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    È necessaria una riforma del presbitero

    Enzo Bianchi


    Per essere più fedeli al Vangelo e più capaci di rispondere ai bisogni della comunità cristiana.

    Se la liturgia necessita con urgenza che si continui la riforma iniziata con il concilio Vaticano II, come abbiamo accennato nell’articolo precedente, anche il presbitero e la comunità cristiana che lui presiede richiedono una riforma. Sappiamo tutti che negli scritti del Nuovo Testamento, in particolare nelle lettere di Paolo, è attestata una diversità di ministeri che non riusciamo sempre a identificare con precisione nel contenuto: inviati (apostoli) e inviate (apostole), evangelisti, didascali e profeti, diaconi e proesti di comunità. Tutti prestavano un servizio al Signore della chiesa prendendosi cura delle diverse necessità apostoliche. Poi purtroppo nel iii secolo, come testimonia Cipriano di Cartagine, si stabilisce una gerarchia ecclesiastica nella quale la figura del vescovo acquisisce una considerevole importanza e centralità. La crisi dell’Impero romano favorisce anche il passaggio a un’autorità episcopale che sia non solo ecclesiale ma anche politica e nello stesso tempo si proiettano sulla figura clericale le immagini dell’Antico Testamento che ne fanno un sacerdote, un sacrificatore impegnato in una obbedienza stretta ed esigente alla ritualità sacrificale. E la Riforma invano cercherà di ricordare le esigenze neotestamentarie, anzi, per reagire, la chiesa cattolica rinforzerà quell’identità sacerdotale che ha determinato l’esemplarità di tanti santi presbiteri controriformisti fino al curato d’Ars.
    Il concilio Vaticano II ha cercato, soprattutto con Presbyterorum ordinis, di riformare la figura e il ministero del sacerdote indicato sempre più come “presbitero” in fedele obbedienza al Nuovo Testamento, ma questo testo è restato un tentativo di riforma, non approfondito e non sviluppato, come ci si sarebbe potuti attendere da un decreto conciliare. Sì, il ministero non è plasmato da un’idea platonica, ma vivendo nel tempo deve accettare di essere plasmato secondo le esigenze pastorali del momento. Non le esigenze mondane, ma quelle che emergono nella vita degli uomini e delle donne come bisogni e come legittimi desideri. Il ministero non è un’esigenza funzionale nella chiesa, ma un ordo fondamentale richiesto dal Vangelo, che prevede che il gregge del Signore sia guidato dai pastori, e che ci sia chi ha il compito di “pescare” le pecore e di radunarle andando anche a cercare quelle smarrite. Non c’è chiesa senza pastore ed è un’illusione una chiesa che si autogoverni senza riconoscere il ministero apostolico, il ministero dell’inviato del Signore.
    Ma proprio la forma dell’esercizio di questo ministero può e deve mutare per essere più fedele al Vangelo e più capace di rispondere ai bisogni della comunità cristiana. Occorre una riflessione esigente, coraggiosa, che non tema una revisione radicale e non si fermi ai ritocchi.
    Oggi il prete è sovente scontento, stanco, incapace di rinnovare le motivazioni della sua vocazione e nell’anzianità confessa la sua frustrazione, la mancanza di adesione a quel che deve compiere. Purtroppo io, nel mio povero servizio di accompagnamento di tanti preti, ascolto la loro fatica, la loro voglia di ribellarsi al dovere di celebrare la domenica fino a cinque messe in paesini sperduti con poca gente, e celebrare con gente non convinta... Così il prete è diventato uno che “dice messa”, un funzionario di un sacro non cristiano, un mercante di stralci di dottrina che deve comunicare nell’omelia e, per molti, colui che presiede alla sepoltura dei loro morti. E taccio sulle diverse incombenze e servizi burocratici e filantropici che deve organizzare mentre questo richiede tempo e non dovrebbe dipendere da chi è prete. No, una vita di questo tipo stanca e sfibra molti preti e soprattutto preti giovani che non lo sentono come un servizio che arricchisce la loro esistenza e li fa vivere nello spazio del Vangelo, ma come uno sfruttamento. Perché non ci si chiede a partire da queste letture la causa della carenza di vocazioni presbiterali? Il problema è ancora relativamente poco presente nel Sud Italia dove il prete è un’autorità, è venerato e gode di un buon tenore di vita (diciamo la verità). Ma non si può dire lo stesso della Liguria, del Piemonte, della Toscana, dell’Umbria. Non è solo la situazione secolarizzata, ma la situazione ingrata in cui vivono i preti che allontana le vocazioni. È vero che chi sceglie il ministero accetta di abbracciare la croce, ma in una vita piena di senso, di fraternità e affetti, una vita piena!
    Io sogno di incontrare – e li incontro ora raramente! – preti umanissimi, umili come nell’incontro con un viandante, un giardiniere, un pescatore, ma persone che sappiano dire parole di speranza, destare fiducia, dire che l’affetto, l’amore è l’unica cosa che conta per tutti i cristiani che vivono la comunità. Sogno dei preti che non organizzano eventi, non trasformano gli incontri pastorali in feste folcloristiche, ma stanno tra la gente, ascoltano, fanno visite, condividono, fanno segno... cioè indicano ciò che sta oltre il visibile ma è oggetto del desiderio dei veri cristiani. Sogno dei preti che abbiano una semplice chiesa in cui radunano la gente e fanno risuonare con exousía la Parola di Dio convinti che questa ha in sé una dýnamis, una forza divina come dice l’Apostolo, e la annunciano confidando che essa operi ciò che essi stessi non sanno operare. Ed è proprio la Parola di Dio che crea comunità, costruisce comunità, edifica la parrocchia nella forma oggi possibile: dove si spezza la Parola e il pane insieme, soprattutto nel giorno del Signore!
    Tutto è così semplice! Che senso ha questa proliferazione e questa istituzionalizzazione di gesti che appartengono ai battezzati e vengono chiamati “umanitari”? Ma è veramente questa la via per edificare la chiesa, o questa è la via di una nuova clericalizzazione in cui un’alba bianco vestita durante l’eucaristia dà un decoro e un’identità che la fede non riesce a dare? Questa formula di una chiesa tutta ministeriale è mondana, sembra rispondere a esigenze di democrazia, ma se tutti sono ministri a chi si fa il servizio? Perché tanta enfasi proprio quando “la crisi” svuota e rende fragili molte figure? Certamente per molti cristiani si fa sempre più evidente la teologia del “resto d’Israele”, del “piccolo resto”. Tutto l’Antico Testamento, soprattutto i profeti, testimoniano che sì, c’è il popolo di Dio, ma che Dio poi si sceglie e guarda a un “resto”, un piccolo numero di fedeli che non corrisponde con il popolo. Non sono credenti privilegiati, non stanno in corsie preferenziali, non sono klerós, porzione nobile, ma realtà di piccoli, poveri che confidano solo nel Signore. Fanno parte del popolo di Dio e non si distaccano da esso ma non confidano nell’istituzione, né nel tempio, né nel sacerdozio! Attendono il Giorno del Signore, che lui venga e operi la salvezza.
    Anche nella chiesa, oggi più che mai se lo vogliamo vedere, si sta stabilendo un resto di cristiani: non si dicono più cattolici, ortodossi o protestanti, ma semplicemente “cristiani”, pur riconoscendo con gratitudine la chiesa che li ha generati a Cristo. Non è solo il grande teologo Paolo Ricca che ha lasciato come testamento questa confessione, ma altri si esprimono con le stesse parole nell’adesione a Cristo, cercando di vivere il Vangelo senza più guardare all’istituzione. Tuttavia questo non è né fecondo, né coerente con una vita cristiana che sia sale della terra, speranza per le genti.
    Ma se non c’è riforma del presbiterato e della comunità cristiana l’unico esito sarà una diaspora, con il rischio di non essere significativi, di non fare più segno tra gli uomini e le donne del nostro tempo.

    (Vita Pastorale - febbraio 2025)


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