Realizzarsi
Giuseppe Angelini
1. Tra le espressioni divenute più frequenti, per indicare sinteticamente ciò che soprattutto importa, ciò che costituisce obiettivo sommo dell'esistenza umana, è il verbo «realizzarsi». Sottolineiamo il fatto che si tratta di un verbo riflessivo: l'uomo contemporaneo appare tendenzialmente tutto ripiegato sulla cura di sé. Non grandi imprese civili, non grandi opere collettive, neppure le opere dell'ingegno o della genialità artistica costituiscono l'obiettivo della vita; non realizzare qualcosa, ma realizzare sé.
Il termine «realizzarsi» e tutti quelli ad esso imparentati non provengono da alcuna filosofia, non sono legati ad alcuna concezione dell'uomo determinata, non si impongono dunque all'uso comune come conseguenza del prestigio e dell'influsso di una qualsiasi agenzia ideologica. Questo fatto induce a pensare che esistano motivi obiettivi, «strutturali» e non «sovrastrutturali», legati alle forme concrete del vivere contemporaneamente e non alle ideologie, nei quali cercare insieme il significato e le ragioni di successo del termine «realizzarsi». Cerchiamo di illuminare questo significato (molti infatti e non coerenti sono i sensi in cui è usato il termine), e le ragioni civili del suo affermarsi.
2. a) Il verbo «realizzare» fa riferimento in generale ad un progetto: e cioè a qualche cosa (azione o oggetto), prima solo idealmente immaginato, che viene poi tradotto nella realtà effettiva. Dire che lo scopo della vita è quello di realizzarsi vorrebbe dire, sotto questo aspetto, che l'uomo ha anzitutto un'idea o un ideale di sé, solo pensato, che successivamente cerca di iscrivere nella realtà: solo la realizzazione del progetto-uomo garantirebbe la riuscita dell'esistenza umana. Effettivamente anche la terminologia del «progetto» è spesso usata per descrivere l'esistenza umana - e a questo proposito si potrebbero citare anche alcuni filosofi (soprattutto «esistenzialisti», quali Heidegger e Sartre, pure diversissimi tra loro).
A proposito di quest'interpretazione del «realizzarsi» si può osservare come in effetti la scansione dei due momenti, progettare e poi realizzare, sia diventata per molti aspetti un modello d'agire molto più diffuso nella vita dell'uomo contemporaneo, rispetto a quanto non fosse in una società più statica, più regolare, più organica nei rapporti interumani. Allora il ritmo delle ore e delle circostanze scandiva il tempo di ognuno, senza necessità di prevedere, calcolare, progettare: l'ambiente naturale ed umano era, per così dire, come il letto di un fiume, entro il quale la vita scorreva più ovvia, portando con sè spontaneamente le sue giustificazioni.
Quello che accade a livello collettivo ha riflesso nella vita individuale. Una volta non c'era bisogno di pianificazioni del futuro: il futuro veniva - per così dire - incontro da se stesso; oggi invece occorre predisporlo laboriosamente. Ma queste considerazioni, se servono a comprendere perché l'uomo d'oggi sia psicologicamente e culturalmente incline a pensarsi come esecuzione di un progetto, non servono invece a giustificare questo modello di interpretazione complessiva della vita. Non abbiamo alcuna idea di noi stessi, che si tratterebbe poi di tradurre in pratica: è al contrario il confronto con la realtà, imprevedibile, sorprendente, lieta e triste, che ci conduce anche a comprendere e a divenire noi stessi.
b) Una seconda accezione del «realizzarsi» è quella che lo intende come realizzazione delle proprie capacità, delle proprie risorse, o magari come espressione della propria «personalità», delle convinzioni e delle inclinazioni. Anche per questa idea della realizzazione di sè si possono scorgere motivi legati alla civiltà (o inciviltà) in cui viviamo: in essa la persona è tendenzialmente «repressa», dal singolo sono attese sempre e solo funzioni, prestazioni parziali e determinate, quasi spersonalizzate. Di qui la naturale ricerca da parte dell'individuo di uno spazio per la propria «personalità». Ma bisogna notare subito come il senso ultimo della vita non possa essere inteso come indefinita crescita della «personalità» o come espressione di sé. Un tale modo di vedere ignorerebbe la morte, e cioè la finitezza del tempo. Il tempo della vita si esaurisce: che la vita abbia un senso dipende dal fatto che la si possa spendere significativamente, la si possa dare o donare, senza invece farsela rubare dalla brutalità del tempo che sfugge. Chi vive all'insegna di un programma di «accumulo» per «arricchirsi» (sia pure nelle qualità morali, intellettuali, spirituali in genere), non può guardare alla morte che come ad un furto, ad una spoliazione che rende vano tutto l'accumulo.
c) «Realizzarsi» può però avere anche un altro senso, più sottile e insieme più vero. Accade facilmente che quella fitta rete di rapporti frammentari e deludenti, che riempie quantitativamente tanta parte del tempo, costringa l'uomo a confinare nell'ambito di ciò che è soltanto «interiore» l'unità e l'identità profonda della propria persona.
Ma ciò che è soltanto «interiore» appare anche, facilmente, soltanto fantastico, immaginario, irreale. C'è una bella pagina nel romanzo di R. Musil, L'uomo senza qualità (Einaudi, Torino, 1972, pp. 29-30), nella quale si esprime questo aspetto «irreale» della vita dell'uomo contemporaneo: il suo carattere più decisivo (accanto ad altri nove che sono solo aggiunti casualmente a lui) è quello della «fantasia passiva», che «permette all'uomo tutte le cose meno una: prendere sul serio quello che fanno i suoi altri nove caratteri».
In rapporto a questo rischio, «realizzarsi» vuol dire cercare occasioni, rapporti, situazioni di vita che consentano di divenire reali e non solo fantastici. Cercare dunque una terra, un radicamento, una «patria», un ambiente entro il quale noi possiamo scoprire, scegliere e vivere praticamente la nostra fondamentale identità.
Rimane peraltro vero che in ultima istanza nessuna «patria» riesce ad essere completamente e definitivamente nostra; quanto meno, nessuna «patria» in questo mondo (non sarà forse la nostra patria Dio stesso?). Se è da approvare la ricerca di un radicamento, di una «realizzazione», che consenta di sfuggire al perpetuo fluttuare della fantasia, rimane per altro insuperabile alla radice quella condizione di estraneità, che ci fa sempre un po' stranieri in questo mondo.
In rapporto a questa estraneità rimane vero che l'identità profonda dell'uomo non è riflessa dallo specchio delle realtà a lui esterne, ma è custodita solo nell'«anima» - se abbiamo un'«anima», e non solo una fantasia, dentro di noi.
3. Dobbiamo dunque concludere che ognuna delle accezioni del «realizzarsi» ha un senso pertinente, ma limitato: nessuno dei sensi considerati consente di fare del «realizzarsi» la parola ultima, capace di raccogliere in unità il significato del nostro impegno di vita.
A questa conclusione corrisponde la sentenza di Gesù: «Chi vorrà salvare la propria vita («realizzarsi») la perderà, ma chi perderà la propria vita (e cioè, la cura per la realizzazione di sé) per me, la salverà» (Luca 9,24). Perderla per lui, poi, vuol dire spenderla per il fratello, per ogni uomo riconosciuto come fratello.
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