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    «Una parola è morta
    Quando è detta –
    C'è chi dice così.
    Io dico invece
    Ch'essa comincia a vivere
    Proprio quel giorno»
    (Emily Dickinson)

    Il Dio della tradizione giudaico-cristiana è un Dio leggero. Lo dimostra anche il fatto che si è legato a quella realtà passeggera, relativa, fuggevole che è la parola. Non si è legato a quelle realtà grandi e spesso tremende che in genere erano state considerate manifestazioni del Dio. Non alle albe e ai tramonti, anche bellissimi. Non al ciclo delle stagioni, vincolato alla fertilità della terra e quindi della donna. Non alle alture, care ai baal di tutte le tradizioni religiose. Non ai grandi semidei – eroi o santi – al di sopra del livello della testa degli uomini. Non alle feste celebrazioni. Non al tremendum delle tempeste, dei terremoti, e neppure al tremendum della morte. È vero che nella storia sia giudaica che cristiana non sempre si è stati in grado di vincere la tentazione dell'idolatria: e il Dio leggero legato alla parola è spesso diventato un Dio della natura, della fertilità, delle feste, e anche i giudeo-cristiani gli hanno eretto altari sulle cime dei monti come sotto le cupole delle basiliche e lo hanno celebrato nelle disgrazie e nei cimiteri. Ma nel filone più autentico della tradizione non era così.
    Parola significa linguaggio, cultura e, quindi, storia. La parola – fiato di voce, sospiro, accenno – è quello che c'è di più labile, mutevole, precario, condizionato da mille fattori personali e sociali. La parola parlata, s'intende, che è la parola nel senso più autentico, molto più autentico della parola scritta. E il Dio della tradizione giudaico-cristiana era legato alla parola parlata, detta, raccontata, narrata, non scritta. Soltanto più tardi, attraverso un processo molto complesso, la Bibbia è diventata parola scritta. La parola parlata è fragile: è proprio il contrario di tutto quello che può essere fisso, immutabile, dogmatico, definito e definitivo.
    La parola parlata è anche legata ad un rapporto interpersonale: non ha senso se non in quel filo tenue e fragilissimo che lega un io a un tu. Corre sul filo dei rapporti umani, là dove, appunto, ci si parla: sul filo dell'amore o dell'amicizia o della compagnia, si dica come si vuole. Non ha luogo, la parola, fra avversari, là dove non ci si parla. A questo filo interpersonale – tutt'altro che «oggettivo», nel senso filosofico del termine – è legato il Dio-parola della Bibbia.
    Anche quando è presentato creando – una presentazione che si prestava più di ogni altra ad un Dio totale e potente – il Dio biblico «disse»: dire è la sua carta d'identità, anche in un momento scarsamente specifico – se si vuole – della tradizione giudaico-cristiana, quale è quello creativo, cosmico. Nel momento, poi, più tipico, il Dio biblico è Dio dell'«alleanza»: tesse il tenue filo di un rapporto di amicizia-amore, come gli amici, i fidanzati, gli sposi (sono le similitudini di cui la Bibbia è piena). E sa bene, la Bibbia, che questo filo è continuamente soggetto ad essere spezzato e, forse, ricucito.
    Avere fatto di questo Dio della parola un Dio dogmatico, totale, assoluto, definitorio, immutabile significa avere tradito uno degli aspetti più interessanti della tradizione.
    Il tradimento è dovuto alla triste sorte che è toccata alla parola nella nostra cultura: cultura della parola scritta, della parola divenuta da povera ricca, da debole potente, da mutevole fissa. Nel mondo moderno, infatti, la parola è divenuta strumento di potere, come il denaro. Chi la maneggia meglio, domina e sfrutta; chi ne possiede di più opprime chi ne possiede di meno. La parola non è più il tenue filo che lega le persone fra di loro: più che unire, divide. È violenta, concorrenziale, competitiva; serve o a opprimere o, spesso, a non dire più niente, a non comunicare. Basti pensare alle parole potenti dei mass media, che servono ad ottenere il consenso quasi più dei denari e dei favori distribuiti ai votanti; basti pensare, d'altra parte, alle parole vuote di Jonesco. E così il Dio-parola – il Dio-verbo della tradizione giudaico-cristiana – è divenuto o un Dio opprimente e padrone o un Dio insignificante e vuoto. Il filo sottile del dire fra persone si è dissolto o nel comando o nella chiacchiera. Comando e chiacchiera sono il contrario del dire – e più che mai del dire biblico – ma sono diventate l'essenza del parlare moderno, dalla TV alla politica, alla fabbrica, alla scuola, alla famiglia.
    Ne ha fatto le spese proprio la Bibbia, parola sottile di Dio. Ne hanno fatto le spese anche tutti quei cattolici che negli ultimi decenni, prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II, si sono riaccostati alla parola di Dio. Erano stati i protestanti a mantenere viva, negli ultimi secoli, la tradizione della parola. Ma anche il protestantesimo ha dovuto subire il peso della cultura borghese che stava facendo della parola uno strumento di potere. La parola della Bibbia, così, finiva per oscillare fra una lettura da Mille e una notte e una lettura alla lettera, fissata, immutabile, morta. I cattolici, così, si sono riaccostati ad una parola in piena crisi di perdita d'identità e di vitalità. Hanno rischiato di passare da un'autorità all'altra, da un papa all'altro, da un anonimato all'altro, da un codice all'altro.
    Non è facile, per noi uomini di una cultura in cui la parola è privilegio, tornare al Dio povero della parola biblica, al Dio parlato. Non basta recuperare la Bibbia o riappropriarsene: si rischia di riappropriarsi di un cadavere, entrando nel giro di interpretazioni sempre più raffinate e aggiornate, ma non vitali. La Bibbia va non tanto letta meglio, quanto narrata con le nostre parole, le parole dei nostri poveri tentativi di comunicazione: le parole dei nostri poveri amori e perdoni, dei nostri miseri sforzi per ricucire le alleanze di oggi. Le nostre invenzioni di parole che non siano né comandi né chiacchiere. In questo sforzo di riscrivere quotidianamente la Bibbia, che è l'unico modo per accostarci al Dio della parola, ci può giovare la grande tradizione ebraica dei midrashim, i racconti che ridicono, in mille modi diversi, il fatto di Abramo e Isacco, o di Giobbe, o di Mosè. O di Gesù. Non ripetendoli pedissequamente, né semplicemente aggiornandoli. Dire è sempre inventare: anche dire Dio.
    È stata la cultura positivista a impedire l'accesso al Dio-parola della tradizione giudaico-cristiana. Il positivismo ha nuociuto a questa tradizione molto più di qualsiasi marxismo. La parola positivista ha perso ogni dimensione poetica: ha perso la possibilità di alludere, di rinviare, di accennare, di segnalare. La parola positivista è diventata come il «sì-no» (lo zero-uno) dei calcolatori, senza poesia. Proprio come le definizioni complete, tutte fatte, esaurienti ed esaurite, care a tutti i poteri di turno. La parola non è più stata invenzione, creatività, poesia.
    Non ci si può riaccostare alla Bibbia se non si è in grado di leggere poesia: questo è uno dei maggiori problemi di fronte ai quali si trova la trasmissione della tradizione giudaico-cristiana in un tempo tecnico-industriale come il nostro, con una scuola sempre più tecnica e sempre meno poetica, come la nostra. Poesia – è chiaro – non vuol dire capacità di elucubrazione intellettuale ed elitaria, al contrario. Vuol dire, in questo caso, capacità di meraviglia, di stupore, vuol dire capacità di percepire la direzione verso cui il segno rinvia, vuol dire capacità di inventare. Quei famosi occhi da bambino, di cui parla ripetutamente la nostra tradizione.
    Ma poesia non vuol dire contemplazione passiva, a braccia incrociate. Poesia, fin dal greco antico, vuol dire fare, operare, agire. Pronuncia parole poetiche solo chi passa dal dire al fare. La parola biblica è poesia non soltanto per la bellezza poetica dei Salmi, del Cantico dei cantici e di mille altri brani: lo è soprattutto perché è una parola che non sta ferma, vuota, ma rinvia sempre ad una prassi che la verifica e la invera. La verità della parola non sta in una teorica «adeguazione del concetto con la cosa», come diceva la scolastica: sta in una continua adeguazione della prassi con la parola. «Disse» e «così fu», fin dal momento iniziale della creazione. L'autentica ermeneutica della tradizione giudaico-cristiana è un' ermeneutica ben lontana da quella della cultura borghese e positivistica.
    Di fronte ad una cultura che ha trasformato la parola in comando o chiacchiera, solo la prassi può ridare senso alla parola, solo la prassi può far rivivere la poesia. «Come posso sapere che due persone intendano la stessa cosa quando entrambe dicono di credere in Dio? Ed esattamente lo stesso si può dire se si tratta delle tre Persone della Trinità. La teologia che insiste sull'uso di certe parole e frasi e ne bandisce altre, non spiega nulla (Karl Barth). Essa gesticola, per così dire, con le parole, perché vuol dire una certa cosa e non sa esprimerla. La prassi dà alle parole il loro senso» [1].
    Solo la prassi, dunque, può costituire-rappresentare-essere una verifica di quella parola poetica che è Dio. Solo la prassi poetica può rispondere – a modo suo, non alla maniera positivistica – alla domanda antica su Dio.

    NOTE

    [1] Ludwig WITGENSTEIN, Pensieri diversi, Adelphi, Milano, 1980, p. 155.

    (da: Abramo contro Ulisse. Un itinerario alla ricerca di Dio, Claudiana 2003, pp. 41-45)


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