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    Giovanni, il discepolo più amato

    per il più “ebraico” dei vangeli

    Enzo Bianchi


    Il saggio di Giulio Busi sulla teologia politica dell’evangelo ritenuto più evasivo nei confronti del mondo

    Il vangelo di Giovanni è l’”altro” evangelo, altro nel senso di diverso rispetto ai vangeli sinottici. Questo è stato percepito fin dall’antichità e in maniera molto più forte rispetto alle generazioni cristiane successive. Soprattutto nel II secolo l’alterità di questo evangelo era avvertita in maniera così profonda da turbare la comunità cristiana. Abbiamo tracce, ad esempio, che esso non sia stato accettato subito dalla grande chiesa, ossia la chiesa apostolica, quella in seguito chiamata cattolica o ortodossa, segnata da una tradizione che risaliva agli apostoli e in cui Pietro occupava un posto estremamente preciso. Clemente Alessandrino lo chiamava “vangelo spirituale” e con questo termine voleva indicarne la diversità rispetto agli altri tre, diversità certamente evidente per il linguaggio e la ricchezza simbolica.
    Occorre subito precisare che a questo attributo di "spirituale" non va dato il senso, spesso oggi inte­so in modo depotenziato, di astratto, lontano dal reale; in realtà esso significa "animato dallo Spirito santo" e tale è tutta la scrittura e in modo particolare lo è Giovanni che sa portare uno sguardo profondo sul mistero del Cristo. Questo è un vangelo più di ogni altro "incarnato" nella storia del suo tempo e del suo ambiente: registra polemiche, tensioni, rotture e presenta un messaggio quanto mai eversivo. La sua teologia narrativa parla di oppressi, non di vincitori, è critica verso la società contemporanea, è memoria pericolosa che non dà tregua ai potenti, non accetta l’oppressione e con­tiene una proposta di liberazione totale per l’uomo. Giovanni “narra ricordando”, la sua storia diventa perciò narrazione di storie di liberazione e diventa pratica dell’azione liberante a tutti i livelli.
    Al Vangelo di Giovanni ha dedicato la sua ultima opera Giulio Busi, professore ordinario alla Freie Universität di Berlino, che i lettori conoscono bene soprattutto, ma non solo, per i suoi studi di mistica ebraica e di storia rinascimentale. Giovanni, Il discepolo che Gesù amava, edito da Mondadori, Busi lo pubblica a un anno di distanza da Gesù il re ribelle: due storie ebraiche che formano un dittico perfetto, fecondo, stimolante. Gesù e Giovanni, l’uno il maestro, l’altro il discepolo amato. Gesù è stato voce e parola, “il discepolo lo sa – annota Busi – Lo ha visto con i propri occhi. Giovanni ha visto la parola. Ed è per questo che ha cominciato a dettare. Ha raccolto gli scribi attorno a sé, ha chiuso gli occhi e ha preso a sgranare le frasi”. E n’è uscito il Vangelo “altro” rispetto a quelli di Marco, Matteo e Luca, e al giorno d’oggi vi sono molti strumenti per verificare questa alterità e confermare l’impressione di tale carattere specifico che Busi fa emergere in tutta la sua eloquenza. È stato addirittura definito da Robert Kysar il “vangelo indomabile”, titolo dato al suo studio per indicare quasi un “vangelo dissidente”, formulazione probabilmente troppo forte, ma senz'altro significativa per esprimere l’esito di un cammino esegetico preciso. Ernst Käsemann riprende l’espressione di “vangelo celeste” e fa un gioco di parole sopra tale definizione: “La sua inclusione nel canone nasconde una profonda ironia: viene chiamato celeste quel vangelo a cui la chiesa non sapeva più assegnare un luogo di origine sul piano terreno”. Sono solo due voci che indicano in modo sintomatico il dibattito inerente a questa diversità.
    “Per molti anni, più di una quarantina, Giovanni è stato per me un amico. Una conoscenza intima ma problematica”, ci confida l’autore di questo libro colto ma scritto con palpabile passione. Non si percorre pagina per pagina, né i singoli discorso di Gesù (molto lunghi in questo Vangelo), né si indugia in accademiche analisi filologiche del testo ma, ammette Busi, “mi sono piuttosto ‘mosso’ nel Vangelo seguendo la sguardo del discepolo amato”, quasi facendosi guidare dallo spirito dell’autore più che dalla lettera del testo.
    “Quello di Giovanni è il più ebraico dei Vangeli”, osserva a giusto titolo Busi che tuttavia ne riconosce l’evidente contraddizione: “il vangelo di Giovanni usa parole dure contro i ‘giudei’, e li accusa addirittura, di avere per padre il diavolo (Gv 8,44). L’ostilità di Giovanni è una ferita profonda nella storia dei rapporti, troppo stesso conflittuali, tra cristianesimo ed ebraismo”. Con competenza e grande senso biblico, senz’altro facilitato dall’efficace testo del Vangelo di Giovanni della Bibbia Einaudi, tradotto da Roberto Vignolo, Busi aiuta il lettore a comprendere che non ci si deve accostare a Giovanni con pregiudizi rite­nendo questo suo Vangelo evasivo nei confronti del mondo: se c’è un evangelo con portata di teologia politica è proprio que­sto, perché il suo scopo è narrare il compiersi di azioni che portano liberazione.
    La narrazione giovannea è quella di un profeta, narratore competente, non semplice narratore ma anche attore coinvolto in una storia che ha cambiato la sua vita: egli narra con effetti pra­tico critici e crea alternative che vengono suggerite dalla memoria della liberazione portata da Cristo nell’hic et nunc del lettore credente: adesso cambia la tua vita, insiste Giovanni, adesso tu risorgi, adesso tu puoi essere liberato.
    Ma chi è Giovanni? È communis opinio tra gli studiosi che l’autore del Quarto Vangelo sia Giovanni, l’anziano o Giovanni il Presbitero, nato verso l’anno 15 verosimilmente a Gerusalemme e morto a Efeso molto anziano, verso il 100. Per Busi “Giovanni l’Anziano è di stirpe sacerdotale” che dall’interno dell’élite gerosolimitana registra le tensioni tra Gesù e i sacerdoti del Tempio, i principali antagonisti gi Gesù. Questo fa sì che Giovanni sia “un evangelista dal volto nuovo, dunque, e tutto da scoprire che ci mette sotto gli occhi la propria testimonianza, così diversa perché differente e speciale è la visuale da cui egli guarda Gesù”.
    “Se io voglio che lui rimanga finché io venga, che t’importa?” (Gv 21,22). Alla fine del Quarto Vangelo è questo ciò che Gesù dice a Pietro che riferendosi al discepolo amato gli aveva domandato “Signore, e lui?”. Pietro vuole sapere che ne sarà del discepolo amato. Ma la risposta del Signore è un secco diniego a questa pretesa: “Che t’importa?”. Gesù lo ferma e gli chiede di accettare la volontà del Signore: nell’unica chiesa presieduta da Pietro ci deve essere anche la presenza ineludibile del discepolo amato, una presenza che Pietro deve solamente accettare. Accanto a Pietro, figura della chiesa istituzionale, troviamo il discepolo amato che “rimane”, dimora fino alla parusia, fino alla venuta del Signore.
    Pericope quanto mai preziosa questa conclusiva del nostro Vangelo, perché svela che la chiesa nasce plurale, è per sua costituzione nativa una comunione plurale in cui l’unica volontà del Signore ha posto sia il primato petrino sia il permanere del discepolo amato. Oggi noi sappiamo bene chi nella chiesa è Pietro, e riconosciamo il suo primato. Ma chi è il discepolo amato? Chi ne sarebbe il successore? Chi garantirebbe nell’oggi della chiesa la presenza del discepolo amato che rimane? Giulio Busi con l’acutezza del raffinato studioso e la familiarità con i testi biblici mostra che le ragioni per le quali nel cristianesimo esiste e “rimane” chi dà il primato all’amore, chi svolge il ruolo profetico con un amore vigile e appassionato, capace di indicare a tutta la chiesa il Signore.

    FONTE: La Stampa - Tuttolibri - 12 Ottobre 2024


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