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    La solitudine

    al tempo della pandemia

     Eugenio Borgna


    Nel tempo del Coronavirus sono riemersi cambiamenti di vita radicali, che ciascuno di noi ha vissuto in modi diversi, condizionati dalle esperienze interiori ed esteriori, che ci hanno indotto a interrompere le nostre abituali relazioni sociali. Non siamo stati più liberi di fare scelte e ci siamo confrontati con il tema bruciante della solitudine: soli con le nostre famiglie e talora soli nelle nostre famiglie.
    Tuttavia, dal modo con cui è stata vissuta nel corso di questi mesi, la solitudine può essere stata fonte di riflessione e di silenzio interiore, di ascolto e di dialogo, di accoglienza e di docile pazienza, o invece di ribellione interiore, di una solitudine che si è convertita in isolamento, in stanchezza di vivere, in dipendenza dalla televisione e dai social network, che hanno inaridito le emozioni gentili e dialogiche, immergendoci in emozioni aride e desertiche.
    La solitudine non è l’isolamento, ci aiuta a rientrare nella nostra interiorità, alla ricerca dei pensieri e delle emozioni, delle riflessioni e delle meditazioni, che fanno parte della nostra vita. Non dovremmo mai confondere questa solitudine con quella che ci isola, e ci allontana dagli altri, con quella che spegne in noi la speranza e che dovremmo chiamare isolamento. Ci si può sentire soli, isolati, in una famiglia nella quale non ci siano dialogo, e amore, e ci si può non sentire soli in una stanza di ospedale, se siamo in comunione di cura.

    Come definire la solitudine?

    La solitudine è relazione, ed è una buona compagna nel cammino della nostra vita, anche se talora dolorosa, perché ci confronta con gli abissi della nostra interiorità. Vivere l’esperienza della solitudine significa tante altre cose: recuperare i valori della solidarietà, dell’impegno etico nella politica e del rispetto delle persone, e immergere la coscienza di questi valori in quelle che sono le azioni quotidiane della nostra vita. La solitudine ci mette in un dialogo senza fine con il passato, con la memoria vissuta, con la memoria del cuore, che è l’archivio che contiene le nostre inesauribili esperienze di vita, e i ricordi, che ci aiutano a vivere. Ascoltiamo quello che ne dice Giacomo Leopardi: «La solitudine rinfranca l’anima e ne rinfresca le forze, e massime quella parte di lei che si chiama immaginazione. Ella ci ringiovanisce. Ella scancella quasi o ristringe o indebolisce il disinganno, quando abbia avuto luogo, sia pure stato interissimo e profondissimo. Ella rinnuova la vita interna».
    Non potrei non citare anche quello che della solitudine ha scritto Romano Guardini, sacerdote e grande filosofo: «La vita rimane sana solo quando continuamente rinnova l’esperienza della solitudine, in una certa misura ciò avviene in ognuno: in modo esemplare avviene in alcuni, a nome di tutti. Nella solitudine l’uomo inserito strettamente nella trama dei rapporti della comunità si desta alla consapevolezza della sua persona»; e ancora: «Questo inoltrarsi nella solitudine, nello spazio dell’”io stesso con me stesso”, è dovere, e spesso assai pesante, poiché l’uomo viene qui in contatto con le potenze e le tensioni del suo intimo, con le esigenze incalzanti della sua coscienza».

    L’isolamento non è la solitudine

    La solitudine, come il silenzio, sono esperienze interiori che ci fanno vivere meglio la nostra vita, distinguendo le cose essenziali da quelle che non lo sono. Solo rientrando nell’interiorità, nel silenzio e nella solitudine che la contrassegnano è possibile sfuggire al fascino dell’indifferenza e della noncuranza, dell’egoismo e del deserto emozionale, realizzando i valori della donazione e della immedesimazione, della comunione e della partecipazione al destino delle persone, che la vita ci fa incontrare.
    Cosa dice Nietzsche in Così parlò Zarathustra? «Amico mio, fuggi nella tua solitudine! Io ti vedo assordato dal fracasso dei grandi uomini e punzecchiato dai pungiglioni degli uomini piccoli. La foresta e il macigno sanno tacere dignitosamente con te. Sii di nuovo simile all’albero che tu ami, dalle ampie fronde: tacito e attento si leva sopra il mare». Ma Nietzsche ha scritto cose più gentili della solitudine, come quelle che risuonano (La gaia scienza) di grazia ferita e di armonia. «Quando si vive soli, non si parla troppo forte, non si scrive nemmeno troppo forte perché si teme la vuota risonanza – la critica della ninfa Eco. E tutte le voci suonano in maniera diversa, nella solitudine!».
    Nell’isolamento diveniamo monadi senza porte e senza finestre, negati a slanci altruistici, imprigionati nei ghiacciai di un dilagante individualismo. Il compito, che ciascuno di noi ha, è quello di liberare la voce della solitudine, ammutolita dall’isolamento, e restituirle la parola. Non si riuscirà a trasformare del tutto l’isolamento in solitudine, ma è possibile passare dall’isolamento, che svuota di senso la condizione umana, alla solitudine, che la risana. Certo, la solitudine rischia a sua volta di ammalare di isolamento, e dovremmo mantenere viva in noi la presenza della speranza e dell’umanità.
    La pandemia ci ha imposta una solitudine, che si è potuta conoscere solo negli anni dell’ultima grande guerra, anche se quella di allora non era così generalizzata e consentiva almeno talora di essere interrotta, se si viveva in piccole città, lontane dai luoghi in cui la guerra lasciava tracce di violenza inenarrabile.

    Salvare la solitudine in noi

    Vorrei chiedermi come salvare in noi questa particella dell’umano, che è la solitudine, in un mondo della vita abitualmente collegato con le immagini esteriori della realtà. Sì, la condizione umana di oggi, e quella giovanile in particolare, è contrassegnata dal rifiuto della solitudine e l’incantamento per il digitale, nel quale la dimensione interiore della vita si è inaridita, lasciando un vuoto che si cerca di colmare con contatti virtuali, incapaci di lasciare tracce nella memoria, e nel cuore.
    Salvare l’oasi della solitudine in noi non è stato facile, nel tempo della pandemia, che ci ha confrontati con aspetti della solitudine così diversi. La psichiatria, quando sia psichiatria della interiorità, non può non confrontarsi con quella che è l’ultima solitudine, che la pandemia ha fatto rinascere con straziante frequenza, quella del morire e della morte, quella dell’addio alla vita.

    L’addio

    La morte non è il morire, la morte è la conclusione della vita, il morire è ancora vivere, ma in ore che non hanno più sorelle. Sì, come diceva Georges Bernanos, si muore soli, e della solitudine del morente ha scritto Norbert Elias in un suo libro lontano nel tempo, e nondimeno attualissimo. Ci sono parole che possano avere ancora un senso e possano essere di un fragile aiuto? Non lo so, e talora solo un qualche gesto ha ancora un senso: una carezza, uno sguardo che arda di dolore e di affetto, di vicinanza umana e di comunione di ideali, una preghiera che nasca dal cuore e dalla fede, e quella che San Paolo ha chiamato la speranza contro ogni speranza.
    L’ultima solitudine, l’addio, non ha parole che possano consolare se non quelle che si nutrano di speranza e di fede.
    Vorrei concludere queste mie dolorose considerazioni sulla solitudine, che il tempo della pandemia ci ha fatto conoscere, con una poesia di Emily Dickinson.

    C’è un’altra solitudine
    molti ne muoiono senza –
    non nasce dal bisogno di un amico
    o dalle circostanze della sorte
    ma dalla natura, a volte, a volte dal pensiero
    e chiunque la viva
    è più ricco di quanto mai rivelino
    i numeri mortali –

    Andiamo alla ricerca della solitudine, che è in noi in ogni circostanza della vita, e in particolare dell’ultima solitudine, che è quella dell’addio alla vita. Nello scorrere vertiginoso del tempo, che non consente facilmente meditazioni e riflessioni, la solitudine, la fragile solitudine dell’anima, è una lampada sempre accesa che illumina il nostro cammino.

    (FONTE: Notiziario della Banca Popolare di Sondrio - n. 151 aprile 2023 - pp. 116-119)


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