René Girard
Riflessioni nel centenario della nascita
Intervista a Bernard Perret, a cura di Youness Bousenna
In occasione del centenario della nascita di René Girard (1923-2015), Bernard Perret, socio- economista, riflette sul pensiero complesso e sulla controversa eredità dell’antropologo cattolico, che considerava il sacro e la cultura come creazioni miranti a scongiurare la propensione umana alla violenza.
René Girard avrebbe compiuto cent’anni quest’anno. Questo centesimo anniversario offre l’occasione per riflettere sull’opera e sull’eredità di questa importante figura intellettuale dell’ultimo mezzo secolo, deceduta nel 2015. Mentre il filosofo Benoît Chantre gli dedicherà una biografia di 1200 pagine (René Girard, in uscita il 13 settembre, ed. Grasset), l’ingegnere e socio- economista Bernard Perret ha completato Violence des dieux, violence de l’homme. René Girard, notre contemporain, ed. Seuil), un saggio nel quale questo membro del comitato di redazione della rivista Esprit, già autore di Penser la foi chrétienne après René Girard (Ad Solem, 2018), ci consegna una appassionante “sintesi critica” su un’opera insieme magistrale e criticabile.
A otto anni dalla sua scomparsa, quale posto occupa René Girard nel paesaggio intellettuale?
La sua influenza è mondiale, anche se lo si ignora in Francia. È letto e commentato in tutti i continenti, particolarmente negli Stati Uniti, dove si è svolta tutta la sua carriera universitaria [Vi si è espatriato fin dal 1947 per la sua tesi e ha insegnato all’università di Stanford a partire dal 1981]. Vi è una rete di ricercatori molto attivi sui differenti ambiti della sua opera, dalla psicologia mimetica all’antropologia religiosa, senza dimenticare l’etnologia e gli studi letterari.
Rispetto a questo dinamismo, Girard occupa uno spazio limitato nel paesaggio intellettuale francese, dove una conoscenza superficiale della sua opera lo associa vagamente alle nozioni di capro espiatorio e di desiderio mimetico. Gli intellettuali importanti che si rifanno al suo pensiero – come Jean-Pierre Dupuys, Paul Dumouchel e Benoît Chantre – sono rari, e poche tesi sono dedicate a lui.
La sua figura è tenuta in considerazione negli ambienti intellettuali conservatori, cosa che si spiega abbastanza bene per il suo cattolicesimo informale e il suo pessimismo apocalittico, unito a temi connotati a destra, come l’indebolimento delle istituzioni e la perdita delle differenze simboliche. Ma non c’era in lui alcuna idealizzazione del passato. E qualsiasi recupero politico del suo pensiero è un controsenso.
Neanch’io cerco di riappropriarmene, anche se una delle finalità del mio libro è ricentrare discretamente la sua eredità intellettuale, mostrando perché e in che senso egli sia imprescindibile, anche per dei “progressisti”.
La sua opera si articola attorno all’analisi del sacro e della cultura, considerati come creazioni miranti a scongiurare la propensione umana alla violenza. Che cosa gli ha ispirato questo tipo di approccio?
Questo gesto teorico decisivo si radica nella sua biografia. René Girard, che aveva 20 anni durante la seconda guerra mondiale, riconosceva di essere stato abitato fin dalla giovinezza da un sentimento apocalittico. Questo prisma lo orienterà verso una visione disincantata del desiderio e dei miraggi della modernità e, ulteriormente, verso l’ipotesi innovatrice di una origine congiunta del sacro e della cultura come risposta ad un rischio strutturale di autodistruzione violenta dei primi gruppi umani.
È studiando la letteratura che René Girard ha costruito il primo stadio della sua opera. Qual è i’importanza del suo primo libro, “Menzogna romantica e verità romanzesca” (1961), in cui getta le basi del suo pensiero sul desiderio mimetico?
Lavorando su Cervantes, Dostoïevski, Stendhal, Balzac, Proust e Flaubert, Girard si rende conto che questi autori condividono una stessa visione del desiderio, e della propensione dell’essere umano a fissarlo su oggetti indicati da un mediatore (una pubblicità, una persona che si ammira, un rivale…).
Ad esempio, in Madame Bovary, di Flaubert (1857), il personaggio di Emma imita il comportamento delle eroine dei romanzi popolari che divora; Julien Sorel, in Il rosso e il nero, di Stendhal (1830) è ossessionato dalla figura di Napoleone, di cui cerca di imitare il comportamento; Don Chisciotte di Cervantes (1605) vuole anch’egli eguagliare gli eroi della cavalleria. Così, il desiderio mette in gioco il triangolo formato dal soggetto, dall’oggetto e dal mediatore: l’individuo non desidera l’oggetto perché è buono e desiderabile in sé, ma perché è desiderato da un altro, il mediatore.
Malgrado lo schematismo con il quale arrivava a formularlo, il pensiero di Girard sul desiderio è complesso. Ciò che bisogna notare è che quelle interferenze mimetiche esacerbano gli appetiti, le pulsioni e i bisogni preesistenti, e conferiscono al desiderio il suo carattere specificamente umano, la sua energia creativa e la sua pericolosità.
La focalizzazione di Girard sulla violenza lo ha portato a mettere l’accento sul fatto che il desiderio diventa rivalità quando il mediatore diventa egli stesso ostacolo e concorrente. Tutto parte dall’idea che, in società senza istituzione giudiziaria, le rivalità mimetiche sono suscettibili di esacerbarsi fino a provocare un’esplosione di violenza contagiosa, capace di distruggere qualsiasi comunità.
Come svilupperà, in seguito, la sua teoria sull’origine violenta del sacro e sul senso del “capro espiatorio”?
La violenza appare solo in filigrana in Menzogna romantica e verità romanzesca. Soltanto undici anni dopo, in La Violenza e il sacro (1972), René Girard, nel frattempo nutrito da una vasta letteratura etnologica e storica, espone la sua ipotesi centrale sull’origine violenta del sacro, che fa del sacrificio la prima risposta data dagli esseri umani al problema della violenza.
I primi sacrifici sarebbero stati, all’origine, la ritualizzazione di un procesos di soluzione di una crisi di violenza mimentica. Lo schema è il seguente: un chaos violento (tutti contro tutti) porta alla polarizzazione di questa violenza su un individuo particolare (la “vittime emissaria”), poi alla messa a morte di tale vittima. Ne segue un ritorno alla calma, seguita da un sentimento di unanimità e talvolta da una mitificazione della vittima.
Uno dei “tours de force” di Girard riguarda la sua analisi dei miti. Iniziata in La Violenza e il sacro, poi in Delle cose nascoste fin dalla creazione del mondo (1978), viene ripresa con una argomentazione più serrata in Il capro espiatorio (1982). Vi esplicita una interpretazione dei miti e dei riti che si oppone a quella di Claude Lévi-Strauss (1908-2009): a differenza di quest’ultimo, René Girard sostiene che essi non sono costruzioni arbitrarie dello spirito umano, ma lontane eco della violenza fondatrice.
René Girard non ha mai chiarito le sue basi metodologiche, né alimentato la sua antropologia con un lavoro sul campo. Questi rimproveri che hanno potuto essere formulati contro di lui sono validi secondo lei?
Criticare la vaghezza epistemologica di Girard è giustificato, perché nel suo lavoro ci sono degli “impensati” e delle scelte che richiedono di essere esplicitate. La sua forza, cioè l’ampiezza e la coerenza del suo sistema, non è senza contropartite: il fatto di aver inserito una teoria del desiderio e della violenza in una teoria dell’origine della cultura si rivela, a seconda dei casi, fecondo oppure portatore di serie limitazioni. Questo porta a considerare in una prospettiva molto particolare realtà umane come i conflitti, la sessualità, i fenomeni di dominio e di violenza sistemica, o perfino la vita spirituale, col rischio di cancellare la loro complessità.
Il suo pensiero si fonda anche su fondamenti controversi, come fare della violenza primitiva una invariante antropologica o postulare l’universalità della nozione di sacro, che pure era stata “provincializzata” dall’antropologia critica delle religioni come una creazione nata dalla sola cultura cristiana. L’opera di René Girard non è forse stata “distorta” dal suo etnocentrismo?
René Girard assumeva una forma di etnocentrismo e pretendeva perfino di darle un fondamento razionale: per lui, la nostra attitudine a decostruire i miti procede da una innovazione culturale che si è prodotta in Occidente. È perché noi non crediamo più alla colpevolezza dei nostri capri espiatori che siamo diventati capaci di reperire e analizzare i meccanismi persecutori nelle nostre società. Per lui, il fatto stesso che l’espressione “capro espiatorio” sia diventata una metafora compresa da tutti testimonia questa capacità.
Un altro indice di questa eccezione occidentale è lo spazio dato alla cura delle vittime nei nostri dibattiti. Girard non mancava mai di osservare che si tratta di un indicatore delle società influenzate dal cristianesimo.
Quanto al sacro, è proprio affrontandolo sotto il prisma della violenza che Girard sfugge al sospetto di “provincialismo”. È un fatto sconcertante, quando si legge per la prima volta La violenza e il sacro: non vi si trova mai una caratterizzazione fenomenologica del sacro – a quale tipo di esperienze soggettive e di visioni del mondo corrisponde.
Si può considerare questo come una mancanza, ma potrebbe anche essere paradossalmente la grande forza del suo approccio. Definendo il sacro a partire dalla violenza come “l’insieme dei postulati ai quali lo spirito umano è portato dai transfert collettivi sulle vittime riconciliatrici, al termine delle crisi mimetiche”, si situa al di qua della diversità delle concezioni e delle sensibilità spirituali, dove la questione dell’etnocentrismo non si pone.
René Girard fa della Bibbia, e in particolare dei Vangeli, un evento inedito nella storia dell’umanità, che fonda la singolarità della religione cristiana. Qual è l’originalità della sua lettura su questo punto?
Per lui, la novità fondamentale introdotta dai racconti della morte di Gesù nei Vangeli non riguarda i fatti che sono riferiti – un linciaggio, come se ne sono prodotti di innumerevoli nel corso della storia -, ma il modo di farne un racconto. Per la prima volta, un processo di capro espiatorio viene raccontato dal punto di vista di una vittima unanimemente rifiutata dalla sua comunità. Questo modo di narrazione, inedito secondo Girard, fa dei Vangeli una “rivelazione” nel senso antropologico e svelamento della logica della vittimizzazione che regge l’ordine sociale.
Tanto più che l’insegnamento morale e il comportamento di Gesù sono coerenti con quello svelamento e vi contribuiscono – quando si oppone, ad esempio, alla lapidazione della donna adultera. Per Girard, l’asse del cristianesimo è il superamente del modo “sacrificale” di gestione della violenza e l’instaurazione di un rapporto esente da violenza e da rivalità, con Dio e con i nostri simili.
A questo riguardo, una nuova mancanza di chiarezza sul pensiero di René Girard, lui stesso cattolico: come distinguere la dimensione scientifica dalla dimensione apologetica della sua visione, che si basa su un evoluzionismo che si estende dalle società primitive, immerse nella violenza, fino al cristianesimo come stadio superiore di civilizzazione, attraverso la sua attitudine a regolare la violenza?
Questa mescolanza di generi presta il fianco alla critica, è innegabile. Si può rimproverare a Girard di non aver mai cercato di chiarire i rapporti tra l’antropologia e il pensiero religioso. Articolare senza confusione questi due modi di rapportarsi al reale è un compito filosofico a cui Girard non si è mai dedicato. Difendeva piuttosto una sorta di continuità tra la scienza e la religione, sostenendo che i grandi testi religiosi (soprattutto, per lui, le scritture giudeo-cristiane) e l’antropologia mimetica si chiariscono reciprocamente, il che certo non può soddisfare un filosofo legato all’autonomia della ragione.
Col tempo, il pessimismo apocalittico di René Girard ha occupato uno spazio crescente. Perché lei prende le distanze da questo aspetto del suo pensiero, ritenendo che dovrebbe essere “formulato in maniera meno deterministica”?
Girard vedeva il cristianesimo come un principio di sovversione che minava la legittimità delle istituzioni, e ne deduceva che l’umanità si avvicina ad un momento di verità in cui dovrà scegliere tra l’autodistruzione violenta e una conversione alla non-violenza radicale – cioè, per lui, all’amore cristico.
Achever Clauseviz (2007) scritto nel contesto del dopo-11 settembre 2001, è ad esempio caratterizzato dalla convinzione che la violenza jihadista nasce dal risentimento rivalitario contro l’Occidente, che porta in germe lo scatenamento di una violenza incontrollabile. Le dighe costruite per proteggersi dalla violenza, a cominciare dal diritto e dalla concorrenza commerciale che sono alla base del capitalismo, secondo lui stavano raggiungendo i loro limiti.
Considerando l’attualità, non posso dire che quel pessimismo sia esagerato, anche se tale profezia di un aggravamento ineluttabile della violenza non mi sembra ben fondato. Se la nostra situazione è apocalittica è perché l’intensificazione delle interdipendenze e le costrizioni di sopravvivenza collettiva, in particolare ecologiche, ci obbligano a superare nuove tappe nella costruzione di un ordine umano non violento, e nulla garantisce che ne saremo capaci.
(FONTE: “www.lemonde.fr” del 9 luglio 2023 - traduzione: www. finesettimana.org)