Impegnato
Giuseppe Angelini
1. «Un film impegnato», oppure un «romanzo impegnato», e in generale «un'arte impegnata»; e ancora, «un cristiano impegnato», «un socialista impegnato», «un ecologista impegnato»: tutte queste espressioni e molte altre simili attestano l'uso assoluto dell'aggettivo «impegnato», e cioè l'uso che consente di non specificare di che specie di impegno si tratti. Che cosa vuol dire «impegnato» in tutti questi casi? E che valore dare all'impegno in questione? Si tratta di un aggettivo che esprime un apprezzamento positivo o negativo? Notiamo subito che non sempre alla diffusione dell'aggettivo corrisponde una grande e precisa consapevolezza del suo significato. Anzi, talora - o addirittura spesso? - sembra che l'aggettivo serva a relegare l'opera o la persona a cui è attribuito in un limbo che non riguarda colui che parla.
Eloquente, a questo proposito, è l'uso dell'aggettivo connotato da una sfumatura di ironia: un uso non proprio raro. Un uso che manifesta non tanto la qualità dell'impegno proprio dell'opera o della persona cui è attribuito, ma il disimpegno di colui che ne fa uso. Pensiamo ad esempio all'espressione «cristiano impegnato»: difficilmente è usata da chi personalmente coltiva un impegno del genere; quanto meno egli specificherà il campo di impegno cristiano del quale si tratta. Mentre del «cristiano impegnato» parlano facilmente coloro che non sono impegnati, e che guardano a lui con un misto di sorpresa, ammirazione, incredulità, ma soprattutto estraneità.
L'uso più frequente ed emblematico, per illustrare questo genere di significato, è quello di chi si riferisce ai film. «Ho visto un film impegnato»: e cioè? Quale trama di pensieri sta sotto un tale modo di esprimersi, che alla lettera - occorre riconoscerlo - appare senza senso? Anzitutto, è presupposto che i film in genere non siano, nè debbano essere «impegnati»: si va al cinema per divertirsi e non per pensare. E quindi anche il film abitualmente non impegna, ma consente a chi lo vede di rimanere semplice spettatore, divertito o annoiato. In ogni caso non gli è richiesto di prendere posizione sulla cosa, se non nella forma assai poco impegnativa del mi-piace / non-mi-piace. Ma colui che dice «Ho visto un film impegnato», mentre da un lato riconosce che quello in questione non era un semplice film spettacolo, dall'altro suggerisce anche con discrezione la sua non disponibilità ad accogliere la provocazione che dal film veniva.
«Ho visto un film impegnato» - sottinteso: uffa! che noia. O magari solo: non chiedermi di più, accontentati di sapere il genere della cosa; è un genere per il quale io sono allergico, o almeno incompetente. Specie quando si tratta di film, l'«impegno» circoscrive un genere, per altro raro ed eccezionale, che appare remoto dalla competenza e magari anche dall'interesse dei più.
A procedere dall'esempio del film, potremmo tuttavia facilmente descrivere fenomeni analoghi che riguardano non solo l'opera d'arte, ma anche la persona «impegnata» - s'intende nella politica, nel sindacato o magari nella parrocchia, in genere in realtà sociali precostituite rispetto all'iniziativa del singolo. Non si usa la categoria «impegnato», quando si tratti di un interesse - magari assai impegnativo - che sia però coltivato solo personalmente. In questo caso si usa la parola 'hobby'; oppure quella meno futile di 'interesse'.
Manca in genere quella sfumatura di ironia che viceversa facilmente accompagna - come dicevamo - l'aggettivo «impegnato». Gli interessi o gli hobbies altrui sono una faccenda personale, che non mi riguarda: l'impegno invece è facilmente sentito come una faccenda che mi interpella, e nei cui confronti dunque mi difendo.
2. Il vocabolario dell'«impegno» non è tuttavia usato soltanto in questa chiave, cioè per difendere il disimpegno. È usato anche - ed anzi, originariamente è usato solo - da chi dell'«impegno» stesso è fautore. Tipicamente, da coloro che militano in un partito, in un sindacato, in un movimento religioso o culturale, magari anche in una parrocchia. La raccomandazione dell'«impegno» acquista, in tal caso, il significato esplicito di una denuncia. Si tratta certo di una denuncia ancora generica, e tuttavia non vuota, nè impertinente al suo fondo. La denuncia è quella nei confronti di uno stile di vita frequente, specie all'interno della moderna società complessa. Intendiamo riferirci allo stile di vita caratterizzato dalla permanente riserva della persona rispetto ad ogni formazione sociale determinata. «Non ho sposato il partito»: é ovvio, non si potrebbe in alcun modo obiettare. E tuttavia, davvero il rapporto con il partito a cui si sia dichiarato il proprio consenso non ha in alcun modo i tratti di un «matrimonio»? Il dovere fondamentale scaturente da un vincolo matrimoniale è quello della fedeltà: e la fedeltà ha appunto per eccellenza i tratti dell'impegno, e cioè del vincolo che lega la persona, e non semplicemente questa o quest'altra sua prestazione determinata. Può una realtà sociale come un partito, un movimento, una Chiesa, comportare un «impegno» in quest'accezione precisa? E cioè, legare eticamente la libertà, esigere una fedeltà, e non semplicemente l'assolvimento di questo e quest'altro compito determinato espressamente assunto?
3. All'argomento ha dedicato una prolungata ed appassionata riflessione un pensatore cattolico francese, morto nel 1950, fondatore ed animatore della rivista Esprit, che polarizzò la riflessione di un gruppo significativo di cattolici «impegnati» negli anni '30 e '40: Emmanuel Mounier. A lui, e alla sua rivista, il cattolicesimo francese e non solo francese è debitore per quanto attiene alla filosofia dell'engagement.
Riportiamo alcune sue righe significative, in ordine alla comprensione dell'«impegno» quale accettazione della coimplicazione personale in situazioni storiche e sociali obiettive, che mai possono essere assolutamente «pure»:
Una filosofia per la quale esistano valori assoluti è tentata di attendere, per agire, cause perfette e mezzi irreprensibili: tanto vale rinunciare all'azione. L'Assoluto non è di questo mondo e non è commisurabile a questo mondo; noi infatti non ci impegniamo che in lotte discutibili intorno a cause imperfette: rifiutare per questo l'impegno vorrebbe dire rifiutare la condizione umana.
Si aspira alla purezza: ma troppo spesso si chiama purezza l'ostentazione dell'idea generale, del principio astratto, della situazione ideale, di buoni sentimenti, come la interpreta il gusto intemperante delle maiuscole: proprio il contrario di un eroismo personale (E. Mounier, Il personalismo, Garzanti, Milano, 1952, p. 106).
L'impegno esprime dunque nel linguaggio di Mounier quell'aspetto dell'agire etico per cui la persona accetta d'iscrivere, e prima ancora di riconoscere, i tratti dell'idealità morale nella trama di rapporti storici, pur nella consapevolezza del rischio di «sporcarsi le mani». Impegnarsi in tal senso, d'altra parte, non è semplicemente un dovere, è una necessità, a cui soltanto illusoriamente si può sfuggire. Infatti,
non scegliamo nemmeno le situazioni di partenza che sollecitano la nostra azione; esse anzi ci provocano quando meno ce lo aspettiamo e in modo diverso da come prevedevano i nostri schemi: occorre rispondere subito, tentando e provando, proprio quando la nostra indolenza si preparava ad «abdicare». Si parla continuamente di impegnarsi come se ciò dipendesse da noi: ma noi siamo già impegnati, imbarcati nell'avventura, pre-occupati. Perciò l'astensione è un'illusione. (p. 107, ib.).
Questa è la verità cruciale, insinuata attraverso la simbolica dell'«impegno» nella sua accezione più positiva. Verità tanto più necessaria, quanto più l'universo civile, e per molti tratti anche una certa educazione cattolica, persuadono alla riserva distaccata nei confronti di ogni situazione storica determinata.
4 L'universo civile persuade al disimpegno. Divisa tra le esigenze disperse e talvolta contrastanti di molte appartenenze (famiglia, amici, lavoro, politica, etc) la persona sembra naturalmente incline a difendere il proprio spazio privato e il proprio equilibrio psicologico ponendo limiti precisi ad ogni suo impegno. La sua appartenenza sarà sempre condizionale.
La dedizione sarà sempre limitata a questo o a quell'altro compito prevedibile, fino a che non intervengano imprevisti. Gli stessi rapporti personali tendono a convertirsi in rapporti «reali»: e cioè, in rapporti misurati dalle cose che si fanno o che si danno, mai tanto gravi da impegnare la persona stessa, i suoi pensieri e sentimenti, la sua fedeltà. La persona è sempre 'dietro' tutte le prestazioni sociali: essa si risparmia - per quell'occasione, quel rapporto, per quell'avventura capace di strapparle un consenso incondizionato, ma che ovviamente non verrà mai.
Di contro a questo stile di cautela e riserva, la spiritualità dell'«impegno» suggerisce la generosità: vale a dire, la dedizione audace, che sa promettere. «Promettere» è quasi sinonimo di «impegnarsi»; promettere d'altra parte equivale ad ipotecare il futuro, concedere all'altro e agli altri un pegno, del quale essi possono valersi per chiederci domani quello che sarà necessario. Promettere però non vuol dire abdicare alla propria libertà e al proprio diritto - dovere di discernimento. Non vuol dire intrupparsi, e sostituire una qualsivoglia causa collettiva alla causa del bene, che sola può impegnarci incondizionatamente.
Promettere vuol dire piuttosto riconoscere che quella causa incondizionata si esprime anche in questa o quell'altra causa storica determinata; ad essa dunque diamo il nostro consenso, impegnandoci a farla essere ciò che essa può e deve essere, ed evitando di fare del limite storico un'alibi per il disimpegno. L'aspetto fastidioso, che obiettivamente assume l'insistenza sull'«impegno» nella retorica militante di questo e quest'altro movimento, è da interpretare come pressione indebita esercitata sulla libertà individuale e volta ad ottenere il consenso e la dedizione indiscriminata («fanatica») nei confronti di tutto quanto è intrapreso nel movimento stesso, solo perché è posto sotto il segno della causa comune. L'impegno vero non esclude, ma anzi esige, il discernimento critico e la disponibilità a confrontare sempre da capo la causa obiettiva con la causa ideale.
In tal senso Mounier diceva che dell'impegno fa sempre parte anche il disimpegno - inteso però non come esonero della persona, ma come vigilanza nei confronti di ogni fanatismo.
5 Anche una certa educazione cattolica, si diceva, può alimentare equivocamente un cattivo disimpegno. Alludiamo in particolare a quella morale della «buona intenzione», che troppo indiscriminatamente induce ad accontentarsi dell'intenzione, lasciando l'opera obiettiva al suo ineluttabile destino di compromissione ed incompiutezza. La serietà dell'intenzione non può attestarsi altrimenti che nella forma di un attaccamento appassionato anche al destino storico dell'opera.
Perché, oltre tutto, soltanto attraverso la prova del tempo e della fedeltà le nostre intenzioni buone si chiariscono, si precisano, e diventano buone del tutto. All'inizio anche la più buona intenzione si mescola inevitabilmente ad una certa dose di buona illusione, ad un'attesa di gratificazione, o magari soltanto ad una speranza di espressione personale. Tutte motivazioni queste che, per quanto dipende da esse, inducono un atteggiamento di cautela delle persone nei confronti dell'opera intrapresa.
«Impegnato» può essere solo chi accorda un credito, offre un «pegno» appunto, accetta un vincolo personale, che certo si riserva di determinare nei suoi contenuti più precisi alla luce dell'esperienza, e tuttavia contrae subito, senza lasciarsi scoraggiare dalla vaghezza dei contenuti futuri.
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