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    Responsabile

    Giuseppe Angelini

     

    1. Cresce il numero delle parole senza complemento.
    Ci sono cioè molte parole, nel nostro lessico familiare, che una volta supponevano un complemento, ma che oggi vengono invece usate anche «assolutamente». Di questo genere è per esempio la parola «impegnato».«È una persona impegnata»: verrebbe spontaneo chiedere, in che cosa? Ma invece l'uso corrente prevede un uso assoluto dell'aggettivo, senza alcuna specificazione. Questo silenzio a proposito dell'oggetto si presta certo anche ad abusi: esso è talvolta l'indice di un rigonfiamento retorico della qualità «impegnata» o di un ripiegamento narcisistico. Accade cioè di questa qualità press'a poco quello che accade di molti sentimenti, per loro natura «transitivi», dei quali invece si parla intransitivamente. Pensiamo per esempio alla noia o 'al contrario' all'ottimismo. Si può essere annoiati senza però essere capaci di specificare che cosa sia oggetto di noia: ed anzi, per lo più è proprio così che accade. La noia senza oggetto dovrebbe per noi essere una specie di segnale che muove la coscienza ad interrogarsi e a cercare il senso di quel sentimento che lì per li appare senza senso. L'ottimismo non è così frequente come la noia. Forse anche per questo motivo esso è spesso apprezzato come una bella qualità, senza in alcun modo interrogarsi sulle sue ragioni o più radicalmente senza chiedersi se esso abbia ragioni.
    I sentimenti in genere costituiscono una specie di paradigma, per il fenomeno sul quale qui vogliamo richiamare l'attenzione: quello cioè delle parole che perdono l'oggetto. I sentimenti infatti per loro natura hanno un oggetto, o - ma è un'altra maniera per dire la stessa cosa - hanno un senso. La paura è per sua natura paura di questo o quest'altro; e così la speranza. Piacere, dispiacere, gioia, tristezza, pudore, orgoglio e tutti gli altri sentimenti che si possono immaginare rimangono come incompiuti fino a che non si sappia assegnare loro un oggetto, e dunque un senso. Ma di fatto oggi accade facilmente che dei sentimenti si parli assolutamente: come di affezioni psicologiche, come di stati d'animo, di gusti o disgusti interiori, e non invece come di atteggiamenti intenzionali dello spirito nei confronti della realtà.
    Si noti: i sentimenti hanno un senso, non semplicemente una causa.
    La noia, per esempio, non può essere intesa semplicemente come lo stato d'animo in noi «causato» da questa o quell'altra circostanza: la noia è piuttosto un giudizio su quelle circostanze, un apprezzamento su uno stato di cose; in tal senso appunto si dice che essa é atteggiamento intenzionale.

    2. «Responsabile» è una di quelle parole che oggi conosce anche, e soprattutto, l'uso assoluto. Non pensiamo qui tanto all'uso sostantivato dell'aggettivo: «i responsabili» di una istituzione, di un movimento, di un partito (il genitivo oscilla incertamente tra le due accezioni: indica un'appartenenza o specifica l'oggetto della responsabilità?). Pensiamo piuttosto ad apprezzamenti del tipo: «quella è una persona responsabile»; e soprattutto alle esortazioni: «responsabilizzatevi», «comportatevi in maniera responsabile», «quello che ci vuole qui è un po' di responsabilità», e così via.
    È curioso notare come, nel passaggio dall'uso relativo all'uso assoluto, l'aggettivo «responsabile» abbia cambiato connotazione: da negativa a positiva. Il «responsabile» di una certa cosa vale press'a poco come il colpevole. E quando ci si chiede: «di chi è la responsabilità?», si tratta sempre di un crimine o almeno di un danno. Espressioni tecniche sotto tale profilo sono quelle di «responsabilità civile» (di chi paga i danni) e «responsabilità penale» (di chi sconta la pena). Mentre quando si celebra il senso di responsabilità di una persona, ovviamente, non ci si riferisce alla sua inclinazione a rispondere di crimini e danni, ma piuttosto alla sua inclinazione ad un buon comportamento.
    Quale buon comportamento corrisponde al senso di responsabilità? Notiamo, di passaggio, che di responsabilità in senso positivo ed assoluto si parla spesso esattamente in questi termini: quale oggetto di un «senso», e dunque di un «sentimento», o comunque di una disposizione abituale della coscienza, forse addirittura come di una virtù. Proprio perché disposizione abituale, non immediatamente riferita ad un fatto.
    E tuttavia opportunamente S. Tommaso diceva che le virtù sono specificate dagli atti; e noi sopra dicevamo che i sentimenti hanno un significato, sono cioè un modo di rapportarsi praticamente alla realtà, non invece semplici «stati d'animo» in sè conclusi.
    Quali sono dunque le caratteristiche del comportamento «responsabile»?

    3. Per rispondere alla domanda, è illuminante il confronto fra «senso di responsabilità» e «senso del dovere». Un tempo infatti era soprattutto questa seconda espressione quella usata per esprimere la raccomandazione morale; ora sembra che allo stesso scopo - certo molto indeterminato - sia usata l'espressione «senso di responsabilità». Stiamo dunque passando da una morale del «dovere» ad una morale della «responsabilità»?
    Alla voce «piacere-dovere» abbiamo suggerito alcune considerazioni che effettivamente conducono alla rilevazione di come la categoria del «dovere» tenda a perdere la sua evidenza etica nel clima civile presente. La morale del «dovere» rimanda per sua natura ad un ordine obiettivo (ordine sociale, ordine della ragione, oppure comandamento di Dio), al quale la libertà del soggetto deve conformarsi. Proprio perché tale ordine obiettivo - in tutte le sue possibili interpretazioni - sembra meno chiaro e convincente in questo tempo di incertezza, proporzionalmente crescente appare il rilievo accordato alla «responsabilità», e cioè alla disposizione della persona a rispondere di ciò che fa di fronte agli altri in qualche modo riguardati dai suoi atti. Certo, occorre riconoscerlo, la disposizione a rispondere di ciò che si fa nulla ancora dice dei criteri oggettivi ai quali il comportamento deve conformarsi. E tuttavia essa indica una direzione nella quale cercare tali criteri: la «domanda» degli altri, e più radicalmente la loro «attesa» nei nostri confronti, è il luogo nel quale cercare quei criteri. Non si intende certo dire che l'attesa altrui possa senz'altro costituire la norma dei nostri atti. L'attesa altrui è spesso molto indeterminata, altre volte appare eccessiva ed esosa, o senz'altro impertinente ed ingiusta. Occorre dunque esercitare un discernimento nei confronti di tale attesa: occorre per un verso «interpretarla», e per altro verso «correggerla». Ma in ogni caso non si può ignorarla.
    Ignorarla costituisce appunto il male morale per eccellenza.
    Ignorare quell'attesa equivale infatti a cancellare l'altro dalla nostra vita, rifiutarne la presenza (o, in termini evangelici, la qualità di «prossimo»), mortificarne la fiducia nei nostri confronti, rompere un vincolo, che la conoscenza, la parentela, magari soltanto la civiltà, o forse addirittura Dio stesso ha stabilito.

    4. La tentazione per l'uomo di cancellare la presenza dell'altro, e dunque di rifiutare la responsabilità nei suoi confronti è antica quanto la storia degli uomini. «Sono forse io il custode di mio fratello?» diceva già Caino (Gen. 4,9). E tuttavia essa assume rilievo crescente, e pare come legittimata, nella moderna società urbana. Tale società infatti è organizzata secondo i criteri di oggettività e convenzionalità dei rapporti: ciò che è chiesto a ciascuno è che rispetti i patti, mantenga dunque la parola espressamente data. Ma nei confronti dell'estraneo, di colui con il quale non si è concluso alcun patto - o alcun contratto - non ci sono obblighi; ché altrimenti non si potrebbe più vivere. Sono folla infatti quelli che ogni giorno incontriamo. Già quelli che abitano sotto il nostro stesso tetto sono tanti quanti gli abitanti di un paesotto antico - se il tetto è quello di un condominio. Anonimato, privacy della vita familiare («appartata»), mobilità rapida dei rapporti, sono risorse irrinunciabili perché sia possibile la vita in città.
    E tuttavia, proprio a motivo di questo stile tendenzialmente convenzionalistico della vita sociale nella città, tanto più urgente appare la necessità morale della responsabilità: e cioè, della disposizione di ciascuno a riconoscere, dare nome e forma e realtà, a quella presenza dell'altro, che non può ridursi a presenza fisica, nè a ragione funzionale di rapporto, ma è presenza morale. È presenza cioè, che interpella la libertà e può realizzarsi solo a condizione che io vi consenta. Senza un tale con-senso, sarebbe la mia stessa vita a perdere ogni senso, così come la vita del mio fratello. L'accento sulla «morale della responsabilità» è accento posto sul significato essenziale che i rapporti di reciprocità personale hanno, in ordine all'istituzione del senso e del valore della vita, e dunque della realtà tutta.

    5. La contrapposizione tra «etica del dovere» ed «etica della responsabilità» può assumere tuttavia anche un significato diverso, che merita di essere considerato. È il senso reso relativamente noto, nella cultura europea del '900, dall'antitesi che Max Weber formulò tra «etica della coscienza» ed «etica della responsabilità».
    L'«etica della coscienza» dice: «Il cristiano opera com'è giusto, e rimette le conseguenze nelle mani di Dio». Questa spiegazione è di Weber stesso; ma non bisogna intenderla quasi che l'«etica della coscienza» sia sempre e solo religiosa; certo essa ha la sua espressione emblematica in ogni morale religiosa. L'«etica della responsabilità» invece dice: occorre rispondere delle conseguenze (almeno di quelle prevedibili) delle proprie azioni.
    Per comprendere meglio il senso e i problemi suscitati da questa alternativa, riferiamoci ad un esempio. Una ditta licenzia, cento dipendenti: essi con difficoltà troveranno un altro lavoro; il sindacato si oppone. Qualcuno obietta: ma se la ditta non licenzia rischia di fallire ed i problemi nuovi saranno peggiori di quelli antichi. Il sindacato non ci sente: in ogni caso, che queste persone non abbiano più lavoro è ingiusto; se il mantenerle in servizio suscita dei problemi ulteriori, li risolveremo a suo tempo, o altri li risolveranno. Una valutazione etica - e cioè, una valutazione espressa nei termini di un confronto immediato tra eventuale stato di cose (cento disoccupati) e norma ideale (diritto dell'uomo al lavoro) - basta a decidere della scelta concreta, senza riguardo alle conseguenze. Questa appunto sarebbe ('«etica della coscienza».
    L'esempio - si potrà osservare - è tendenzioso: esso infatti tende chiaramente a squalificare l'«etica della coscienza». Ma se si ammette indiscriminatamente che il calcolo delle conseguenze può o addirittura deve decidere di ciò che è bene e o male al presente, non si giungerà al più cinico machiavellismo? Non si potrebbe giungere - per esempio - in nome di una presunta «etica della responsabilità» a giustificare l'uccisione dell'innocente, nel caso essa serva alla salvezza di molti? La verità è che l'antitesi trq le due etiche non è così chiara e pertinente come sembra. perché un'«etica della responsabilità», per valutare le conseguenze probabili dell'azione, dovrà alla fine riferirsi alla «coscienza» ed ai suoi valori, e non semplicemente ai fatti. Anche un'«etica della coscienza», d'altro canto, per valutare la scelta presente, non potrà accontentarsi di considerare i valori che l'intenzione soggettiva vorrebbe esprimere nella scelta stessa; ma dovrà considerare il senso obiettivo che quella scelta assume nel quadro storico-sociale effettivo; e dunque, deve in qualche modo tener conto delle conseguenze.
    Sono tuttavia possibili precisazioni ulteriori.
    È vero che certa coscienza religiosa (quella che solo si occupa delle «buone intenzioni») troppo facilmente si esonera dal compito di valutare il senso che le proprie azioni assumono 'oggettivamente', e cioè presso la coscienza diffusa, al di là delle intenzioni meramente soggettive di colui che le compie: mentre una tale attenzione è indispensabile al giudizio stesso della coscienza. In tal senso il richiamo alla «responsabilità» appare pertinente.
    È vero che la considerazione delle conseguenze obiettive degli atti - anche quelle remote e preterintenzionali, e tuttavia prevedibili - ha un rilievo proporzionalmente maggiore nell'etica sociale rispetto all'etica dei rapporti di reciprocità personale. E tuttavia, anche a livello sociale, il bene non è ultimamente un obiettivo materiale (metter of fact, per dirla all'inglese), ma è un obiettivo spirituale: un senso per la vita, e non invece una sopravvivenza senza senso. Sotto tale profilo dignità suprema spetta all'«etica della coscienza», e non invece all'«etica della responsabilità».
    Il bene morale - per dirla in altri termini - consiste ultimamente in un bene attestato, e non invece in una situazione materiale prodotta.

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