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     Dante

    nelle arti figurative

    Carmelo Ciccia *

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    Innumerevoli sono stati attraverso i secoli gl’illustratori di Dante e delle sue opere, particolarmente della Divina Commedia, la quale certamente si presta a ciò per la molteplicità e varietà di situazioni, personaggi e riferimenti; sicché volerne fare una rassegna completa, magari ragionata, non è assolutamente possibile: infatti è raro che un artista qualsiasi non abbia avvertito la suggestione del poema dantesco. Però, a causa di conoscenze inevitabilmente limitate, qui si possono indicare soltanto alcuni artisti, collocati in ordine cronologico di nascita; mentre vengono trascurati quelli che si sono dedicati a Dante occasionalmente, magari con una sola opera in cui hanno trasposto l’episodio dantesco più “gettonato”, e cioè quello di Paolo e Francesca (Inf. V): è il caso di Jean-Auguste-Dominique Ingres, Ary Scheffer, Anselm Feuerbach, Felice Giani, Marie-Philippe Coupin de La Coupierie, Mosè Bianchi, Giuseppe Frascheri, Clemente Alberti, Domenico Purificato, Emilio Greco, Gigino Falconi, Alba Gonzales, ecc.

    Primo illustratore ante litteram del poema dantesco può essere considerato Gioacchino da Fiore (Célico, CS, circa 1130 - Canale di Pietrafitta, CS, 1202), il quale a priori disegnò per i suoi fini simbolico-didascalici parecchie figure da cui poi Dante trasse ispirazione per alcune sue famose immagini. Ne discende che i testi della Divina Commedia, specialmente quelli commentati per le scuole, devono essere corredati di tali figure, comprese nel Liber figurarum e in altre opere di Gioacchino: e ciò, per una migliore intelligenza di vari canti: ad esempio, la figura dell’aquila illustra Par. XVIII-XX e quella dei “tre giri / di tre colori e d’una contenenza” illustra Par. XXXIII 115-120. [Carmelo Ciccia, Dante e le figure di Gioacchino da Fiore, in Atti della Dante Alighieri a Treviso, a cura di Arnaldo Brunello, vol. II, Ediven, Venezia-Mestre, 1996, pagg. 86-111).

    Il più antico ritratto di Dante (che regge un libro spalancato), d’ignoto pittore, è affrescato nel Palazzo dell'Arte dei Giudici e Notai di Firenze, dove il divino poeta appare diverso da come l’iconografia tradizionale ce l’ha tramandato: in pratica egli ha il naso lungo, ma non aquilino; e non è nemmeno accigliato. L’opera è piuttosto deteriorata.

    Uno dei primi commenti alla Divina Commedia è quello del figlio del divino poeta Jacopo Alighieri ed altri (sec. XIV), il quale presenta delle illustrazioni ingenue, come questa in cui si vedono Dante e Virgilio davanti alle tre Erinni, che, “sotto il velame delli versi strani”, minacciano di far pietrificare da Medusa l’intruso visitatore vivente (Inf. IX).

    Il commento di Guido da Pisa (sec. XIII-XIV) presenta delle illustrazioni in cui i personaggi danteschi sono di proporzioni inadeguate, come nel caso dell’incontro di Dante e Virgilio (effigiato come un barbuto saggio antico) con Farinata degli Uberti  e Cavalcante dei Cavalcanti (Inf. X), questi ultimi piccoli come due bambini.

    Il primo ritratto di Dante eseguito da un celebre pittore è quello dipinto da Giotto (Vespignano, FI, circa 1267 - Firenze 1337) in un affresco del palazzo del Bargello di Firenze. Il volto, pur con qualche traccia d’alterigia, mostra la coscienza di sé e la fermezza di chi è chiamato a grandi imprese e sta per affrontarle impavido.

    E probabilmente fu Bartolomeo di Fruosino (Firenze circa 1366-1441) il primo artista conosciuto ad illustrare un episodio della Divina Commedia in una sua opera, che nella fattispecie è “Dante e Virgilio con Guido da Montefeltro tra i falsi consiglieri”: Egli – oltre che pittore specialmente d’arte sacra – fu anche miniatore e ritrattista, trattando vari generi artistici.

    Giovanni da Modena (Modena circa 1336-1455) fu un pittore molto attivo a Bologna, nella cui chiesa di S. Petronio (cappella Bolognini) lasciò un terrificante affresco dell’Inferno, inquadrato nella teologia cristiana dei tre regni dell’Aldilà. In esso, distaccandosi dal dettato dantesco, l’artista si rifece a varie “visioni” medievali: ad esempio, in Dante non ci sono peccatori impiccati per i testicoli, ma questo dato fu derivato dalla visione di frate Alberico di Montecassino (sec. XI). L’affresco in questione è stato oggetto di contestazione, a volte violenta, da parte di mussulmani, poiché – come descritto da Dante in Inf. XXVIII 22-63 – vi è rappresentato Maometto orribilmente tormentato dai diavoli. Tuttavia i contestatori ignorano che Dante pose Maometto (e suo genero Alì) nell’inferno fra gli scismatici perché nel Medio Evo si riteneva che egli fosse stato un cardinale divenuto apòstata per il fatto che, aspirando a diventare papa, non era stato eletto a tale carica.

    Poi vanno ricordati i codici, che con splendide miniature, illustrano la Divina Commedia, a volte contenendo anche ritratti di Dante: ad esempio il cod. Templ. del sec. XIV (bibl. Laurenziana, Firenze) e il cod. Riccardiano 1040 del sec. XV (bibl. Riccardiana, Firenze), quest’ultimo probabilmente miniato da Giovanni Del Ponte (o Giovanni di Marco, Firenze 1385-1437), che mette in risalto particolarmente il naso aquilino e la fronte corrugata del poeta. Alla fine del sec. XIV risale il cod. Estense conservato nella Biblioteca Estense di Modena e pubblicato nel 1995 presso Priuli e Verlucca: la preziosità dell’opera è dovuta non solo all’antichità, alla qualità della carta e alle vicende storiche del manoscritto, ma anche alle delicate miniature che lo accompagnano e illustrano.

    A sua volta il codice Vaticano Urbinate 365 del sec. XV, copiato a Urbino e miniato a Ferrara, è uno dei più importanti per le sue illustrazioni. Qui si vede l’inizio della Divina Commedia con Dante, Virgilio e le tre fiere della selva oscura.

    Domenico Di [o DelMichelino (Firenze 1417-1491) realizzò la grande tavola “L’allegoria della Commedia” del 1465 (cattedrale di S. Maria del Fiore, Firenze), in cui è Dante stesso che, accanto alla sua città, spiega la visione dei tre regni dell’aldilà, fra cui campeggia nello sfondo il monte del purgatorio, come un’odierna gigantesca torta nuziale che ha al culmine gli sposi Adamo ed Eva.

    Andrea del Castagno (Castagno di San Godenzo, FI, 1421 – Firenze 1457) nel suo ciclo di ritratti d’uomini illustri ci ha lasciato un Dante imponente, sereno ma deciso, che sembra balzare fuori da una struttura architettonica e tiene in mano un libro semiaperto. La didascalia dice: “Dantes di Alegieris Floretini”.

    Baccio Baldini (Firenze circa 1436-?) fu un orefice e incisore che illustrò Dante in numerose tavole interpretative. Preferì scene affollate, movimentate e intricate, come quella sulla riva del Flegetonte. Inoltre lasciò disegni di pianeti, di vicende medievali e d’impari lotte fra donne e demoni.

    Sandro Botticelli (Firenze 1445-1510), oltre che un ritratto di Dante, ci ha lasciato la prima illustrazione organica della Divina Commedia. Pur con una timida ispirazione rinascimentale, individuabile ove consentito dai soggetti, in questa produzione di solito domina una leggerezza di segno quasi adombrante la metafisicità dell’ambiente e l’etereità dei personaggi; ma a volte (ad esempio nel “Lucifero”) viene espresso un realismo terrificante degno delle miniature medievali. Occorre precisare che essa è considerata una produzione botticelliana minore, esile e fragile, importante solo per i dantisti, tanto che è addirittura meno famosa di quella del Doré. Va ricordato, quindi, che il Botticelli è principalmente autore di grandiose opere mitologico-allegoriche come “La nascita di Venere” e “La Primavera”, quest’ultima recentemente identificata con la mitica Ibla, località e dea della Sicilia. [Carmelo Ciccia, Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’arte, Pellegrini, Cosenza, 1998, e Il Pervigilium Veneris e la Primavera del Botticelli, Zoppelli, Treviso, 1997-98.]

    Luca Signorelli (Cortona, AR, 1445/1448-1523) lasciò nel duomo d’Orvieto una serie di grandiosi affreschi illustranti i tre regni dell’aldilà. C’è un prevalere del nudo in ardite soluzioni mai tentate fino ad allora, con ammassamenti osceni o grotteschi di dannati, particolari anatomici e scarso risalto del significato religioso: migliore riuscita espressiva si ha nei piccoli quadri in monocromato dello zoccolo con episodi o personaggi danteschi. Molto noto e interessante è invece il suo ritratto di Dante “laureato” e intento a leggere.

    Alla Divina Commedia vanno ricondotti alcuni lavori di Michelangelo Buonarroti (Caprese, AR, 1475 - Roma 1564) quali “Il giudizio universale” e specificamente alcune figure mitologiche come Caronte (Cappella Sistina del Vaticano). L’artista fu accusato d’oscenità e paganesimo, e perciò si procedette a forzosi rimaneggiamenti, ma dopo si capì il valore della sua arte. Si può dire che egli trasse dal poema dantesco la terribilità di certe situazioni e la posa statuaria di certi personaggi, che a sua volta fece risaltare.

    Raffaello Sanzio (Urbino, PU, 1483 - Roma 1520) ci lasciò un Dante sdegnoso nel famoso affresco della “Disputa del Sacramento” delle Stanze Vaticane, ponendogli in capo anche lui quella corona d’alloro tanto desiderata dal Poeta, ma che la sua città mai gli concesse.

    Agnolo Bronzino (Monticelli, FI, 1502 - Firenze 1572), noto ritrattista dai capelli del color del bronzo, dipinse moltissime opere sacre e mitologiche, queste ultime vicine a quelle del Correggio, e ci lasciò un ritratto di Dante simile a quello del Signorelli, ma con un naso più accentuato.

    Giorgio Vasari (Arezzo 1511 - Firenze 1574) fu architetto, pittore e storico dell’arte che scrisse una famosa opera sulle vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti: importante documentazione per il suo e anche per il nostro tempo. Fra le sue opere pittoriche, illustranti anche episodi storici, lasciò un’immagine di Dante sapiente, rispettato e ammirato dagli astanti.

    Anche gli stranieri rivolsero presto la loro attenzione al mondo dantesco: il fiammingo – ma operante a Firenze – Jan van der Straet, detto Giovanni Stradano/Della Strada (Bruges, B, 1523 - Firenze 1605) lasciò una serie di disegni danteschi (in cui è interessante l’architettura dei cerchi infernali) nella biblioteca medicea laurenziana, oltre che degli arazzi a Palazzo Vecchio. Lavorò anche a Roma, decorando il Belvedere vaticano.

    Federigo Zuccaro o Federico Zuccari (Sant’Angelo in Vado, PU, 1540 - Ancona 1609) connotò col fratello Taddeo la vita artistica romana. Dopo essere riuscito brillante in altre sue opere per la chiara impostazione architettonica, l’armonia delle decorazioni e la ricchezza cromatica, illustrò la Divina Commedia in una serie di grandi tavole che vanno da 43 x 59 a 48 x 149 cm. e che recentemente sono state riprodotte in un volumone di gran lusso (e gran costo) della casa editrice Salerno di Roma. Le tavole (per lo più a matita rossa e nera, ma anche a penna e acquerello) comprendono anche citazioni di versi e didascalie autografe, in cui il pittore cerca di mettere in luce la straordinaria forza espressiva di Dante. In tale lavoro, realizzato quando si trovava all’Escorial dov’era stato chiamato dal re Filippo II di Spagna, egli utilizzò anche alcuni dei suoi soggetti con cui aveva affrescato la cupola di Santa Maria del Fiore di Firenze (in minor parte precedentemente affrescata dal Vasari), riuscendo tuttavia mediocre nel suo fiorentino Giudizio universale. Era un manierista eclettico: per certi versi i suoi disegni cercavano di ripescare la tradizione classica; e, se da una parte egli operava nell’ambito della Controriforma cattolica, dall’altra il suo studio del naturale, con influssi della scuola veneziana, preludeva alla crisi del manierismo verificatasi a cavallo dei due secoli. Certamente la sua illustrazione dantesca ha un respiro grandioso, anche dal punto di vista architettonico, perché sa cogliere non solo le vicende ma anche le tensioni del testo poetico, ottenendo un risultato artistico che fino al 1908 non era stato uguagliato, se quell’anno Corrado Ricci poteva definirla “la maggiore e più interessante illustrazione dantesca che l’Italia abbia mai prodotto”. Per convincersene basterebbe guardare il nobile castello del limbo, la mistica processione del paradiso terrestre e la visione finale del paradiso.

    Fra le edizioni cinquecentine della Commedia vanno ricordate per la loro importanza quella curata dal lucchese Alessandro Vellutello, stampata a Venezia nel 1544 dal tipografo Francesco Marcolini, al quale sono attribuite le numerose illustrazioni di stile fiabesco e – si direbbe – naïf, e quella curata da Cristoforo Landino (Firenze 1424 - Pratovecchio, AR, 1498) e dallo stesso Vellutello, stampata a Venezia dagli eredi di Francesco Rampazzetto nel 1578 e che contiene anch’essa numerose incisioni in legno, fra l’altro indicanti le immaginarie misure degli ambienti e oggetti danteschi.

    Giuseppe Salerno (Gangi, PA, 1570 - ivi 1633), uno dei due pittori detti “lo Zoppo di Gangi” che lasciarono centinaia di pregiate opere in Sicilia e comunemente sono considerati fra i migliori e più rappresentativi artisti dell'Isola (l’altro “Zoppo di Gangi” era Gaspare Bazzano o Vazzano), dipinse un grandioso Giudizio universale (Gangi, chiesa madre di S. Niccolò), permeato di reminiscenze dantesche e contenente i tre regni dell’aldilà: fra l’altro, in inferno ci sono i morti che risorgono, Caronte con la barca piena di dannati (fra cui un vescovo), diversi impiccati in varie posizioni e un dannato capofitto in un pozzetto di fuoco; in purgatorio le anime, suddivise in sette schiere custodite e guidate ciascuna da un angelo, salgono pregando verso la porta del paradiso, su cui spicca una scritta con l’invito evangelico Venite, benedicti Patris mei, cioè al completo “Venite, o benedetti del Padre mio; prendete possesso del Regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (Matteo XXV 34 e Purg. XXVII 58); e in paradiso ci sono la gloria di Cristo Giudice, la Rosa dei beati e l’autoritratto del pittore nel volto di S. Pietro. Il Salerno è sepolto nella chiesa della Madonna della Catena di Gangi, che per questa straordinaria opera è detto “il paese del Giudizio universale”.

    Lo svizzero Johann Heinrich Füssli (Zurigo 1741 - Putney Hill, GB, 1825) fu letterato e pittore neoclassico, ma precursore (piuttosto stravagante) del romanticismo e docente di pittura nella londinese Royal Academy. Preferì i soggetti di forte impatto visivo, come gesti violenti e simili. Illustrò personaggi (come Paolo e Francesca) ed episodi danteschi, e s’interessò anche del Leopardi.

    L’inglese John Flaxman (York 1755 - Londra 1826) fu a Roma il più apprezzato interprete straniero del neoclassicismo. Illustrò l’Iliade, l’Odissea, la Divina Commedia e le tragedie di Eschilo. Fu membro della londinese Royal Academy. Le sue illustrazioni, semplici ed evanescenti, a volte esprimono un vero e proprio semplicismo, come nell’interpretazione dei tre cerchi divini di Par. XXXIII 115-120, di cui s’è detto a proposito di Gioacchino da Fiore.

    Il pittore e incisore (oltre che poeta) inglese William Blake (Londra 1757-1827) riversò nei suoi disegni preparati per la Divina Commedia il senso mistico ed ingenuo d’un fanciullo folle e visionario, improntandoli ad un romanticismo astratto, a volte contagiato da un esoterismo satanico: basta vedere il suo “Dante all’Inferno”.

    L’austriaco Joseph Anton Koch (Obergiblen d’Elbigenalp 1768 - Roma 1839) fu pittore neoclassico e anche incisore su rame; e – oltre a vedute romane e paesaggi vari – lasciò rinomate illustrazioni dantesche: ad esempio, nel disegno d’Ugolino, attorniato dai figli e nipoti caduti o cadenti, il conte si morde una mano per rabbia o per fame; nell’acquerello di Paolo e Francesca questi sono colti in flagrante da Gianciotto; nell’affresco della nave del purgatorio in alto sta l’angelo portiere (che però non ha la veste cinerina), a destra c’è Lucifero inseguito dall’arcangelo Michele e a sinistra ci sono gli angeli armati che scacciano i serpenti dalla valletta dei principi.

    La corona d’alloro fa bella mostra di sé anche nel Dante acquietato perché pacificamente addormentato dei tedeschi Johann Friedrich Overbeck (Lubecca 1789 - Roma 1869) Philipp Veit (Berlino 1793-1877), autore – quest’ultimo – che era solito dipingere Dante e Beatrice con la corona in testa e che ha lasciato anche un ciclo pittorico sul Paradiso (Sala Dantesca, Custodia di Terrasanta, Roma). Questi pittori appartennero al gruppo dei cosiddetti “nazareni” operanti a Roma, particolarmente nel casino di campagna di Carlo Massimo, presso il Laterano, che possiede vari affreschi danteschi.

    Il francese Ferdinand Victor Eugène Delacroix (Saint-Maurice 1798 - Parigi 1863) fu pittore, litografo e illustratore; e – oltre ad aver lasciato quadri d’ispirazione romantica relativi alla libertà della Grecia e altro – illustrò opere di scrittori famosi come Shakespeare, Scott e Goethe, nonché la Divina Commedia. Sono notevoli anche i dipinti orientaleggianti che realizzò nell’Africa Settentrionale.

    Francesco Scaramuzza (Sissa, PR, 1803 - Parma 1886) affrescò la Sala di Dante della Biblioteca Palatina di Parma, oltre che il Tempietto petrarchesco di Selvapiana e una sala del Museo d’antichità di Parma, con intonazioni romantiche e vaghi riflessi del Correggio. Ma la sua opera più importante è l’originale illustrazione della Divina Commedia, una delle più aderenti al testo dantesco per la naturalezza delle immagini e l’intrinseca bravura dell’artista. Dei 243 quadri in 240 cartoni (73 per l’Inferno, 120 per il Purgatorio e 50 per il Paradiso), egli ne dedicò ben 18 al solo canto XXXII dell’ultima cantica, tanto era attratto dallo scenario dell’Empireo ideato dal Poeta, in cui egli trovò molto materiale per le sue interpretazioni pittoriche, grazie ai numerosi beati indicati da S. Bernardo e visti da Dante. Gli atteggiamenti e gli attributi iconografici dei personaggi, nonché gli ambienti, sono tesi a sviluppare la pietas del lettore-osservatore e quindi a valorizzare il messaggio dantesco. Notevole è la figura dell’aquila dei canti XVIII-XX, già magistralmente realizzata da Gioacchino da Fiore nel suo Liber figurarum.

    Il pittore, scultore e architetto Antoine Étex (Parigi 1808-1888), autore nella sua città e altrove di grandiose opere anche con implicazioni mitologiche e religiose, dedicò la sua attenzione pure alla Divina Commedia. In un’edizione con testo prima soltanto in francese e poi in italiano e francese produsse una serie d’illustrazioni d’un romanticismo popolare; e nella sua Matelda (Purg. XXVIII) c’è insieme la grazia e il pudore della donna innamorata che coglie i fiori nella divina foresta attraversata dal fiumicello Letè.

    L’anglo-italiano Dante Gabriel Rossetti (Londra 1828-1882) era figlio del patriota e letterato abruzzese Gabriele Rossetti, esule a Londra, il quale volle dare a lui il nome di Dante perché egli stesso dantista. I suoi dipinti più famosi sono “Il saluto di Beatrice”, “Il sogno di Dante” e “Beatrice morente”. Quale fondatore della cosiddetta “fratellanza/confraternita preraffaellitica”, voleva rifarsi ai maestri rinascimentali anteriori a Raffaello; e riversò in queste immagini il suo carattere malinconico, coniugando il disegno fiorentino al colore veneziano. Risale al 1921 il suo Canzoniere di Dante Alighieri con 12 illustrazioni pubblicato a Torino per la Società tipografico-editrice e di cui un’altra edizione fu pubblicata successivamente dalla Stern di Torino. Illustrò anche la dantesca Vita Nuova.

    Il corredo illustrativo della Divina Commedia disegnato dal francese Gustave Doré (Strasburgo 1832-1883) è certamente il più popolare ancor oggi: la fama è forse dovuta alla prevalente attività d’illustratore d’opere letterarie (Milton, Rabelais, Balzac, La Fontaine, Cervantes, Bibbia, Ariosto, ecc.) espletata da questo pittore e incisore, che con tratti robusti, marcati e decisi, coglie bene gli aspetti più realistici dell’opera dantesca, nonostante il predominio dei toni cupi anche fuori dell’inferno.

    L’inglese Henry Holiday (Londra 1839-1927) appartenne ai preraffaelliti e per la sua bravura fu ricercato anche all’estero. La sua fama è legata allo straordinario dipinto che rappresenta l’incontro fra Dante e Beatrice (accompagnata dall’amica Vanna) sul ponte fiorentino di S. Trinita: oltre alla delicatezza dei tratti, nello sfondo dell’opera si scorge il Ponte Vecchio, con le impalcature del restauro conseguente all’alluvione del 1223. Da questa composizione poi fu realizzato un quadro vivente in teatro.

    È del 1865 l’edizione del Tommaseo (Pagnoni, Milano) con 55 disegni di Carlo Barbieri e Federico Faruffini, incisi da Giuseppe Gandini, che poi il letterato e politico Luciano Scarabelli immeritatamente definì “spropositate bruttezze”. A parte gli altri due artisti, il Faruffini (Sesto San Giovanni, MI, 1833 - Perugia 1869), che diede un'impronta veristica ai suoi quadri storici, nei disegni danteschi non seguì alla lettera il divino poeta: ad esempio, il suo "Lucifero"sottolinea le belle forme della persona, ma non ha la terribilità della figura descritta da Dante.

    Ai preraffaeliti appartenne anche l’inglese John William Waterhouse (Roma 1868 - Londra 1917), che operò in epoca vittoriana, dipingendo soggetti mitologici e donne fatali. Anche lui dipinse l’incontro di Dante con Beatrice.

    Alberto Martini (Oderzo, TV, 1876 - Milano 1954) trattò anche altri soggetti letterari (come Il Morgante Maggiore del Pulci, La secchia rapita del Tassoni, l’Amleto dello Shakespeare, iPoemucci in prosa del Mallarmé, Les Orientales dell’Hugo, Il cuore del De Amicis, La vita della Vergine e altre poesie del Rilke, il Pinocchio del Collodi, ecc.), esponendo nelle principali mostre di tutto il mondo, ma deve l’estrinsecazione del suo interesse dantesco al concorso indetto nel 1901 dalla casa editrice Alinari di Firenze per la realizzazione d’un’edizione illustrata della Divina Commedia. Ne nacque una serie di disegni a china, matita, acquerello e guazzo colorato, nonché litografie, in cui dimostrò – anche con numerose annotazioni e citazioni accanto agli stessi disegni e in quaderni a parte – una dettagliata conoscenza del poema sacro e un amore profondo per il poeta, che praticamente poi durò a lungo, concretandosi in molte altre figure dantesche. Il suo stile, ora scarno e nervoso, ora composito e pacato, si può definire simbolista europeo e precursore del surrealismo, anche se in certa cupezza (pur tipica dell’inferno) e in certa spigolosità a volte si scorgono le influenze d’artisti nordici come Albrecht Dürer. Prevalentemente bianconerista, qualche volta egli si servì anche di colori a pastello; ma in ogni caso predilesse l’espressione dei volti, talora con tratti astratto-futuristi. Notevole è anche un espressivo ritratto di Dante, nel quale la fierezza del personaggio è mitigata dalla consapevolezza del proprio ruolo. In definitiva il Martini risulta non un semplice illustratore della Divina Commedia, ma un dantista che interpreta e fa sua l’alta fantasia del poeta. Citare qui i disegni più significativi è impossibile, dato che sono tanti (praticamente relativi ai personaggi ed episodi più noti e ad altri a cui egli stesso con la sua sensibilità attribuisce importanza); e inoltre di certi personaggi ed episodi esegue varie versioni, a volte soffermandosi a fare e rifare un atteggiamento o una postura per meglio rendere il testo: è il caso del verso “e caddi come l’uom che ’l sonno piglia” (Inf. III 136), divenuto motto della grandiosa mostra del cinquantenario, per il quale l’artista studia a lungo la posizione del gomito nella caduta per sonno, e del conte Ugolino (Inf. XXXII-XXXIII), per il quale studia a lungo la posizione della testa e l’espressione del volto.

    Col Martini è doveroso ricordare anche altri artisti che parteciparono allo stesso concorso e di cui sono stati esposti i quadri nella mostra organizzata dal comune d’Oderzo a palazzo Foscolo, nel cinquantenario della morte del suo concittadino: Duilio Cambellotti (Roma 1876-1960), Galileo Chini (Firenze 1873-1956), Vincenzo La Bella (Napoli, sec. XIX-XX), Serafino Macchiati (Camerino, MC, 1861 - Parigi 1916), Armando Spadini (Poggio a Caiano, PO, 1883 - Roma 1925) e il vincitore del concorso Alberto Zardo (Padova 1876 - Firenze 1959).

    Come tutti i grandi pittori, anche lo spagnolo Pablo Picasso (Málaga 1881 - Mougins, F, 1973), vissuto per un certo tempo a Parigi, con i suoi molteplici interessi artistici oscillanti fra classicismo, surrealismo e cubismo, s’interessò a soggetti danteschi. Il suo Minotauro che brinda fra i simboli della lussuria sta fra l’allegorico e il grottesco.

    Amos Nattini (Genova 1892 - Parma 1985), appartenente ad una famiglia di tradizioni marinaresche, fin da ragazzo dimostrò una spiccata passione per la pittura e la grafica, non solo come artista, ma anche come collezionista, tanto da essere poi definito “custode del bello”. Nel 1921, in occasione del sesto centenario della morte di Dante, realizzò una serie di tavole dantesche che costituirono l’illustrazione d’una speciale edizione della Divina Commedia e furono anche esposte a Parigi, Nizza e L’Aja, riscuotendo dappertutto un notevole successo. L’interesse di questo pittore per Dante s’estese per una ventina d’anni e s’estrinsecò meglio quando egli si ritirò nell’ex eremo benedettino d’Oppiano di Gaiano (PR), fissandovi la sua casa-studio. Le sue figure dantesche, d’intonazione liberty ed “eroica”, risentono del clima dannunziano del momento e i suoi personaggi tendono ad apparire dei superuomini, tanto che l’artista si meritò la seguente dedica da parte del D’Annunzio sul frontespizio delle Laudi: “Ad Amos Nattini, che sa come l’Arte moderna domandi un’anima eroica, offro queste grida verso gli eroi (Parigi, maggio 1914)”. La sua arte, che rivela una grande cultura, affonda le radici nel Rinascimento, ed in particolare in quel senso di perenne primavera e di giovanile spensieratezza, anche se i modelli classici sono da lui rivissuti e se oltre all’umanesimo vi si trova il decadentismo. Il suo Inferno naturalmente ha un’impostazione cupa e “scottante”, ma il suo viaggio storico-artistico sa bene approdare agli esiti luminosi e spirituali del Paradiso.

    Bruno Saetti (Bologna 1902 - Montepiano, PO, 1984), direttore dell’Accademia di Belle Arti di Venezia e noto affreschista e mosaicista, specializzatosi nella tecnica dell’affresco a strappo, rivolse la sua attenzione anche all’illustrazione di famose opere letterarie. Ne nacquero i poderosi volumi illustrati in folio del De rerum natura di Lucrezio nella versione d’Enzio Cetrangolo, della Divina Commedia di Dante Alighieri e di 50 Poesie d’Eugenio Montale. Le sue tavole dantesche oscillano fra la tecnica affreschistica e il bozzetto a matita: in esse viene dato rilievo al personaggio principale del racconto, mentre gli altri restano nell’ombra o sono appena abbozzati. Tuttavia ne risaltano bene le caratteristiche tanto in soggetti corposi, come il regale Bonifacio VIII, quanto in quelli eterei, come le vaghe “postille” delle anime nelle sfere celesti, le quali per il deciso bozzettismo sembrerebbero un intrico di linee. In ogni caso il tentativo del Saetti rivela la mano esperta del maestro, attento non solo agli esiti artistici, ma anche ai fondamenti letterari.

    Lo spagnolo Salvador Dalì (Figueres 1904-1989) nel 1963 pubblicò una famosa edizione della Divina Commedia in sei volumi corredata di 100 illustrazioni, le quali mostrano, sia pure attenuate, le caratteristiche surrealistico-metafisiche dell’autore. Però, pur nell’eccellenza del segno e nello splendore del colore, la pittura dantesca del Dalì rivela quasi il gesto della ritualità e l’impaccio della mancanza di fede. Fra l’altro ci lasciò uno strano volto contratto di Dante.

    Qualcosa del genere si può dire anche per Renato Guttuso (Bagheria, PA, 1912 - Roma 1987), illustratore d’una Divina Commedia mondadoriana de1 1970: pur con certa spigolosità, la sua arte dantesca – inficiata dal materialismo ateo e dal fanatismo politico – riesce meglio nelle vedute paesaggistiche (cfr. l’alba del purgatorio) anziché nell’illustrazione di misteri, simbologia sacra, invenzioni e altri temi specificamente danteschi. Fra l’altro egli fu autore del simbolo, stemma e distintivo, che per mezzo secolo contraddistinse il partito comunista italiano, del quale – come già fatto da Vladimir Majakovskij per il regime comunista sovietico – celebrò nei suoi dipinti la storia, i fasti e i personaggi.

    Aligi Sassu (Milano 1912 – Pollença, E, 2000), che aderì al futurismo – oltre che soggetti sportivi e industriali, ciclisti, operai, pugili e minatori – illustrò anche Dante, Manzoni, D’Annunzio, Cervantes e Mann. Nella sua Divina Commedia egli cercò di cogliere i significati profondi dei personaggi e degli episodi, inquadrandoli nella parabola della vita, della morte e dell’eternità ed esprimendosi con tratti surreali e colori forti, come nel dipinto di Paolo e Francesca. Disse l’artista: "La Divina Commedia è stata per me una fiamma bruciante, una lettura, una partecipazione vissuta, che ho coltivato per tante stagioni […] per dare forma e figura alla voce più segreta di Dante, in simbiosi con la mia pittura, con la realtà ed il sogno."

    Marcello Cagnato (Treviso 1913-2003) nella sua nutrita serie di sculture dantesche di linea classica – spesso terrecotte di piccole dimensioni – fissò con perizia e delicata finezza il mondo e i personaggi di Dante, anche quelli meno importanti dal punto di vista della validità artistica del poema, cogliendoli nelle espressioni caratterizzanti. La tematica dantesca del Cagnato, che ha avuto notevoli riconoscimenti anche all’estero, si può dire quasi esclusiva nella sua produzione, estrinsecandosi nella proposizione d’una molteplicità d’episodi anche secondari, a volte ignorati o dimenticati.

    Nel 1924 presso l’UTET di Torino uscì una pregevole edizione dell’Inferno a cura di Guido Biagi con 2 tavole e 180 figure nel testo. Dopo la morte del Biagi, la continuazione è stata affidata a Enrico Rostagno e Giuseppe Lando Passerini.

    Il caso di Domenico Antonio Tripodi detto “l’Aspromontano” (S. Eufemia d’Aspromonte, RC, 1930) è del tutto particolare: egli non è un pittore qualsiasi prestatosi occasionalmente a Dante, ma un pittore dantista nel senso che ha studiato e assimilato la Divina Commedia, fino a farne parte essenziale della sua cultura e del suo modo d’esprimersi artisticamente, diventando uno dei più noti nel mondo anche grazie ai numerosi riconoscimenti ottenuti in Italia e all’estero. Il Tripodi, che vive a Roma, ha trattato Dante con una profonda conoscenza della vita e dell’opera, ma soprattutto dello spirito che anima scene e personaggi. I suoi quadri danteschi, nei quali prevalgono i colori caldi, sono anzitutto un atto di grande amore per Dante e per tutto ciò che il divino poeta rappresenta per la nostra civiltà e per la nostra formazione personale; inoltre sono l’espressione d’una convinta fede e d’una profonda riflessione, ch’egli ha potuto fare grazie alla sua preparazione non solo dantesca, ma anche biblica e teologica. In ogni caso essi sono il segno d’una costante ricerca di verità e d’una grande spiritualità. E il suo catalogo della mostra dantesca tenuta nel 2001 nel castello di Roccasinibalda (RI) – dove peraltro si è svolta tutta una serie di manifestazioni dantesche culminate nella mostra storico-bibliografica sulla Divina Commedia dal sec. XVI al sec. XX – è una vera e propria monografia illustrata, impreziosita dalle figure del Tripodi e dall’esegesi d’autorevoli dantisti. [Tripodi cerca Dante / “Il colore nella Divina Commedia”, Spoletina Del Gallo, Spoleto, 2001.] Notevole anche la sua mostra a Mosca.

    Nel 1934 Paolo D’Ancona (Pisa 1878 - Milano 1964), sulla base di lunghi studi sulla precedente arte figurativa riferita a Dante, curò con Nicola Zingarelli (Cerignola, FG, 1860 - Milano 1935) un’importante edizione della Divina Commedia corredata di numerose e pregevoli illustrazioni scelte fra quelle apparse dal ’300 al ’900.

    Vittorio Ribaudo (Palermo 1937) coltiva un genere figurativo classico, appartenente alla migliore tradizione italiana. Vari sono i materiali e le tecniche che utilizza, preferendo il legno di qualità diverse, che è insieme scolpito e dipinto a tempera, olio, miniatura, e ricorrendo a volte a marmo, agata, sughero e pelle: sicché la sua arte è insieme scultura e pittura. Ovviamente i legni di quest’artista rappresentano personaggi ed episodi ben noti, ma a volte essi stessi concorrono all’orrido dell’inferno con certa forma mostruosa, ricca di simbologia e di suggestione(cfr. Minosse). L’artista ha illustrato l’intero poema sacro: Inferno su legno, Purgatorio per lo più su marmo (ma a volte su legno, tela e vetro di Murano) e Paradiso su agata del Brasile; e le sue illustrazioni, nei cataloghi accompagnate dai rispettivi versi danteschi, costituiscono un utile vademecum per il lettore-spettatore che voglia intraprendere un proficuo pellegrinaggio insieme con Dante e con lo stesso Ribaudo, il quale si dimostra buon conoscitore del poema e dello spirito del sommo poeta. Per curiosa coincidenza il suo ritratto di Dante per atteggiamento e vestiario è molto vicino a quello del Martini, anche se il labbro risulta più pronunciato. Oltre che a Dante il Ribaudo s’è dedicato all’Orlando furioso dell’Ariosto e ad alcune opere del Verga e d’altri autori, nonché agli aspetti paesaggistici e folcloristici della Sicilia e della Sardegna, pur senza ignorare le regioni settentrionali, dove pure ha lavorato: ad esempio, nel comune di Virgilio ha realizzato all’aperto un quadro-monumento rappresentante Dante e Virgilio.

    Silvio Benedetto (Buenos Aires 1938) ha viaggiato per tutto il mondo, esercitando le attività di pittore, scultore, architetto, scenografo, attore, cantante, animatore di spettacoli, incontri e dibattiti. In Liguria ha lavorato nelle Cinque Terre; e in Sicilia in varie località, ma soprattutto a Campobello di Licata (AG), che egli ha trasformato in città d’arte. In essa non c’è angolo che non sia stato oggetto dell’arte del Benedetto, coadiuvato da una commissione di tecnici: dalla facciata del municipio alla sottostante piazza centrale, alle facciate delle chiese, delle scuole e della biblioteca comunale, dove ha dipinto una quarantina di scene dell’Iliade e nel cui interno si trovano l’auditorium “Dante Alighieri” e una sezione della biblioteca dedicata al sommo poeta; a fontane, scalinate, teatro all’aperto, obelisco e agorà. Ma ciò che caratterizza la cittadina è la “Valle dantesca”, detta anche “Valle delle pietre dipinte”, realizzata dal Benedetto: 120 giganteschi blocchi di travertino da lui affrescati, a volte anche ai lati e nel retro, per complessive circa duecento figurazioni dantesche, posizionati in tre sentieri (InfernoPurgatorio eParadiso) a costituire come delle stazioni di via crucis, davanti alle quali il visitatore – grazie anche ai relativi cartellini con didascalie e citazioni di versi – potrà fare le sue meditazioni. Tutto il lavoro è connotato da un forte realismo espressionistico; e a volte le grandi figure “aggrediscono” il visitatore coi loro particolari: volti rabbiosi o sconvolti dal dolore, mammelle sporgenti, ferite sanguinanti, mostri rotanti, ecc. Per i superbi del Purgatorio il Benedetto è arrivato all’impossibile: fare trasportare sulle spalle d’un penitente parte del macigno in cui lo stesso è dipinto; inoltre ha raffigurato in maniera originale la Vergine Madre del canto XXXIII del Paradiso, rendendo poi l’idea di Dio con un sole che fa anche da sfondo alla valle, insieme con un adeguato scenario architettonico. Interessante è anche la resa della simbologia di Beatrice e del suo occhio. L’artista infine ha reso attuale il messaggio dantesco mediante l’inserimento di scene d’attualità, come sequestri di persona e delitti mafiosi, in cui dominano le sofisticate armi dei nostri giorni. In quest’opera ciclopica le forme sono ben delineate, i colori vivaci, la fantasia eccelsa come quella del poeta che l’ha ispirata.

    Alessandro Kokocinski (Porto Recanati, MC, 1948), di padre russo e madre polacca, ha dimorato in varie parti del mondo per periodi più o meno lunghi: Italia, Brasile, Argentina, Cile, Cina, Germania e ancora Italia, con studio a Roma. I personaggi della sua pittura sono travolti da violente passioni, come quelli dell’Inferno di Dante, a cui ha rivolto la sua attenzione (cfr. Paolo e Francesca). Ha dipinto anche il Paradiso.

    Al di là del Dalì sembra essere andato Annibale Fasan (Treviso 1956), che nella serie dei suoi grandi quadri d’interpretazione dell’Inferno ha dimostrato una notevole libertà espressiva, accostandosi al surrealismo e costituendo per questo una novità dantesca capace di sorprendere l’osservatore che non conosca il pittore. Ma del Fasan bisogna anche dire che i risultati da lui conseguiti sono dovuti ad un attento studio della cultura medievale (letteratura, filosofia, costume, arte), che conferisce al poeta una giusta collocazione nel suo tempo. Della sua pittura dantesca, visionaria ed evocatrice, meritano d’essere segnalati due particolari: il colore d’ogni singolo quadro è come il ritmo d’una sinfonia costituita dall’insieme della serie; la cornice a sua volta è come la continuazione del quadro, parte integrante dell’opera, e riprende e sviluppa il tema fino a portarlo all’apice della conclusione logico-espressiva. Ne deriva un’ermeneutica dantesca nel contempo ironica e drammatica, o meglio in cui la drammaticità scaturisce dalla visione ironica percepita dall’osservatore attento.

    Nel 1965, in occasione del VII centenario della nascita di Dante, la Biblioteca Vaticana curò l’edizione d’un codice urbinate latino della Divina Commedia con fotolitografie della Flam di Milano. Lo stesso anno e per la stessa occasione Aldo Martello ne curò un’altra edizione con pregevoli fotolitografie di Annibale Belli, pubblicata a Milano.

    Negli anni 1990-1992 la rivista “Famiglia cristiana” delle edizioni paoline pubblicò a Milano una Divina Commedia a puntate, con tavole dei fratelli istriani Nino Gregori (Parenzo 1925) eSilvio Gregori (Parenzo 1927), autori anche delle illustrazioni d’altre celebri opere (I promessi sposiPinocchioPiccolo mondo anticoI MalavogliaIl Gattopardo, ecc.), commento di Giorgio De Rienzo e versione in prosa di Carlo Dragone. La pubblicazione diede luogo ad un convegno fiorentino presieduto dallo stesso De Rienzo, nel corso del quale furono esposti i dipinti originali. Queste illustrazioni, ora romantiche ora realistiche, danno viva compiutezza ai racconti danteschi; e un imperioso ritratto di Dante appare con lo sfondo della tumultuosa vita cittadina del suo tempo, come ad ammonire i contemporanei.

    Verso la fine del sec. XX la Società Dante Alighieri - Comitato di Padova ha affidato a parecchi artisti, anche stranieri, l’illustrazione della Divina Commedia con una serie d’incisioni a tecnica varia ampiamente e acutamente commentate dal critico d’arte dello stesso comitato Giorgio Segato.

    Fra gli enti che organizzano mostre d’arte dantesche anzitutto vanno ricordati ovviamente i grandi centri di studio di Firenze e Roma: la Società Dantesca Italiana di Firenze, la Società Dante Alighieri - Sede centrale di Roma e la Casa di Dante di Roma. Non è da trascurare poi il Centro Dantesco dell’Eremo di Fonte Avellana (PU) dei frati benedettini, dove Dante dimorò nel 1318-1320, dove – secondo la tradizione – completò la stesura della Divina Commedia e dove tuttora si trovano la “camera di Dante” e diversi ritratti del Poeta. Inoltre è da mettere in evidenza la grande attività artistica del Centro Dantesco di Ravenna dei frati minori conventuali, sede della Biennale Internazionale di scultura, medaglia e bronzetto, nonché d’altre esposizioni, a cui hanno partecipato in varie edizioni parecchi autori.

    Importante centro di riferimento dantesco è anche la Casa di Dante in Abruzzo (Pescara, Torre dei Passeri) istituita nel 1979, posseduta e gestita nel suo castello da Corrado Gizzi (Guglionesi, CB, 1915 - Pescara 2012), il quale, dotato di multiforme cultura e di grande passione per Dante, ha organizzato parecchie mostre dantesche di grandi artisti del passato e del presente: nel 1980 gli scultori Crocetti, Fazzini, Greco e Manzù; nel 1981 “Dante e l’arte romantica: nazareni, puristi e preraffaelliti”; nel 1982 Blake; nel 1984 Rossetti; nel 1985 Füssli; nel 1986 Flaxman; nel 1987 Sassu; nel 1988 Koch; nel 1989 Martini; nel 1990 Botticelli; nel 1991 Signorelli; nel 1992 Raffaello; nel 1993 Zuccari; nel 1994 Stradano; nel 1995 Michelangelo; nel 1996 Scaramuzza; nel 1997 Dalì; nel 1998 Nattini; nel 2000 “Arte nuova” con Magrini, Muccioli, Nomellini, Senno, ecc.; nel 2003 la Vita Nuova, tradotta in inglese e illustrata dal Rossetti, con Brancolini, Fusi, Gerico e Nigiani; nel 2004 le Rime con Caputo, Cilia, Gromo, Pittari e Turchiaro; nel 2005 la Monarchia con Volo, Vignozzi, Vernizzi, Carroll, Iudice e Bonichi; nel 2006 “Dante e Ovidio” con Brancolini, Fusi, Figiani; ecc. Tali mostre sono tutte documentate nei vari cataloghi curati per grosse case editrici milanesi dallo stesso Gizzi, il quale ha anche pubblicato una documentazione sulla ricerca iconografica dantesca degli ultimi anni. [Corrado Gizzi, Dante istoriato: vent’anni di ricerca iconografica dantesca, Sirka, Milano, 1999.]

    Come già detto, molti altri sono gli artisti che si dedicano a Dante, ma non è possibile conoscerli e indicarli tutti: basta soltanto qualche riferimento per capire l’eccezionalità dell’interesse del poema dantesco anche ai nostri giorni.

    C.R.E.S., Catania 2005, pp. 8; 4a edizione 2010

    * Dantista italiano (https://treccani.it/enciclopedia/carmelo-ciccia/), tra le cui pubblicazioni ci sono i volumi Dante e Gioacchino da Fiore, Pellegrini, Cosenza, 1997; Allegorie e simboli nel Purgatorio, id, 2002; Saggi su Dante e altri scrittori, id. 2007),

    LA COMMEDIA COME FONTE POETICA

    NELLE ARTI FIGURATIVE

    Carmelo Occhipinti *

    Subito dopo il suo scoprimento, il 31 ottobre 1541, sulla parete di fondo della Cappella Sistina ilGiudizio finale riscosse lodi iperboliche. Sollecitati dalla potenza dell’opera, dalla grandiosa immagine di terrore che essa evocava, i primi osservatori contemporanei associarono il nome del suo autore a Dante, e l’affresco allaCommedia. Associazione destinata a godere di tradizione ininterrotta, trovando nella letteratura critica di ogni epoca le più diverse motivazioni, non solo nei confronti dello sforzo supremo di creazione, ovvero del tragico titanismo del ‘divino’ Michelangelo, ma anche, più o meno discutibilmente, nei possibili riferimenti puntuali al testo dantesco. Quando nel 1550, nella prima edizione delleVite, Vasari affermava, di fronte alla “forza di tal opra”, come Michelagnelo avesse “verificato il detto di Dante, ‘morti li morti, i vivi parean vivi’…”, il biografo non faceva che accogliere l’opinione ormai diffusa: appena nel 1549, per esempio, il letterato fiorentino Benedetto Varchi, buon amico di Vasari, aveva osservato che il Buonarroti aveva avuto Dante “sempre dinanzi agli occhi”; e già nel 1542 si deve credere che il pittore Sebastiano del Piombo pensasse a quegli stessi versi dellaCommedia nel dichiararsi smarrito – come avrebbe poi raccontato Pietro Aretino nellaTalanta– di fronte a tante figure dipinte, che gli sembravano “vive”, forse ancor più vive degli uomini stessi che venivano ad ammirare l’opera restandone, dunque, così emotivamente coinvolti.
    Riferimenti puntuali al testo dellaCommedia non tardarono a essere suggeriti. Osservando Caronte che traghetta le anime dannate tra figure bestiali di diavoli dagli occhi allucinati (che sarebbero piaciute ai surrealisti), Varchi si chiedeva: “chi vede quel suo Carone, che non gli venga subito su la mente quel terzetto di Dante ‘Caron demonio…’?” Una simile figura, che veniva dalla mitologia pagana, avrebbe destato scandalo in anni di Controriforma; ma diversi scrittori finirono per giustificarla ricorrendo all’autorità di Dante nonostante che, in effetti, il pittore avesse ceduto alla propria libera inventiva, per avere raffigurato Caronte sbarbato e nient’affatto bianco per antico pelo.

    Lo stesso potrebbe dirsi del Minosse, che la letteratura critica tradizionalmente avrebbe associato al personaggio dantesco, nonostante la divergenza dal testo: Minosse era per Dante un mostro dalla lunga coda, e non questo dannato, crudelmente tormentato dal serpente che gli si avvolge intorno al corpo, come Michelangelo invece lo immaginava mettendogli le orecchie d’asino (pensando di ritrarre così il molesto segretario papale che lo aveva offeso…). Persino il grande pittore francese Eugène Delacroix sarebbe rimasto assai più tardi impressionato da questa invenzione: ma niente del genere si trovava nella poesia antica e medievale; il riferimento a Dante, invero puramente letterario, era stato sì suggerito da Varchi (“Chi non si ricorda, quando vede Minosso, di quell’altro nel V canto de l’Inferno: ‘
    Stavvi Minòs orribilmente e rigna’?”), ma la gran parte degli studiosi fino al nostro tempo ne avrebbe visto un richiamo puntuale alla fonte poetica.


    Fatto è che la libertà immaginativa di Michelangelo doveva avvalorarsi, agli occhi degli storici dell’arte di ogni epoca, pure nel rispetto della tradizione artistica, specialmente toscana,tre-quattrocentesca, che offriva esempi svariati di visionaria e microscopica descrizione di creature diaboliche, che Michelangelo doveva conoscere bene. Basti pensare, dapprima, alle raffigurazioni infernali sui mosaici del Battistero di San Giovanni a Firenze, note ovviamente allo stesso Dante; oppure agli affreschi del Camposanto di Pisa o a quelli di Nardo di Cione nella Cappella Strozzi di Santa Maria Novella, eseguiti nel 1357, ove i maledetti si mostrano stracciarsi le vesti, e le scene affrescate seguono precisamente i versi del poema (vi si ricordi, per esempio, Lucifero dalle tre bocche). E si pensi, ancora nel secolo XV, intorno al 1430, all’Inferno di Beato Angelico, immaginato come una specie di osteria di cannibali.

    Il richiamo agli affreschi della Cappella di San Brizio dentro il Duomo di Orvieto, eseguiti da Luca Signorelli tra il 1499 e il 1504, era stato suggerito già da Vasari: “Onde io non mi maraviglia se l’opere di Luca furono da Michelagnolo sempre sommamente lodate, né se in alcune cose del suo divino Giudizio, che fece nella Cappella, furono da lui gentilmente tolte in parte dalle invenzioni di Luca, come sono angeli, demoni, l’ordine de’ cieli e altre cose, nelle quali esso Micheagnolo imitò l’andar di Luca, come può vedere ognuno”. La cruda fisicità delle figure diaboliche e dei corpi ammassati e contorti nelle scene dei Dannati che entrano all’Inferno e del Giudizio universale hanno da sempre evocato il poema dantesco; in effetti, tra gli ornamenti dello zoccolo della stessa cappella trova posto il ritratto di Dante, accompagnato da raffigurazioni del Purgatorio, insieme ai ritratti di Stazio, Virgilio, Lucano, Ovidio e Cicerone. Ma anche l’inventiva di Signorelli conosceva, in certo qual modo, un importante precedente, nella stessa Orvieto: su uno dei quattro grandi pilastri della facciata del Duomo, dove Lorenzo Maitani, tra secondo e terzo decennio del Trecento, aveva scolpito il suo Giudizio universale.

    Ma occorre avvertire come l’associazione tra Dante e Michelangelo fosse fin da subito intesa soprattutto in chiave esistenziale, in considerazione, appunto, del clima espressivo delGiudizio finale. Niente che potesse cioè richiamare vere e proprie illustrazioni dantesche, come quelle a cui Sandro Botticelli nel 1491 aveva lavorato (le sue novantadue pergamene, oggi conservate a Berlino, e le sette a Roma, in Vaticano, rimasero perlopiù allo stadio di disegno a penna). Così per lungo tempo, fino a epoca romantica, il Buonarroti sarebbe stato detto il Dante delle arti figurative, perciò la sua opera definita ‘terribile’, ‘sublime’; impressionati ne rimasero gli illustratori visionari d’inizio Ottocento, come Flaxman e Blake. Quest’ultimo, autore di “visioni divine di eternità”, come lui stesso le chiamava, dal 1824 disegnò le sue illustrazioni dellaCommedia, conservate alla Tate Gallery di Londra, straordinariamente moderne nella loro cupa carnalità, nella loro personale rivisitazione del formalismo michelangiolesco. Ancora Delacroix avrebbe parlato delGiudizio sistino come di cosa colossale, «oeuvre colossale, qui surgit comme un monde, dans le fastes de la penture»; ma poco più tardi, nel 1872, lo storico dell’arte inglese John Ruskin avrebbe preferito ilParadiso di Tintoretto al cupo Inferno di Michelangelo, alludendo pur sempre alla diversa temperatura espressiva dei due maestri cinquecenteschi.

    I surrealisti avrebbero poi finito per legare Michelangelo a tutta una tradizione di immagini infernali di tragica visionarietà, tra Medioevo e Rinascimento, non solo italiana: basti pensare alle angosciose visioni d’inferno di Bosch, d’incredibile e libera fantasia creativa. Tanto incredibile e libera da essere il suo autore tacciato di eresia, in anni ormai di Controriforma, quando lo scrittore spagnolo Quevedo avrebbe immaginato all’Inferno il povero Bosch, rimproverato dagli stessi diavoli per non aver illustrato i regni dell’Ade secondo come i testi richiedevano: Bosch aveva infatti raffigurato, con una lucidità descrittiva davvero terrificante, una specie di camera da tortura dall’atmosfera corrusca. Alla quale André Breton non avrebbe fatto a meno di pensare, scrivendo pagine memorabili del suoArt magique.

    * Ricercatore nelle discipline storico-artistiche presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Tra le sue pubblicazioni, i volumi: Il disegno in Francia nella letteratura artistica del Cinquecento, Firenze-Parigi 2003; Pirro Ligorio e la storia cristiana di Roma (da Costantino all’Umanesimo), Pisa 2006.


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