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    Ma l'ozio non dà solo vizi

    La concezione degli antichi e la frenesia di oggi

    Salvatore Natoli


     

    Il nostro tempo è caratterizzato dalla frenesia, dall'attivismo, dal produrre per consumare, da un consumare spesso definalizzato e perciò da un produrre per il produrre. Di qui un lavoro obbligato, costretto com'è nei ritmi della produzione, ed insieme un consumo senza gioia. A fronte dell'imperativo della produzione, mimetizzato nelle parole correnti "crescita", "sviluppo", larga parte della popolazione mondiale ha poco di che nutrirsi e in molti casi è priva del necessario per sopravvivere. Tutto ciò dovrebbe destare un qualche sospetto, dovrebbe suggerire che questo ampio e generalizzato produrre è frutto di una qualche distorsione e, ad ogni modo, la produce.
    Nel mondo contemporaneo - lo si sa - il produrre è divenuto un dovere. Il moderno ha privilegiato l'homo faber quel tipo d'uomo ove l'obbligo di produrre prevale sul libero agire.
    Una società che misura il tempo in termini di danaro ha in avversione l'ozio e per i moderni, infatti, tra ozio e miseria vi è un nesso di causa ed effetto, s'instaura una circolarità viziosa. Questa convinzione, per altro era già degli antichi: otia dant vitia. I moderni radicalizzano quest'idea, in certo senso la portano alle sue estreme conseguenze. E tuttavia il moderno nel condannare l'ozio come spreco del tempo e occasione di dissipazione mette tra parentesi - fino poi a dimenticarlo del tutto - l'otium di cui parlavano gli antichi. Quell'ozio opposto, appunto, al negotium, sottratto al giro degli affari, al circuito immediato della produzione e del consumo. L'ozio, concepito al modo degli antichi, non è infatti una fuga dal lavoro, ma, al contrario, coincide con l'agire libero e più esattamente con il modo d'agire proprio degli uomini liberi.
    L'età moderna, centrata com'è sull'etica capitalista del lavoro, ha perso di vista la concezione antica dell'ozio e in quei pochi casi in cui lo prende in considerazione lo confonde con quel che in senso lato siamo usi chiamare "svago". Una società improntata ad una logica eminentemente espansiva intende lo svago in funzione del lavoro, lo vede come una necessaria momentanea sospensione dalla fatica in vista di una migliore ripresa, di una più alta efficienza lavorativa.
    Per i moderni l'ozio ha dunque senso solo se lo si assume come una pausa - giustificata - dal lavoro e non viene invece concepito come un'attività libera, come il "tempo dell'opera", di cui cifra assoluta è l'opera d'arte. L'arte infatti è insieme lavoro, libertà/creatività, grazia. Gli uomini moderni hanno dimenticato l'idea antica di ozio e tuttavia non mancano di lamentare ad ogni momento - pavesianamente - che lavorare stanca.
    La società moderna è caratterizzata da singolari contraddizioni:
    1) ha celebrato il lavoro come mezzo d'emancipazione e di libertà e ne è divenuta vittima. Di qui lavoro obbligato e produzione non necessaria: in breve fatica e spreco.
    2) ha bandito l'ozio - massimo tra i vizi - e non riesce a garantire, come dovrebbe, lavoro per tutti. È singolare che una società nata dalla condanna dell'ozio abbia finito per generare disoccupazione. Si vede che lavora male o, in ogni caso, non come dovrebbe.
    3) infine viviamo in una società in cui si celebra il lavoro ma in genere la maggior parte di coloro che lavorano non amano affatto quel che fanno anzi lo soffrono.
    È allora necessario recuperare il valore originario dell'ozio così come lo intendevano i greci. La parola greca scholé significa riposo, quiete, soprattutto tempo libero.
    Singolare, in questo caso, è l'etimologia del termine. Taluni lo fanno risalire al verbo écho che significa "avere". Se così è, la scholé - in senso stretto - non ha altro significato che quello di avere: essa designa un possesso e propriamente quello del tempo, di un tempo tutto per sé.
    Ma l'ozio è un tempo per sé non nella forma strettamente egoistica del farsi, una volta tanto, gli affari propri. Caso mai è il negotium il luogo proprio degli affari.
    Nell'ozio, viceversa l'uomo si libera da sé, dal suo immediato interesse, non per negarsi, ma per meglio ritrovarsi, per pervenire alla più compiuta consapevolezza della sua vera condizione. Non a caso l'ozio degli antichi era caratterizzato dallo studio e soprattutto dallo studio disinteressato: non quello funzionale ai risultati immediati, ma quello necessario solo per capire. Tutto questo gli antichi lo chiamavano contemplazione. Ed è allora che si scopre davvero quello che siamo: un frammento minimo in una storia infinita, un breve respiro nella vita della terra, un'increspatura d'onda nel grande mare dell'essere.
    Il tempo dell'ozio è infine il tempo delle giuste relazioni con gli uomini. Nell'affare le relazioni umane sono spesso strumentali. L'ozio, al modo in cui favorisce un sapere disinteressato, libera spazio per l'intimità. Il lavoro non cessa mai d'essere fatica.
    Tuttavia la fatica la si sopporta e perfino la si cerca se essa si riscatta nell'opera. Se poi l'opera da realizzare e da portare a compimento siamo "noi stessi", allora dobbiamo regalarci tempo. È doveroso sottrarsi all'alienazione del produrre senza destinazione. Dobbiamo destinare a noi stessi la nostra fatica, spartirla con gli amici, dedicare il nostro tempo a quelli che amiamo.

     


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