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    Desiderio

    Giuseppe Angelini


    1.
    La parola «desiderio» non appartiene al novero di quelle parole che hanno una precisa tradizione di pensiero alla spalle, e neppure è di uso tecnico o «topico» nel linguaggio oggi corrente: essa manca di «luogo» (topos) caratteristico, che aiuti ad individuarne il senso. Tuttavia essa non si può certo considerare come una parola rara e marginale nell'uso di oggi e di sempre. C'è un'espressione, divenuta in qualche misura caratteristica in tempi recenti, che ne fa impiego: ci riferiamo all'espressione «cultura del desiderio». Essa designa una «cultura» - ma meglio diremmo una «mentalità», un atteggiamento esistenziale - che accorda immediatamente al desiderio la dignità di valore, in rapporto al quale esprimere ogni giudizio a proposito di comportamenti individuali e di situazioni obiettive.

    Sotto questo profilo la «cultura del desiderio» sarebbe viziata da una sorta di mentalità «magica», da un infantile delirio di onnipotenza, quasi che fosse sufficiente desiderare per rendere possibile, e quindi reale. Per chiarire questa figura, possiamo riferirci all'immagine del sogno che è proposta da S. Freud: un bisogno qualsiasi, che per essere soddisfatto chiederebbe di agire (e quindi di svegliarsi e misurarsi con la realtà), suscita dal vasto e confuso bacino della memoria un'immagine la cui presenza fantastica sia sufficiente ad appagare il desiderio, e a consentire dunque di continuare il sonno.
    Come si sa, il meccanismo del sogno è trasferito da Freud all'interpretazione dei sintomi nevrotici: essi costituirebbero la realizzazione quasi allucinatoria di desideri inconsci, di desideri cioè rimossi dalla coscienza perchè irrealizzabili, e dunque tali da non poterne sopportare la consapevolezza lucida e frustrante. La «cultura del desiderio» è tuttavia fenomeno collettivo - proprio per questo è usata la parola «cultura» - riconosciuto in particolare nei diffusi atteggiamenti giovanili della generazione sessantottesca, che esigeva «la fantasia al potere». Quella era una generazione sognante - così pressappoco suona il giudizio implicito nell'espressione «cultura del desiderio» - che non sopportava di essere svegliata e di doversi quindi confrontare con i limiti del possibile che sono i limiti stessi della realtà.

    2. Ma al di là del fenomeno fragile e caduco - anche se in realtà per nulla caduto neppure oggi - della «cultura del desiderio», rimane indubitabile e serio l'interrogativo circa il senso del desiderio nella vita umana. Perchè se è vero che il desiderio non basta a suscitare una realtà bella e buona, è anche vero che il desiderio è indispensabile perchè quella realtà diventi possibile. Dall'analisi «scientifica» - che è come dire obiettiva, impersonale, spassionata - del reale non nasce alcun possibile per il quale meriti di spendere energie e passioni. In tempi nei quali era più diffusa la persuasione che il possibile - quel possibile davvero prezioso al quale merita di legare il destino dell'uomo - dovesse nascere dal cielo e non dalla terra, prese origine la leggenda della notte di San Lorenzo. Essa diceva che in quella notte, qualora tu sia pronto ad esprimere un desiderio al cadere di una stella, il tuo desiderio si avvererà; ma se tu non hai pronto un desiderio, la stella cade inutilmente. La parentela del desiderio con le stelle, d'altra parte, è più antica di quanto non dica la leggenda di San Lorenzo: risale addirittura all'origine stessa della parola. Dicono gli studiosi di etimologia che de-siderare (latino) si oppone a con-siderare, e considerare è ciò che si può fare quando le stelle (sidera) sono amiche.
    Desiderare è come avvertire un difetto di corrispondenza delle stelle a ciò che l'uomo per altro non saprebbe esprimere senza il loro aiuto. Questa origine oscura del termine attesta l'originaria consapevolezza degli uomini della differenza fra desideri e progetti; l'uomo può elaborare progetti, ma non può elaborare desideri: questi gli debbono essere in qualche modo donati dal cielo. Ma anche in questo caso - come nel caso di ogni altro dono - il dono del cielo non può divenire proprio dell'uomo se non a condizione che l'uomo vi creda, si impegni nell'accettazione di esso, concluda per così dire un patto di alleanza con il cielo. Quando egli abbia ottenuto mediante un tale patto la capacità di nutrire desideri allora anche la terra gli sarà di qualche utilità. Ma se nel suo animo non si accende nessun desiderio, allora anche la terra appare inutile e vuota.

    3. Alcuni filosofi del '900 hanno tentato alcune vie meno suggestive, ma un pochino più precise, per chiarire la figura del desiderio umano: quelle di mettere una tale figura a confronto con altre apparentemente simili, ma in realtà radicalmente diverse.
    S'è tentato così di paragonare e contrapporre il desiderio a i desideri (cfr. Y. Lacroix, Le désir et les désirs, P.U.F. Paris 1975, sulla scorta di M. Blondel), pressappoco come un altro filosofo francese (G. Marcel) contrapponeva l'esperance e les espoirs (cfr. Homo viator, Boria Torino 1967).
    I desideri hanno un oggetto determinato e proprio per questo motivo stanno in reciproca tensione, in eventuale contraddizione. In ogni caso l'anticipata rappresentazione, e più ancora la anticipata emozione attesa dalla loro soddisfazione, si scopre sempre in eccesso rispetto all'effettivo esito della soddisfazione realizzata. Che conclusione trarne? Forse che i desideri possono alimentare l'attesa dell'anima e polarizzare le sue energie soltanto tramite l'illusione?
    Oppure non è così, ma tutti i desideri determinati dell'uomo debbono essere riconosciuti quali figure solo parziali, eppure indispensabili, di un desiderio più radicale e irrinunciabile, che non consente rappresentazione adeguata? Questa è appunto la tesi di Lacroix, così come di Blondel.
    Ad esito analogo conduce la riflessione sul rapporto tra bisogno e desiderio. Il primo è definito in rapporto ad una mancanza, ad un'indigenza determinata dell'uomo (fame, sete, sonno, stanchezza, ecc.), avvertita psicologicamente anzitutto nella forma di un disagio. Non basta tuttavia il disagio a muovere la volontà e tutte le energie operative dell'uomo. A questo scopo occorre che il semplice disagio diventi inclinazione. Ma l'inclinazione propriamente umana - e cioè della coscienza - non può realizzarsi altro che attraverso l'immagine: attraverso l'anticipazione dunque di un futuro possibile del soggetto stesso che abbia insieme i tratti del futuro buono. Tale anticipazione appunto costituisce il desiderio. Ma è possibile intendere il desiderio, e quindi l'immagine che lo polarizza, quale aspirazione a ripetere un soddisfacimento già conosciuto? Così pensa, ad esempio, S. Freud: il desiderio appare in tal senso a lui quale ricerca del «piacere», e il «piacere» ha sempre la figura del già noto, del già vissuto. Desiderare equivarrebbe sempre a perseguire l'obiettivo del ritorno alle immagini infantili della soddisfazione del bisogno. La policromia del desiderare umano sarebbe soltanto una complicazione delle esperienze primitive.

    4. L'alternativa al pensiero di Freud - e in genere d'ogni dottrina che riduca l'uomo a bisogno - è quella offerta da una concezione simbolica della coscienza. Il desiderio si rivolge in ogni caso al di là di tutto ciò che ha nome sulla terra: ad esso dunque può essere dato nome solo simbolico. La tradizione del pensiero religioso è in proposito eloquente. Le figure mediante le quali si esprime il desiderio dell'uomo biblico, ad esempio, sono quelle del figlio (cfr. Abramo), o quelle della terra (cfr. l'Alleanza mosaica) o quella del Regno messianico (cfr. tutta la predicazione profetica), e molte altre. In ogni caso soltanto di figure si tratta: di nomi cioè che non si riferiscono a realtà materialmente e storicamente definite, ma che attraverso quelle realtà istituiscono il presentimento di un compimento del desiderio umano che non è nel potere dell'uomo, e quindi della sua storia.
    La necessità di parlare per figure non cessa neppure con l'avvento di Cristo: tutte le beatitudini descrivono il destino felice dell'uomo (del povero, del mite, dell'altamato, eccetera) attraverso immagini dell'esperienza (il regno, il possesso della terra, la sazietà, eccetera). Esse insinuano in tal modo la speranza che il desiderio, o i molti desideri che l'uomo insegue nel suo cammino nel tempo non sfuggiranno come fugge il tempo, ma troveranno un compimento. Ad una condizione: che l'uomo vi creda e lasci quest'ultimo compimento alla sovranità di Dio, anziché sostituirvi quei compimenti mediocri che sono gli unici in suo precario potere.

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