Mario Pollo
(NPG 1981-01-19)
Un modo di considerare la violenza
Tra i vari modi di descrivere ed interpretare la violenza ve ne è uno assai poco usuale ma non per questo meno interessante degli altri più noti. È quello che affronta la violenza utilizzando i contributi della teoria della comunicazione umana nella sua dimensione pragmatica: in quella cioè che studia come la comunicazione influenzi il comportamento umano e più in generale la vita dei sistemi viventi.
È infatti oramai acquisito dalla generalità degli studiosi che tutte le relazioni che l'uomo ha con se stesso, gli altri e la natura sono «comunicazione». In questo contesto, visto che la violenza è un particolare tipo di relazione che mette in contatto un individuo con gli altri, o in modo più astratto con il sistema sociale, si vede chiaramente come sia possibile considerare la violenza umana una forma particolare di comunicazione.
Dopo aver acquisito che la violenza è comunicazione, è necessario precisare quale tipo di comunicazione essa sia. Indubbiamente la violenza appartiene a quella particolare modalità di comunicazione che l'uomo condivide con le altre specie animali: quella analogica.
La comunicazione analogica è ogni tipo di comunicazione non simbolica e in modo particolare non verbale. Essa è quella che si esprime con i gesti, le inflessioni della voce, le posizioni del corpo, la mimica del volto e in genere tutte quelle forme che fanno da cornice o da contesto alla comunicazione simbolica, verbale o non.
È chiaro che la violenza non si esaurisce al livello analogico in quanto essa si esprime anche nel contenuto della comunicazione simbolica. Basti pensare alla minaccia che è indubbiamente una comunicazione simbolica di tipo verbale. Tuttavia ciò che dà corpo alla minaccia è il modo, il contesto in cui essa è formulata.
È infatti il modo ed il contesto che consente di capire se una minaccia è formulata per scherzo oppure seriamente. È questo il motivo per cui si tende ad ascrivere, anche se non esclusivamente, la violenza alla comunicazione analogica.
La violenza come conferma dell'essere e come invocazione di relazione
Ogni comunicazione umana tende per prima cosa a confermare che chi la promuove esiste, è legato all'essere e non al nulla, ed è in grado di esercitare un controllo attraverso i vari linguaggi su se stesso e la propria esistenza. È in grado cioè attraverso il linguaggio tanto di decifrare la coscienza, quanto utilizzando vie misteriose di esplorare le profondità nascoste del suo essere.
Tuttavia questa essenziale azione umana per potersi svolgere richiede la comunicazione con l'altro da me, l'apertura di un essere verso un altro essere, in quanto è solo l'apertura all'altro che consente di dare un significato agli arbitrari segni del linguaggio e una dimensione di verità, di non illusione alla percezione dei sensi e della stessa coscienza.
La violenza in quanto comunicazione appare una disperata, assurda e folle conferma di esistenza da parte di chi la promuove. Assurda e folle perché mentre chiede conferma distrugge in senso fisico e morale il destinatario di questa richiesta e, quindi la possibilità stessa di essere in modo non illusorio confermato come non nulla, come persona.
È questo il motivo per cui la violenza mina la coscienza di essere dell'individuo spingendolo verso l'angoscia del nulla. È questo forse uno dei paradossi del nichilismo.
La comunicazione analogica è una particolare forma di richiesta di conferma dell'essere, essendo fondamentalmente una invocazione e una proposta di relazione. Infatti la comunicazione analogica è significativa per il tipo di rapporto interpersonale che suggerisce e richiede e non per astratti contenuti di tipo logico-simbolico. Il gatto che si strofina al padrone quando questi apre il frigo e prende il latte non comunica: «voglio il latte», ma analogicamente chiede di stabilire una relazione all'interno della quale il padrone abbia un ruolo materno.
Tre possibili risposte alla violenza come invocazione di comunicazione
Se la violenza è comunicazione analogica allora essa è una invocazione di relazione con l'altro e con il sistema sociale, che propone svolgersi secondo modalità distruttive, di prevaricazione, di dominio. Una proposta di relazione in cui chi promuove la violenza tende a porsi come il dominante nelle cui mani è racchiuso un potere totale, in grado di determinare l'essere o il non essere di chi subisce la violenza. Chi comunica con la violenza traduce nell'atto il delirio estremo della volontà di potenza che crede di potere ridurre un essere al nulla, di distruggere la vita che per l'eterno è legata all'essere.
Di fronte a questo tipo di proposta di relazione l'oggetto della violenza, individuale o collettiva non importa, può rispondere in tre modi diversi.
Il primo è quello di accettare la relazione così come viene proposta, e quindi di rispondere alla violenza con la violenza, ad un delirio della volontà di potenza con un altro analogo e quindi con la partecipazione attiva al processo che nega l'esistenza dei comunicanti, entrando cioè a pieno titolo tra i seguaci della distruzione.
Il secondo è quello di ignorare la proposta di relazione comportandosi come se chi promuove la violenza non esistesse. Questa risposta tende a stabilire una sorta di scissione schizofrenica tra chi pratica la violenza ed il resto del sistema sociale, rinchiudendo il primo in una prigione senza uscita fatta di disperazione, follia e ancora violenza sino alla propria autodistruzione.
Il terzo modo è invece quello di accettare l'invocazione di relazione, ma di rifiutare quella proposta proponendone un'altra e cioè quella del perdono e della non violenza. Facendo così si afferma e riconosce l'esistenza dell'altro, la sua non-nientità, si nega che l'uomo possa ridurre l'essere al nulla e si pongono le premesse ad una trasformazione evolutiva della realtà sociale in cui lo spazio della distruzione sia sempre meno rilevante. Occorre ancora ricordare come il primo modo, oltre a quanto già detto, di fatto inneschi anche una spirale progressiva di violenza che si allarga a macchia d'olio investendo tutti gli angoli, anche i più riposti del sistema sociale. Una spirale che rischia di fermarsi solo quando la tensione ormai insopportabile porta al collasso il sistema sociale.
Il cambio sociale, la devianza e la follia della gratuità
A questo punto è necessario compiere una breve digressione sui problemi connessi al cambio sociale, su come cioè un sistema possa uscire da una situazione indesiderata o patologica, oppure evolvere verso uno stato più avanzato, più equilibrato, ecc. Il problema del cambio riguarda anche le relazioni interpersonali che si svolgono all'interno di piccoli sistemi quali ad esempio la famiglia, il gruppo primario o anche i soli rapporti di amicizia.
Per prima cosa occorre affermare che il cambio di un sistema non può avvenire se si seguono le regole interne del sistema. Questo modo di operare produrrà solo uno stato diverso del sistema, radicalmente omogeneo rispetto al precedente, e si resterà prigionieri di un disperante gioco senza fine. Il cambio vero, radicale di un sistema può avvenire solo seguendo un modo di operare che, sfuggendo alle regole logiche e sensate del sistema, introduca attraverso una azione uncommonsensical una logica trascendente, in grado di strutturare i costituenti il vecchio sistema in un altro radicalmente nuovo e diverso. Da questo punto di vista appare più funzionale al cambio dei sistemi umani la follia piuttosto che il buon senso e la devianza piuttosto della conformità alla norma. Basti pensare al fallimento di tutti i tentativi di estirpare alcune gravi patologie sociali, quale ad esempio quella dell'alcolismo, ricorrendo al proibizionismo: forma estrema della conformità alla norma. Ebbene come l'esperienza americana dimostra, tale azione non solo non ha ridotto il fenomeno dell'alcolismo ma anzi ha fatto nascere nuove forme di devianza criminale.
I sistemi molto rigidi che non tollerano la devianza risultano essere quelli meno capaci di evolvere perché quel laboratorio di cambio in senso evolutivo che è costituito dalla devianza, non può svolgere la propria funzione in quanto represso e criminalizzato. Sia chiaro che qui si fa riferimento alla devianza non criminale, al dissenso civile non violento.
La gratuità come risposta alla violenza
Analizzando i tre tipi possibili di risposta alla violenza intesa come comunicazione analogica, risulta in modo sufficientemente evidente come l'unica risposta che consente di uscire dalla prigione della distruttività sia la terza e cioè quella della non violenza e del perdono. È necessario ora approfondire i caratteri di questa risposta che è più complessa di quanto i termini non violenza e perdono testimonino. Per essere efficace, in grado cioè di produrre il cambio: l'uscita dalla spirale che la relazione violenta innesca, la risposta deve possedere i seguenti requisiti:
1. essere l'espressione della libertà umana del dono senza motivo e ragione;
2. essere il riconoscimento della non-nientità dell'altro, la cui vita come la propria è un dono che non ha ragioni e motivi se non nella follia dell'amore;
3. fondarsi sul perdono dato senza condizioni che non quella che sia accettato;
4. non essere un'invocazione che nasconde la paura, l'angoscia ma la sicurezza di chi è per l'eternità legato all'essere dall'amore.
Dai requisiti ora esposti si deduce correttamente che la risposta alla violenza per essere efficace deve essere permeata dal valore della gratuità, così come appare dalla descrizione del suo significato in un altro articolo di questo numero.
La gratuità non significa solo non- violenza ma anche e soprattutto dono disinteressato, amore per l'essere e la vita, negazione della volontà di potenza distruttiva, accettazione dell'amore e della vita degli altri, rifiuto del buon senso in nome della radicale follia della croce. Rispondere alla violenza con la gratuità, non significa solo rispondere ad ogni singolo atto violento con la gratuità ma avere nel corso di tutta la propria vita sociale ed individuale un atteggiamento di gratuità. È questa la condizione perché la risposta non sia un fatto isolato, che stupisce ma non incide, ma la conclusione estrema di un modo di intender il dono della vita che da noi ed in noi si svolge. La risposta gratuita al singolo atto violento deve essere la conseguenza coerente di un modo di vivere che ha fatto, nella misura del possibile, della gratuità un valore fondamentale.
La gratuità è pertanto un gesto «uncommonsensical» nell'odierna realtà del sistema sociale, non spiegabile cioè secondo le regole del gioco dei rapporti sociali, a cui anzi sfugge minandole e quindi in grado di innescare il misterioso processo che nella storia umana porta da una situazione sociale ad un'altra, di solito più giusta e ricca di opportunità di realizzazione per l'uomo. La vendetta, la repressione cieca, il calcolo utilitaristico non genera vita, evoluzione sociale ma solo la regressione verso le paludi della morte di cui il nichilismo si dichiara profeta.
La gratuità non elimina la violenza con un colpo di bacchetta magica, ma pone in essere nel sistema sociale maggiori probabilità che questi possa superare il labirinto della violenza. A fronte della gratuità vi sono molte sconfitte, molti insuccessi ma anche alcune vittorie. A fronte della repressione violenta nessuna vittoria in quanto il suo successo è intessuto dalla morte, che tocca non solo chi la riceve ma anche chi la propone e chi per conformità l'accetta.
Nel nostro sistema sociale la gratuità può essere ancora martirio, testimonianza difficile di una follia che nega che la vita sia solo ciò che oggi è, ma proprio per questo dono estremo dell'amore da noi ricevuto senza merito.