell’insieme.
    1Corinzi 12,19-27
    19 Se tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? 20 Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. 21 Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; né la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». 22 Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; 23 e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, 24 mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, 25 perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. 26 Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. 27 Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.
    La metafora era nota al mondo greco-romano, a partire dall’apologo di Menenio Agrippa (V sec. a.C.), il tribuno romano che convinse i plebei, insorti contro i patrizi, a riprendere il proprio lavoro perché la Repubblica ha bisogno del buon operato di tutti, governanti e governati. Anche Platone e i filosofi stoici coevi di Paolo, come Seneca, ricorrono a questa metafora, che, conferendo al corpo il significato simbolico dell’unità, lo porta oltre il dato biologico e ne fa un paradigma della struttura sociale e politica.
    La novità introdotta dall’Apostolo consiste nel riferirla a Cristo e alla Chiesa, concepita come suo corpo vivente nella storia: la comunione e la cooperazione per il bene comune tra i membri della comunità è segno dell’unico Spirito ricevuto da tutti e operante in vari modi e scaturisce dal condividere l’unico pane, corpo di Gesù offerto per tutti (cfr 1Corinzi 10,16-17). Questo riferimento spinge la metafora oltre l’uso corrente al tempo di Paolo, perché la corporeità della Chiesa si vede nel prendersi cura delle membra più deboli.

    Il corpo: Io e Tu

    A livello sia individuale sia sociale, il corpo definisce l’identità dell’uomo e prendersene cura è una delle manifestazioni principali della fede (cfr le cosiddette opere di misericordia corporali). La cultura contemporanea lo ha fortemente valorizzato, ma spesso in chiave individualistica e utilitaristica, come oggetto da cui ricavare sensazioni piacevoli, alimentando la scissione fra l’Io e il corpo, fra sé e l’altro, invece di favorire l’unificazione della persona e la comunione con gli altri.
    Nella prospettiva biblica, invece, non si può prescindere dall’esperienza morale corporalmente vissuta e dal significato simbolico del corpo, riducendolo a puro organismo, perché contemporaneamente oggetto e soggetto, capace di sentire in sé la tensione e l’unione fra sé e l’altro-da-sé, di cui è incarnazione. Pertanto la capacità di ascoltare il proprio corpo è alla base anche dell’esperienza spirituale, soprattutto quando si presenta come limite-apertura, ovvero richiesta e possibilità di superamento a partire da una realtà non modificabile.

    (Aggiornamenti sociali - novembre 2017)


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