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    Diritto

    Giuseppe Angelini


    1. La vicenda di questa parola, nell'evoluzione complessiva del linguaggio moderno, ci impone di ritornare alla considerazione di una tendenza caratteristica e insieme problematica della civiltà contemporanea: intendiamo dire della tendenza all'individualismo. Il fatto non sorprende, in quanto quella tendenza costituisce obiettivamente -almeno a nostro giudizio - uno dei massimi problemi della nostra civiltà.
    Per «individualismo» intendiamo anzitutto quella posizione ideale che apprezza l'individuo e le sue molte libertà come i massimi valori, ai quali deve orientarsi la stessa organizzazione dei rapporti sociali. Ma intendiamo anche, e più radicalmente, quel modo di vedere che concepisce l'uomo stesso come individuo: e cioè, come soggetto la cui identità, singolare ed indivisibile, sarebbe determinata a monte rispetto ad ogni rapporto sociale. L'uomo-individuo vive conseguentemente il rapporto sociale soltanto nell'ottica delle opportunità ch'esso gli offre di raggiungere i suoi fini individuali: fondamentalmente, soddisfazione ed espressione di sé.
    La concezione dell'uomo come individuo è inadeguata. Ciascuno lo può e lo deve riconoscere, appena vi rifletta un poco.
    Le stesse nuove scienze umane - e cioè, le scienze empiriche quali la psicologia e la sociologia - riconoscono unanimemente come il singolo non sia in grado di dare figura ai propri bisogni, alle proprie aspirazioni, ed infine alla sua stessa identità se non grazie anche al rapporto sociale. Eppure questa evidenza continua ad essere rimossa a molti livelli della cultura, in particolare a livello di cultura politica. Il sistema dei rapporti civili è qui spesso inteso quale semplice apparato strumentale volto al soddisfacimento dei bisogni o rispettivamente alla garanzia dei «diritti» dell'individuo: bisogni e diritti che si suppongono definiti a monte rispetto a quel sistema.

    2. In questa luce occorre considerare ed intendere la tendenziale variazione di senso della parola «diritto». Una volta essa aveva significato oggettivo: designava cioè la norma oggettiva «giusta» e il diritto era inteso come moralmente impegnativo per la libertà del singolo. Di conseguenza l'osservanza del diritto non era intesa quale semplice necessità strumentale, per partecipare dei vantaggi della vita associata; ma era intesa come dovere morale. Il rispetto del diritto apparteneva al numero dei fini morali delle persone. Oggi invece «diritto» ha prevalente significato soggettivo: designa cioè ogni attesa legittima dell'individuo nei confronti del sistema sociale; «legittima» vuol dire tale da meritare una tutela mediante «legge». In questa accezione, «diritto» è parola usata normalmente al plurale. Le moderne proclamazioni dei «diritti dell'uomo» costituiscono la forma prevalente che assumono le dichiarazioni di principio poste a fondamento di un ordinamento giuridico.
    I cosiddetti «diritti dell'uomo», quando li si consideri attentamente, appaiono in realtà per lo più come diritti dell'individuo: la vita, la salute, il lavoro, le molte altre forme di «sicurezza» sociale, e soprattutto le molte forme di «libertà» (di pensiero, di parola, di associazione, di movimento, etc.). Mancano in genere enunciazioni relative a quei «diritti» che si riferiscono alle condizioni sociali della maturazione della persona: pensiamo al diritto del figlio ad avere una famiglia, del minore in genere ad avere un'educazione (non una semplice istruzione), del cittadino ad avere un'informazione seria, completa, attendibile. Già solo l'enunciazione di questi ipotetici «diritti» suscita subito un'evidente difficoltà: essa infatti sembra debba di necessità fare riferimento a valori morali obiettivi. Per garantire la libertà dell'individuo nelle sue decisioni relative allo stato familiare non c'è bisogno di un'idea normativa di famiglia; per garantire invece il bene che è la famiglia a chi non è in grado di rivendicarlo occorrerebbe avere un'idea di quel bene. Ora - si sa - la morale è divenuta oggi materia estremamente controversa, e soprattutto materia considerata di esclusiva competenza «privata». Le leggi della convivenza sociale - l'antico «diritto» nell'accezione obiettiva - debbono dunque tendenzialmente prescindere da ogni presa di posizione morale, non potendosi presupporre un consenso sociale su questa materia.
    L'interesse dei figli - per riferirci a questo solo esempio - sarà tutelato facendo al massimo riferimento a valori d'ordine psicologico, ma non etico.
    La separazione tra diritto e morale è ormai generalizzata, ed è strettamente legata alla concezione del diritto oggettivo quale sistema a tutela dei diritti individuali. Essa merita qualche più precisa considerazione.

    3. Quella separazione è chiaramente teorizzata - e non solo praticamente realizzata - fin dall'epoca illuministica, dunque nell'epoca che conosce per eccellenza l'epopea dell'individuo. Il diritto è fatto esteriore, la morale è fatto di coscienza. «Ciò che l'uomo fa per obbligazione interna e in conformità alle regole dell'onesto e del decoroso è diretto dalla virtù in generale, e per esso l'uomo si dice virtuoso, non giusto; mentre ciò ch'egli fa secondo le regole del giusto o per obbligazioni esterna è diretto dalla giustizia e fa sì ch'egli possa dirsi giusto». Così si esprimeva Thomasius (1655-1728). Non diversamente anche il più illustre moralista dell'epoca moderna, I. Kant, definisce il diritto come «insieme delle condizioni per mezzo delle quali l'arbitrio dell'uno può accordarsi con l'arbitrio dell'altro secondo una legge universale di libertà». Dal punto di vista dei rapporti sociali e delle loro regole, «libertà» diventa dunque sinonimo di «arbitrio»; se poi la libertà individuale non sarà -non dovrà essere - arbitrio, ciò accadrà in forza di un imperativo morale, che è questione insindacabile della coscienza. A questa dissociazione tra diritto e morale è da collegare la formula davvero eccessiva dello stesso Kant, secondo cui «diritto e facoltà di costringere significano la stessa cosa».
    La separazione tra diritto e morale fa seguito, nella storia del pensiero, alla precedente concezione «razionalistica» del diritto naturale. Secondo tale concezione, la regola obiettiva («diritto») del vivere sociale sarebbe regola «naturale» e oggettivisticamente e scientificamente deducibile, anche a prescindere da ogni concezione religiosa - «anche se Dio non ci fosse», come si esprime U. Grozio (1583-1645), iniziatore dell'idea «secolarizzata» di «diritto naturale». Una tale «secolarizzazione» è storicamente indotta dalla necessità di trovare un possibile fondamento della vita civile, diverso da quello religioso, che aveva portato alla divisione dell'Europa e alle conseguenti guerre di religione.

    4. Tale fondamento, se pure deve prescindere dall'ormai inesistente consenso religioso, non può invece prescindere da un certo consenso morale. E il consenso morale è - appunto - consenso morale, e non consenso su un'evidenza tecnica. Il diritto non può essere pensato come la soluzione tecnica di un problema relativamente preciso, come sarebbe quello di garantire il massimo di libertà e il massimo di vantaggi per tutti tenendo conto delle inevitabili interferenze tra uomo e uomo.
    In tali termini si può - forse - formulare il problema del miglior sistema economico. Il giudizio di convenienza o inconvenienza del mercato di libero scambio, ad esempio, può essere enunciato in termini tecnici: e cioè, valutando la sua idoneità o meno a garantire il fine dell'utilizzo ottimale delle risorse e della loro equa distribuzione. Ma il diritto non è come il mercato. Esso deve trovare il proprio fondamento nell'idea di «giusto», e non in quella di «utile». Certo, il diritto non è astratta e incondizionata definizione di ciò che è «giusto»: è piuttosto il tentativo sempre nuovamente aggiornato di dare figura storica, nella forma di un sistema di norme certe, a ciò che un gruppo umano riconosce come modello degno della vita sociale. Ma perché si possa parlare di un tale modello «degno», occorre che i singoli riconoscano alla vita sociale in genere la dignità di bene morale, e non semplicemente di bene utile in ordine ai fini individuali. Che tali norme debbano poi essere sanzionate, e rese così in qualche modo almeno esteriormente coercitive anche per colui che volesse sottrarvisi, lo si comprende quando si consideri questo dato indubitabile: la sempre possibile infrazione delle norme da parte del singolo determinerebbe l'incertezza generale del sistema dei rapporti sociali. La necessità della sanzione, e dunque del potere che essa presuppone, spiega come la statuizione del diritto passi anche attraverso il confronto delle «forze» sociali; e dunque attraverso il possibile loro conflitto. Ma sarebbe - e anzi, di fatto spesso è - mortificazione obiettiva dell'idea di diritto quella che ne facesse la semplice risultante di un conflitto di interessi.
    Ogni parte politica - se veramente politica, e non semplice corporazione di interessi privati - dovrebbe proporre come possibile «legge» soltanto ciò che
    può giustificarsi sullo sfondo di una concezione complessiva della società «giusta» in una determinata situazione storica.
    La rivendicazione unilaterale dei «diritti» soggettivi, vuoi degli individui, vuoi della aggregazioni «private» di interessi, conduce il confronto civile a semplice lotta per la spartizione del potere sociale. Unilaterale è quella rivendicazione, quando essa non si accompagni al disegno complessivo (politico) di una possibile società giusta, e dunque non si misuri con il problema di ciò che è effettivamente possibile in una determinata situazione storica.

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