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    Editoriale

    Forma e stile di una Chiesa in uscita

    Rossano Sala

    (NPG 2024-02-02)

    Dopo aver impostato l’anno 2024 con il primo editoriale puntato sull’identità missionaria ed evangelizzatrice della Chiesa e sulla conseguente identità discepolare e missionaria del cristiano[1], proviamo, rimanendo in continuità con quanto già detto, a fare un passo in avanti.
    Concentriamo ora la nostra attenzione ora sulla forma relazionale della Chiesa che siamo chiamati a perseguire e sullo stile operativo che il cammino attuale ci chiede di assumere.
    Sempre con l’intenzione di accompagnare il processo di preparazione alla seconda sessione del Sinodo universale sulla sinodalità, parto dalla Chiesa come comunità fraterna: qui siamo spinti a riscoprire un volto familiare e fraterno di Chiesa. Declino poi il tema dell’operatività concreta nella logica di una corresponsabilità missionaria.

    Verso una riforma familiare e fraterna della Chiesa

    Se guardiamo alla qualità relazionale media delle nostre comunità cristiane e alla loro capacità di accoglienza sentiamo che talvolta la fraternità stenta a decollare. “Tessere legami e costruire comunità”[2] non è esattamente il nostro forte, almeno di questi tempi! Quello della fatica della fraternità è un sintomo ecclesiale da non sottovalutare e su cui interrogarsi con coraggio e determinazione.
    La tesi che rilancio qui ancora una volta – Repetita iuvant, dicevano i nostri antichi padri latini – è in sé molto semplice, quasi scontata: ogni tema sinodale è un sintomo ecclesiale. Fare un Sinodo universale sulla sinodalità – allo stesso modo di un Sinodo sulla regione panamazzonica, sui giovani, sulla famiglia, sulla nuova evangelizzazione o sulla parola di Dio, per citare solo i temi sinodali trattati negli ultimi 15 anni – è una vera e propria urgenza ecclesiale: non possiamo negare che viviamo una forte fatica relazionale interna ed esterna; che arranchiamo su alcuni fondamentali del dialogo e dell’ascolto; che assistiamo a una conflittualità e a una mancanza di rispetto che a volte ci fanno vergognare; che fatichiamo a vivere e lavorare insieme; che la fraternità stenta a emergere nonostante il desiderio sincero di molti. Abbiamo certo qualche bella “oasi di fraternità”, ma all’interno di uno spazio popolato da tanto individualismo.
    Al di là di varie dichiarazioni di principio (la sinodalità come “teoria ecclesiale” innovativa), la prassi sinodale fatica a emergere (cioè mancano autentiche e durature esperienze di sinodalità sul campo). Il passaggio auspicato dal primato delle strutture a quello delle relazioni non si sta ancora realizzando, e in questo modo la Chiesa non riesce a lasciarsi dietro il suo volto freddo e burocratico, e nemmeno quello litigioso e oscuro. Tutti invece sentono il bisogno di vivere in una Chiesa più familiare e amichevole, intessuta di confidenza e buona relazioni, facendo vedere nei fatti che una comunità è prima di tutto una casa serena, ospitale e vivibile per tutti, nessuno escluso.
    Eppure su questo il Vangelo è limpido e trasparente. Esso testimonia il primato di un “noi” che diventa forma specifica della testimonianza ecclesiale. È l’agape evangelica che si fa corpo nella relazione fraterna dei credenti, che nel Nuovo Testamento porta il nome di koinonia.
    La koinonia è comunione plenaria con i fratelli che hanno accolto la salvezza, che sono entrati nel ritmo del discepolato e che sono chiamati alla medesima vocazione apostolica. L’amore reciproco pare essere la condizione di possibilità di ogni testimonianza che voglia proporsi in modo plausibile, perché un discepolato fraterno rimanda alla sua radice cristologica e rende sincero l’annuncio dell’agape di Dio: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, così siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato»[3]. Come dire: senza questa comunione tra di noi non vi è credibilità della nostra azione pastorale.
    Il segno di riconoscimento dell’agape che viene da Dio non è un amore per Gesù e nemmeno un semplice amore per quelli di fuori, ma l’amore reciproco, perché propriamente è questo il “comandamento nuovo”, lasciato da Gesù nel momento centrale della sua vita: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri»[4]. L’amore fraterno appare il primo frutto dell’appropriazione della salvezza, quindi è la fonte e la radice della missione di annuncio dell’Evangelo di Dio: gli altri gesti della fede “testimoniale” avranno senso e saranno efficaci solo se avranno questo come fondamento. Lo splendore della vita cristiana si fa visibile e attraente proprio a partire dalla koinonia in atto così come è mirabilmente descritta nella vita della prima comunità cristiana[5].
    Arriviamo a noi. I giovani, durante il cammino sinodale, in molti modi ci hanno sfidato sulla revisione della forma della Chiesa, chiedendoci di renderla sempre più fraterna e familiare. Questo ha prodotto, da una parte, la spinta verso la “sinodalità missionaria”, che ha messo le basi per l’attuale cammino sinodale; dall’altra ci sfida a livello locale a riconoscere che «l’esperienza comunitaria rimane essenziale per i giovani: se da una parte essi hanno “allergia alle istituzioni”, è altrettanto vero che sono alla ricerca di relazioni significative in “comunità autentiche” e di contatti personali con “testimoni luminosi e coerenti”»[6].
    Nell’ascolto del popolo di Dio in vista del Sinodo sui giovani le cose erano per me assai chiare e spingevano in tale direzione. Basti, in questa sede, rileggere un numero sintetico dell’Instrumentum laboris sulla questione, che pone l’attenzione al legame tra la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa e la sua stessa riforma:

    Un’esperienza familiare di Chiesa
    Uno degli esiti più fecondi emersi dalla rinnovata attenzione pastorale alla famiglia vissuta in questi ultimi anni è stata la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa. L’affermazione che Chiesa e parrocchia sono «famiglia di famiglie» (cfr. Amoris laetitia, nn. 87.202) è forte e orientativa rispetto alla sua forma. Ci si riferisce a stili relazionali, dove la famiglia fa da matrice all’esperienza stessa della Chiesa; a modelli formativi di natura spirituale che toccano gli affetti, generano legami e convertono il cuore; a percorsi educativi che impegnano nella difficile ed entusiasmante arte dell’accompagnamento delle giovani generazioni e delle famiglie stesse; alla qualificazione delle celebrazioni, perché nella liturgia si manifesta lo stile di una Chiesa convocata da Dio per essere sua famiglia. Molte Conferenze Episcopali desiderano superare la difficoltà a vivere relazioni significative nella comunità cristiana e chiedono che il Sinodo offra elementi concreti in questa direzione. Una Conferenza Episcopale afferma che «nel bel mezzo della vita rumorosa e caotica molti giovani chiedono alla Chiesa di essere una casa spirituale». Aiutare i giovani a unificare la loro vita continuamente minacciata dall’incertezza, dalla frammentazione e dalla fragilità è oggi decisivo. Per molti giovani che vivono in famiglie fragili e disagiate, è importante che essi percepiscano la Chiesa come una vera famiglia in grado di “adottarli” come figli propri[7].

    Ecco allora una prima serie di domande: stiamo lavorando nelle nostre comunità perché siano sempre più familiari e fraterne? Quali passi siamo chiamati a compiere perché esse siano sempre più una casa accogliente, in cui gli affetti e i legami siano vissuti con semplicità e letizia?

    Verso un’autentica corresponsabilità operativa nella Chiesa

    Contempliamo, in un secondo passaggio, come Gesù vive la corresponsabilità con i suoi discepoli.
    La scena originaria della rivelazione ci presenta due colonne fondanti dell’esperienza cristiana: la vocazione e la conversione. Nei primi resoconti evangelici, all’inizio della presenza pubblica di Gesù dopo il battesimo e le tentazioni, questo doppio registro è ampiamente documentato[8]. Fin dall’origine c’è una missione da compiere e questa missione non potrà essere condotta solamente da Gesù, ma essa esige l’intima partecipazione di quelli che ne sono i destinatari.
    Così vocazione e conversione sono alla base della successiva coppia di termini: il discepolato e l’apostolato. Nel Vangelo di Marco c’è una seconda chiamata, più profonda, più radicale, più motivata: «Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli – perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni»[9]. Gesù chiama offrendo il privilegio di stare con lui, di vivere con lui e avere un particolare rapporto di intimità, familiarità e comunione: non si tratterà solo di una frequentazione estrinseca, ma di un imparare da Gesù e soprattutto, di “imparare Gesù”.
    La questione però non finisce con Gesù, come se la sua presenza tra noi fosse una parentesi che ad un certo punto si chiudesse. Egli, pur promettendo la sua presenza permanente tra noi[10], ci affida alla sua Chiesa e, per essere più precisi, ci affida ai suoi discepoli, a coloro che hanno condiviso tutto con lui e che adesso sembrano pronti per prendere in mano la Chiesa di Dio. Una vera e propria follia, di cui la storia della Chiesa rende conto più che ampiamente, perché «c’è solo un piccolo difetto riguardante l’uomo, immagine di Dio, meraviglia del mondo e re del creato: non ci si può fidare»[11]! Abbiamo purtroppo un’esperienza quotidiana di questa verità, ma Gesù è assolutamente testardo a questo riguardo, affidandoci la sua Chiesa[12]. Egli non ci vuole né servi né collaboratori né esecutori, ma autentici corresponsabili! E da questo cammino di Gesù con i suoi discepoli prende corpo la riflessione sul tema dei ministeri. Essi non nascono come dei funghi, ma sono generati solo quando il servizio dell’autorità viene esercitato in modo corretto: facendo spazio, comunicando passione, coinvolgendo le persone, affidando responsabilità, accompagnando con cura e verificando con serietà.
    Prima dunque di domandarci chi e come coinvolgere è importante ricercare le cause di una certa lontananza e indifferenza rispetto alla partecipazione attiva all’animazione ordinaria della vita della comunità cristiana e della sua missione nel mondo. Certamente, possiamo dire, è una questione che nasce dal “clericalismo”, su cui papa Francesco ha speso talvolta parole molto dure. Si tratta dell’immaginario ecclesiale condiviso secondo cui i ministri ordinati e la schiera dei religiosi siano gli unici soggetti attivi della missione evangelizzatrice. È un pensiero radicato un poco ovunque, sebbene dal Concilio Vaticano II in avanti le convinzioni – almeno in linea teorica – vadano in una direzione ben diversa.
    In fondo la “postura clericalista” tende a disprezzare la grazia battesimale. Pensa che sia il sacramento dell’ordine (o la professione religiosa) che rende soggetti della missione. Mentre tutti sappiamo che la piattaforma della missione è il battesimo, che ci rende tutti dei “discepoli missionari”. Il clericalismo – cha ha sempre un doppio volto: esperienza distorta del ministero e scelta di comodo del mondo laicale – è un grande ostacolo alla missione condivisa e va superata in due modi precisi:
    - Da parte dei laici: avendo chiara consapevolezza dei loro doni e carismi, sapendo che hanno un ruolo specifico e importante nella missione della Chiesa, sia per la sua autoedificazione interna che per la sua missione nel mondo. In una parola: prendendo coscienza dei propri doni!
    - Da parte dei ministri ordinati: passando da una posizione elitaria e privilegiata a una generativa e coinvolgente, ponendosi nella logica dell’apprezzamento e della valorizzazione dei diversi carismi nella Chiesa. È compito specifico del ministero ordinato riconoscere, autenticare e orientare i doni di ogni singolo battezzato, spingendolo ad esprimere al meglio ciò che ha ricevuto per il bene di tutti. In una parola: avendo fiducia in ogni battezzato!
    Per attuare un’autentica corresponsabilità bisogna nutrire, a livello di mentalità, la fiducia e la speranza negli altri. In questa precisa direzione vorrei spingere su un argomento forte, che i nostri antichi chiamano ad hominem, nel senso che ci tocca personalmente nell’intimo e che quindi non possiamo non considerare seriamente.
    Se Dio, nel portare avanti la sua missione nel mondo, si affida a me, povero e misero peccatore – e tutti noi sappiamo ciò che questo significa! – e mi chiama ad essere suo ministro, mi chiama a rappresentare in maniera diretta il suo Figlio unigenito tanto da affermare che «chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me»[13], chi sono io per non aver fiducia in coloro che con me camminano sulla via della salvezza? Questo argomento ci restituisce un Dio sorprendente: non tirannico, ma che ci vuole suoi figli nella condivisione e nella corresponsabilità; non concorrenziale, ma che desidera fare squadra con noi; non complessato, ma fiducioso oltre ogni limite; non avaro né dispotico, ma capace di consegnare tutto se stesso e di gioire dei doni che ci fa; un Dio che non è un nostro competitore, ma che desidera essere e rimanere per sempre nostro alleato.
    Alla luce di queste parole, diventa chiaro che io sono chiamato a replicare l’atteggiamento e il comportamento che Dio sta avendo con me. Egli mi ha dato fiducia, senza “se” e senza “ma”. Per questo mi chiede di fare altrettanto verso coloro che mi affida, portando a fioritura la loro umanità e rendendoli corresponsabili della missione che ci è stata affidata.
    Ecco allora una seconda serie di domande che ci interpellano: Dio si fida davvero tanto di noi: perché fatichiamo così tanto a dare fiducia agli altri? Dio esercita la sua autorità in forma generativa: perché noi cerchiamo solo esecutori? Dio è assai coinvolgente: perché noi talvolta non riusciamo a fare squadra e a fare rete?


    NOTE

    [1] Cfr. R. Sala, Un anno per pensare. Il tempo fecondo tra la prima e la seconda fase del Sinodo, in «Note di pastorale giovanile» 1 (2024) 2-7.
    [2] È questo il significativo titolo della terza parte della Relazione di sintesi della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi al termine della Prima Sessione (4-29 ottobre 2023).
    [3] Gv 17,21.
    [4] Gv 13,34-35.
    [5] Cfr. At 2,44-47; 4,32-35.
    [6] XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Instrumentum laboris, n. 175.
    [7] Ivi, n. 178.
    [8] Cfr. Mc 1,14-20.
    [9] Mc 3,13-14.
    [10] Cfr. Mt 28,20.
    [11] G.K. Chesterton, Perché sono cattolico (e altri scritti), Gribaudi, Milano 1994, 80.
    [12] Cfr. Gv 21,15-19.
    [13] Lc 10,16.


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