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    "Fuori dal mondo?"

    Armando Matteo

    Come amo spesso ripetere, il compito precipuo della chiesa è quello di portare Gesù a tutti e di portare tutti a Gesù. L’annuncio del Vangelo non si limita perciò all’atto con il quale diciamo Gesù nel nostro tempo e nel nostro mondo. Quell’annuncio trova il suo essenziale compimento quando diciamo Gesù per il nostro tempo e per il nostro mondo. Portare tutti a Gesù implica proprio lo sforzo di un portare Gesù a tutti, che giunga a toccare il cuore di tutti – far ardere il loro cuore, ci direbbe l’evangelista Luca – di modo che esattamente questi tutti possano avvertire nel profondo che con Gesù e con il suo Vangelo è della loro vita buona che ne va. Solo in questo modo possiamo affermare di compiere davvero, nel nostro tempo e nel nostro mondo, l’opera missionaria che il Signore Gesù ha affidato ai suoi discepoli.
    La faccenda si fa ora avvincente quando facciamo nostro il pensiero per il quale l’essere umano – e quelle che seguono sono parole di Nietzsche – è un animale mai completamente stabilizzato. Ovvero non si dà una volta per tutte.
    I tutti ai quali, come credenti, siamo costantemente inviati, infatti, semplicemente cambiano, evolvono: spesso migliorando la propria abitazione del mondo, spesso complicandola. In ogni caso, il passaggio tra le generazioni non avviene mai solo nel segno della continuità. Accade anche in quello della rottura e dell’invenzione. Ed è qui che i credenti sono chiamati a verificare le loro prassi di comunicazione del Vangelo: sono, quelle vigenti, spesso ereditate dal passato, ancora in grado di toccare il cuore, di scaldare il cuore, di inquietare il cuore degli uomini e delle donne della generazione alla quale gli stessi credenti ora appartengono?
    E a pensarci bene è questo il centro pulsante di ciò che nel linguaggio ordinario definiamo «pastorale». Un tale termine, come è noto, deriva da «pastore», il quale, a propria volta, deriva da «pasto». La pastorale è pertanto l’insieme delle attenzioni e delle cure con le quali la comunità dei credenti si premura di offrire il cibo buono del Vangelo agli uomini e alle donne di ogni tempo. Come è a tutti noto, però, nessuno di noi mangia oggi come mangiavano i nostri antenati, remoti o prossimi che siano.
    In verità, l’essere umano in questo non cambia mai: nel suo essere in continuo cambiamento. Il corredo istintuale di cui è dotato non gli permette un’abitazione del mondo definita e stabilizzata per sempre. Egli interroga il reale, ne viene a propria volta interrogato e cerca così di scoprire pratiche di vita adatte alla sopravvivenza. Con il passare degli anni, poi, verifica quelle stesse pratiche, ne individua possibili miglioramenti e ne inventa di nuove. Da qui nasce ciò che chiamiamo cultura.
    Il nostro modo di portare Gesù a tutti e tutti a Gesù, allora, non può, di epoca in epoca, non misurarsi con questa condizione elementare dello stare al mondo di noi essere umani. Non esiste, dunque, un modo unico e definito per sempre per annunciare Gesù, che discenda limpido e inalterato dai primi discepoli del Signore sino a papa Francesco. Tutt’altro, lo specifico dell’azione pastorale della chiesa è esattamente la sua plasticità e disponibilità ad abitare i molti “mondi” e molti “tempi” che si danno nella storia dell’umanità.
    Tutto questo, poi, ha un valore di straordinaria attualità soprattutto per i nostri giorni, caratterizzati da ciò che con papa Francesco abbiamo imparato a nominare come «cambiamento d’epoca». Porgendo gli auguri alla Curia romana, un paio di anni fa, si è così espresso:
    Quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza.
    E papa Francesco ha ragioni da vendere nell’evidenziare questo grande cambiamento che ci tocca vivere e che nessuno può negare, quando si mette a confronto il nostro modo di vivere, di relazionarci, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni e di comprendere e di vivere la fede e la scienza, con quello che è stato il modo di intendere e vivere tutto ciò proprio dei nostri genitori e dei nostri nonni.
    Tutti noi siamo testimoni, a volte forse non del tutto pienamente consapevoli, dell’avvento di un nuovo, radicalmente diverso, modo di abitare l’umano che si è imposto con noi nati dopo la Seconda guerra mondiale. Come non riconoscere, infatti, che siamo passati, nel giro di pochi decenni, dalla vita dei nostri genitori e dei nostri nonni così breve, sacrificata, frustrata, esposta alle malattie, alla fame, alle guerre, alla povertà e all’ignoranza, alla nostra vita lunga, meno oberata di lavori manuali, ricca di possibili soddisfazioni, in buona salute, sazia, mediamente benestante e addirittura satura di informazioni? E tutto questo ovviamente grazie all’accrescimento formidabile dell’apparato tecnologico, grazie alle conquiste della medicina e della farmaceutica, grazie alla circolazione del denaro sempre più consistente, grazie ai sistemi di welfare sempre più performanti e grazie all’avvento della comunicazione digitale.
    Bisogna dunque dire che noi – con il nostro nuovo modo di vivere totalmente orientato alla libertà, alla potenza, al godimento, al fare esperienze, alla possibilità – siamo il cambiamento d’epoca. E bisogna pertanto riconoscere che c’è la necessità di ripensare la pastorale: i tutti a cui portare oggi il cibo buono del Vangelo sono milioni di volte differenti dai tutti a cui chi ci ha preceduti nell’esperienza del cristianesimo si rivolgeva. Per dire le cose con papa Francesco, serve un cambiamento di mentalità pastorale.
    Certo, non si tratta di un compito facile. Si possono capire le resistenze ad esso, si possono capire anche le reazioni contrarie ad esso. In ogni caso, la sua mancata esecuzione ci conduce verso un’unica direzione: quella di annunciare Gesù in questo tempo e in questo mondo, ma senza annunciarlo per questo tempo e per questo mondo. Il rischio, insomma, è di essere nel mondo e nello stesso tempo fuori dal mondo.
    E questa è cosa che i credenti, né oggi né mai, possono permettersi. Essi hanno un debito di Vangelo verso tutti che non possono mettere da parte. Non solo perché la parola di Gesù è quella che davvero può permettere agli uomini e alle donne di ogni tempo – e pertanto anche di questo nostro tempo – di giungere ad avere davvero una vita buona. Ma anche perché la dinamica propria della fede è quella della sua continua trasmissione. Come ha ricordato alcuni anni fa sempre papa Francesco, infatti, una fede che non ci mette in crisi è una fede in crisi; una fede che non ci fa crescere è una fede che deve crescere; una fede che non ci interroga è una fede sulla quale dobbiamo interrogarci; una fede che non ci anima è una fede che deve essere animata; una fede che non ci sconvolge è una fede che deve essere sconvolta.
    Riprendiamo, allora, con gioia il nostro compito di portare Gesù a tutti e di portare tutti a Gesù. E non lasciamoci scoraggiare se questo di fatto significa mettere in discussione una mentalità pastorale che ci orienta in questo compito da tanti secoli. Lasciamoci, invece, guidare da ciò che papaFrancesco dice in Evangelii gaudium proprio a proposito della predicazione ecclesiale: «Non bisogna mai rispondere a domande che nessuno si pone» (EG 155). Lo Spirito Santo ci protegga, pertanto, dal rischio di dare risposte a domande che nessuno si pone e che nessuno pone ai credenti e ai loro pastori e dal pericolo di non dare risposte a quelle domande che ciascuno oggi si pone e che forse non abbiamo il coraggio e l’attenzione di ascoltare, immaginando di conoscerle già, quelle domande. Cosa che purtroppo non è più così.


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