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    Democratico

    Giuseppe Angelini

    1. La democrazia costituisce indubbiamente un «bene», e cioè una realtà connotata dall'indice di valore positivo; essa è anzi uno dei beni più diffusamente ed enfaticamente apprezzati, nella tavola di valori caratteristica della società occidentale moderna.
    Ma che bene essa è? Come definirla? Quali sono le sue espressioni autentiche, e quali invece sono le sue contraffazioni, che rendono ad alcuni sospetto perfino il nome di democrazia?
    Anzitutto occorre riconoscere che il senso del termine è più largo di quello suggerito dall'etimologia, e cioè «potere (o governo) del popolo». Democrazia non designa semplicemente una forma di governo politico - una forma universalmente adottata e intenzionalmente perseguita come valore della società del cosiddetto «mondo libero» - ma uno stile o un atteggiamento complessivo tenuto dall'uomo nel rapporto sociale. Quando, ad esempio, una certa associazione professionale si dà il nome di «magistratura democratica», essa non intende in tal mondo esprimere semplicemente il proprio consenso ad una determinata forma di regime politico, ma intende esprimere il proprio consenso a più generali - e forse generici - ideali democratici. Da capo, che cos'è democratico?
    Già Erodoto (V sec. a.C.) diceva: «La democrazia porta il nome che più affascina: uguaglianza di diritti». Soltanto in secondo luogo egli aggiungeva, a definire la democrazia, i modi di elezione alle cariche pubbliche e la necessità per i governatori di sottoporre al pubblico tutte le loro deliberazioni.
    Uguaglianza di diritti: s'intende, non soltanto dei diritti relativi alla designazione dei governanti, ma più generalmente dei diritti che al singolo vengono riconosciuti dall'ordinamento civile nel suo complesso. L'impegno per il riconoscimento a tutti dei fondamentali «diritti dell'uomo» costituisce - almeno a livello di proclami nominali - una delle più insistenti espressioni dello spirito «democratico».

    2. a) Qui però si nasconde anche un inganno. Intendiamo riferirci all'inganno denunciato talvolta mediante il termine di «garantismo». Riferiamoci ad esempio ad un diritto concreto: quello al lavoro. La garanzia universale del diritto al lavoro equivale alla garanzia sempre e comunque a ciascuno del posto di lavoro, o magari di quel determinato posto di lavoro di fatto attualmente occupato? Anche a prescindere dalla concreta impossibilità economica di realizzare quest'ultimo obiettivo sembra che neppure in linea di principio si possa affermarne la legittimità. Infatti tra la garanzia di una possibilità di lavoro e l'effettivo lavoro realizzato dal singolo, sta la libertà del singolo e l'opera del singolo, stanno le sue capacità e le sue concrete prestazioni.
    Ad uguali possibilità in ipotesi offerte a tutti, corrispondono diverse prestazioni di fatto realizzate. Tale diversità assume anche i tratti di una «gerarchia» dei lavori: non solo nel senso che per le rispettive prestazioni alcuni lavoratori hanno competenze direttive nei confronti di altri, ma anche nel senso che le rispettive competenze hanno diverso valore, e quindi si rapportano reciprocamente secondo ragione di più e di meno. Che la «gerarchia» dei lavori si stabilisca di fatto non solo o non soprattutto in base a criteri di effettivo merito, ma in base a favoritismi e in genere ad abuso di potere, è pur vero ed è lesivo della democrazia. Ma questa eventualità non può essere combattuta semplicemente cancellando la «gerarchia» in questione, come antidem' ocratica, e fingendo che tutti i lavoratori siano uguali. Così invece talora accade, o almeno così si vorrebbe accadesse, appellandosi al principio «democratico». La conseguenza più facile è che l'automatismo di regole astratte - per loro natura adatte a conservare l'eguaglianza di tutti - cancelli tendenzialmente ogni rilevanza alla qualità concreta di ciò che ciascuno fa o potrebbe fare.

    b) La «democrazia» - e cioè la preoccupazione di escludere la differenza arbitraria e prodotta solo dal «potere» - conduce alla burocrazia, e cioè alla sovranità di regolamenti che in nessun modo tengono conto della realtà viva e concreta. Il rimedio alla degenerazione burocratica della giusta preoccupazione democratica non può venire, ultimamente, da nessuna riforma istituzionale; può venire soltanto da un costume, o da una riforma morale.
    Occorre, in altri termini, che nel momento del lavoro il singolo non si rapporti alla società semplicemente come l'individuo che rivendica diritti, e diritti uguali agli altri: ma abbia occhi ed interesse per la qualità dell'opera obiettiva, e sappia quindi anche giudicare dal punto di vista di ciò che obiettivamente conviene - e dunque, conviene per tutti.

    c) Altro settore nel quale è facile il fraintendimento dell'uguaglianza dei diritti è quello dell'espressione pubblica, e quindi della eguale libertà di espressione. Uguale deve essere - occorre in ogni modo cercare che sia - la possibilità di ciascuno di accedere alle tribune pubbliche. Uguale però soltanto nel senso di non diversificata in base a criteri arbitrari e legati al nudo potere; non «uguale» sotto ogni profilo. La parola pubblica ha senso e valore in rapporto a quel singolo canale di comunicazione pubblica che la veicola, e al servizio ch'esso deve produrre per tutti.
    L'espressione di un insegnante a scuola, ad esempio, non ha il senso di una dichiarazione di opinione o comunque di convincimento personale, ma quello di un'istruzione, di un aiuto alla crescita culturale di chi ascolta. E in rapporto a tale senso, le singole parole potranno essere riconosciute come diversamente rilevanti, o al limite anche del tutto impertinenti.
    Il criterio secondo cui giudicare non dovrà essere quello dell'eguale diritto delle singole persone ad esprimersi, ma quello dell'eguale diritto degli alunni ad avere un insegnamento relativamente completo ed obiettivo, e non legato alla casualità dei convincimenti degli insegnanti che sono loro capitati.
    Così si dica per i canali della comunicazione televisiva o giornalistica: il fruitore di quei messaggi non ha alcun interesse all'uguale espressione di sè da parte dei giornalisti - come invece talvolta sembra pretendere un malinteso giornalismo «democratico» - ma all'espressione di quei giornalisti che di fatto mostrano più capacità professionale e dunque più idoneità a produrre un'informazione insieme obiettiva e intelligente (sempre l'intelligenza suppone l'interpretazione e quindi l'andare oltre la semplice giustapposizione delle notizie). Chi è arbitro di tali capacità?
    Ecco, un tale arbitro non si può determinare a furia di regolamenti e commissioni parlamentari; ma potrebbe esserlo un'opinione pubblica alla quale fosse realmente riconosciuta la possibilità di esprimersi: è questo uno degli obiettivi più importanti della «democrazia» odierna.

    3. L'esemplificazione potrebbe continuare. Ne riassumiamo il senso complessivo con un paio di formule.

    a) L'eguaglianza dei diritti non deve essere confusa con un'impossibile eguaglianza dei cittadini sotto ogni profilo, in particolare sotto il profilo delle effettive prestazioni e connesse competenze relativamente alla vita sociale.

    b) La considerazione effettiva delle esigenze del bene comune deve venire al primo posto in tutti i momenti della vita sociale, per loro natura finalizzati al perseguimento del bene di tutti. È da condannare perciò la tendenza a subordinare il perseguimento del bene comune a vantaggio dell'esclusiva attenzione ai «diritti di chi lavora». Soltanto così si tenderà realmente a quell'eguaglianza di diritti, che altrimenti viene inevitabilmente compromessa dalle gelosie corporative dei privilegi.

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