Libertà / liberazione
Giuseppe Angelini
1. Le cronache ecclesiastiche recenti hanno riproposto all'attenzione di tutti, in Italia e nel mondo, il tema della «liberazione». Ad essa s'intitola una corrente teologica, o meglio s'intitolano molte correnti teologiche, non esattamente unanimi nè chiaramente distinte, dell'America Latina. Ma al medesimo tema s'intitolano parecchi movimenti storici del nostro tempo: da quello della resistenza antifascista a quello della «liberazione della donna». Non intendiamo qui occuparci di questi molteplici e disparati movimenti. Intendiamo piuttosto affrontare un interrogativo più radicale, che deve necessariamente nascere dal diffuso impiego del termine «liberazione»: per quale «libertà»? O addirittura, è possibile, è necessario riferirsi ad un'immagine della «libertà», per poter impegnarsi in un qualsivoglia processo di «liberazioni»? Oppure occorre definitivamente rinunciare ad un valore così improbabile come quello della «libertà», e inseguire un'interminabile serie di «liberazione»? Soltanto attraverso l'indice di sempre nuove «schiavitù» l'utopia della libertà si dà a conoscere?
Il sospetto che può, ed anzi deve, nascere in tutti noi è infatti quello che la «libertà» sia un bene così raro ed oscuro, da poterne riconoscere ed apprezzare il valore soltanto quando essa è negata. C'è sempre un nemico, o un padrone, o un «dominatore», contro il quale riscattare la «libertà». Sarebbe davvero triste dover concludere così: la «libertà» è quella che gli altri ci tolgono. E se non sono gli altri, sono le circostanze, i limiti di una situazione obiettiva che non offre più di tante possibilità alla tua intraprendenza.
2. La persuasione di molti pensatori, e soprattutto la persuasione pratica vissuta da molti uomini nella loro vita concreta, é esattamente questa: che cosa sia «libertà» appare chiaro soltanto quando la nostra iniziativa si scontra con un ostacolo. E allora la «libertà» è ciò che sta oltre l'ostacolo. Essa non è esperienza di oggi, ma solo meta per domani, termine di una «lotta»: la «liberazione» infatti ha sempre la fisionomia di una «lotta», ciò che corrisponde alla sua dignità e magari anche ai suoi «diritti» dovrebbe sempre emergere attraverso l'indice «negativo» di una resistenza.
Viene in mente, a questo proposito, la considerazione frequente e un po' fastidiosa che gli anziani fanno a proposito dei giovani e della loro perpetua insoddisfazione: «Hanno troppo, hanno tutto. Se avessero conosciuto, come abbiamo conosciuto noi, la stentatezza, la fatica, magari anche la fame, saprebbero apprezzare di più quello che hanno».
La conseguenza paradossale che potrebbe essere tratta da questo modo di pensare è quella che è meglio mantenere gli uomini nelle necessità, perchè sappiano apprezzare i beni che non hanno, o che hanno solo in scarsa misura. E perché allora non applicare la legge generale anche al bene supremo della libertà? Se la concediamo in misura limitata e scarsa, gli uomini sapranno apprezzarla; se ne concediamo troppa, andrà a finire che essi impareranno a disprezzarla. La conclusione è assurda evidentemente.
Eppure c'è anche qualche verità in quel modo di pensare. È vero che la «liberazione dal bisogno» ha generato bisogni nuovi, confusi, magari decisamente sciocchi, quali sono quelli indotti dalla pressione consumistica della società. Bisogni nuovi, ma insieme irreali: bisogni finti, che sembrano inventati soltanto per non lasciare ozioso il desiderio, ma che in realtà non persuadono. Bisogni, che, una volta soddisfatti, lasciano vuoto il cuore e la vita dieci volte più di prima. È inoltre allarmante questo fatto: che la parola «libero» sia oggi usata soprattutto per qualificare un tempo della vita, che è spesso tra i più vuoti e più facilmente sprecati di tutti i tempi. «Tempo libero» equivale spesso a tempo ozioso, od al massimo, a tempo di «evasione», tempo da spendere, tempo per divertirsi - come a dire tempo per volgersi a ciò che non c'entra, a ciò che è esteriore ed estraneo. Sembra una legge quasi infallibile: il tempo libero è tempo deludente, perché è tempo arbitrario, tempo speso a casaccio.
3. C'è forse una verità un po' più profonda nel lamento degli anziani circa i giovani che hanno tutto. Il tempo dell'assenza, del bisogno, della fatica, della distanza da ciò che si desidera - quel tempo che a loro giudizio i giovani più non conoscono - è anche il tempo in cui cresce l'immagine di ciò che si desidera. Tutti possiamo intuire la differenza di senso e di valore tra «voglia» e «volontà». Una «voglia» è una cosa passeggera, un capriccio, un amore un po' confuso ed incerto; una «volontà» invece è una decisione, una direzione impressa alla vita, un investimento della persona tutta. Ma come fare perché la semplice «voglia» diventi finalmente «volontà»? È difficile dirlo in poche parole. Ma subito possiamo riconoscere che c'entra anche il tempo, e la distanza che esso introduce tra la «voglia» e la sua soddisfazione.
Pensiamo ad esempio a quelle piccole «voglie» che nascono tanto facilmente nei rapporti tra ragazzi e ragazze. Non accade forse spesso che esse rimangono così piccole, o diciamo pure meschine, proprio perché oggi esse sono di solito molto in fretta soddisfatte? Non sarà forse stato proprio questo il senso dei molteplici divieti che una volta il costume, i genitori, la religione opponevano alle «voglie», ossia quello di aiutare la loro crescita, e la loro metamorfosi in «volontà»?
Se così fosse - e, salve le molte distinzioni e precisazioni che in una materia tanto complessa certo occorrerebbe introdurre, in certa misura così è - saremmo di fronte ad un esempio concreto di come la «liberazione» si tramuti in una diminuzione di «libertà». La «liberazione» dei costumi sessuali tra ragazzi e ragazze induce cioè una prassi tale da inclinare alla dipendenza incontrollata da tutte le «voglie», e quindi alla relativa difficoltà di maturare una reale «volontà». Ora, anche senza complessi ragionamenti, si capisce che la «voglia» è certamente non libera, mentre libera può essere soltanto la «volontà».
4. Come definire più precisamente la qualità «libera» della «volontà», per differenziarla dalla qualità «serva» della «voglia», o - con termine più tradizionale - della «passione»? La «passione» non sa dove si dirige; assomiglia più ad una energia, ad una spinta indifferenziata, ad una «pulsione» - come si esprime efficacemente il linguaggio psicoanalitico - alla ricerca degli «investimenti» capaci di soddisfarla e insieme manifestarne il senso. La «volontà» viceversa è «libera» perchè sa quello che intende, e lo apprezza, lo giudica degno di dedizione generosa e incondizionata; persegue dunque i propri obiettivi senza aggiungere la clausola «finché mi va» o «finché mi soddisfa». Piuttosto che parlare di «obiettivi», a proposito della volontà libera si deve parlare di «beni». «Obiettivo» è un fine materiale dell'agire. E un fine materiale è sempre anche un fine condizionato: dipendente cioè da condizioni o circostanze che sfuggono alla possibilità di controllo infallibile da parte del soggetto che quel fine persegue. Colui che non riesce ad assegnare al proprio agire altro termine che determinati «obiettivi», sarà di conseguenza costantemente in «lotta» contro sempre nuovi nemici: contro le volontà di altri che sono di ostacolo al perseguimento dei propri obiettivi. Sempre si sentirà minacciato nella propria «libertà», sicché quella «libertà» più che apparirgli una condizione attuale ed una responsabilità presente, gli apparirà il frutto improbabile di una «lotta di liberazione». Mentre invece colui che conosce ed approva un «bene» ideale, un «bene» che non può ridursi ad un «obiettivo», ma che è un «valore» capace di attestarsi anche di contro alle circostanze più avverse, costui potrà conoscere la «libertà» come dono e compito già presente.
Certo, la qualità ideale del «bene» - ma più precisamente,occorrerebbe dire, la qualità morale del «bene» che solo è capace di autorizzare la libertà - va rettamente intesa. Non si tratta di «idee» platoniche, di «idee» cioè che l'uomo possa conoscere ed amare indipendentemente dall'esperienza storica, e dalle evidenze di bene e di male che quell'esperienza suscita in lui. Ma quell'esperienza non deve essere interpretata quasi fosse semplice esperienza di possesso o alternativamente di mancanza di cose determinate, necessarie ad un bisogno determinato dall'uomo stesso. L'esperienza del possesso o rispettivamente della mancanza ha un valore di bene o rispettivamente di male per ciò che essa significa, rivela, suggerisce allo spirito, al di là della sua immediata consistenza materiale. La fame è più che bisogno di pane, così come la sazietà è più che la condizione fugace e torpida dell'uomo con la pancia piena. Solo chi intende questo, può intendere che cosa voglia dire: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perchè saranno saziati». Quella fame e sete li autorizzerà ad agire con decisione, con risolutezza non trattenuta da alcun dubbio a proposito delle incerte conseguenze, in favore dei loro fratelli: magari per dare loro da mangiare, da bere, da vestire, da abitare; ma con la consapevolezza che in tutto questo si produce assai più che la soddisfazione di un bisogno; si realizza la testimonianza di una prossimità, di una cura per il destino dell'altro, di un amore alla fine, che vale assai più di ciò che materialmente produce. Solo l'agire che conosca e persegua questo «bene» superiore ad ogni preciso obiettivo storico - anche se mediato da esso - può realizzare la figura dell'agire «libero», non minacciato dall'eventualità dell'insuccesso e dai limiti obiettivi delle circostanze.
La libertà, in tal senso, non è il risultato solo sognato di una liberazione mai compiuta. La libertà, nella sua qualità più radicale e determinante, è la possibilità - e la necessità - per l'uomo di disporre di sè per sempre, di fronte al «bene» incondizionato che immediatamente lo interpella attraverso la presenza dei fratelli; possibilità questa che finalmente lo strappa alla condanna di decisioni parziali, dipendenti dal calcolo di variabili infinite e mai adeguatamente note; e quindi decisioni sempre e ineluttabilmente conflittuali, esposte all'eventualità d'essere smentite dai fatti.
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