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    Il ritorno della morte

    Giannino Piana

    La paura suscitata dalla pandemia da coronavirus ha motivazioni diverse (e complesse), ma non si può negare che alla radice di esse, in modo il più spesso inconscio ma non per questo meno vero, vi è il ritorno della morte. Non già che la morte non fosse presente, e in misura consistente, nel nostro mondo, dove si ripetono con una frequenza senza precedenti, guerre, genocidi, carestie. Ma fino a ieri tutto questo risultava a noi occidentali qualcosa di remoto e di estraneo, portato ogni giorno nelle nostre case dai media sotto forma di spettacolo, e di conseguenza scarsamente coinvolgente. La novità odierna sta nel fatto che la diffusione del virus ha fatto rientrare, in modo drammatico, l’esperienza della morte nell’orizzonte della nostra quotidianità. Non solo essa ci tocca da vicino, sottraendoci persone care, ma essa diviene più radicalmente una possibilità con la quale siamo tutti costretti a fare direttamente i conti.

    Oltre il mito dell’onnipotenza

    Questa imprevista circostanza ha finito per incrinare la fiducia acquisita, grazie agli enormi successi della tecnologia, nella possibilità di un dominio incondizionato dell’uomo sulla realtà; dominio che aveva fatto nascere la presunzione di una onnipotenza prometeica. Sono diversi gli ambiti nei quali si è fatta strada questa sfiducia per la presenza di fenomeni, più o meno rilevanti, di forte problematicità: da quello economico-sociale, a quello scientifico fino a quello culturale.
    Il primo di questi ambiti – quello economico- sociale – soffre oggi per il venir meno della certezza che il benessere raggiunto in Europa (e in Occidente in genere), ritenuto a lungo una realtà incontrovertibile, possa ancora mantenersi. E questo non solo per motivazioni strettamente economiche – alla crisi finanziaria del 2008 si è aggiunta quest’ultima (ancor più grave) provocata dal coronavirus – ma anche (e soprattutto) per motivazioni più radicali che mettono sotto processo la concezione stessa di benessere, sia a causa degli stili di vita da esso prodotto, ispirati a una forma di consumismo alienante dal quale è del tutto assente l’attenzione ai beni relazionali e alla qualità della vita, sia a causa delle modalità con cui lo si è prodotto, legate all’adozione di un modello economicistico incentrato su una logica meramente quantitativa, che, riducendo la natura a semplice contenitore di risorse da sfruttare, è di fatto la ragione principale dell’odierno dissesto ecologico.
    Alla presa di coscienza dei limiti di un sistema economico-sociale che sembrava assicurare definitivamente un avvenire tranquillo, si aggiunge – è questo il secondo fattore, quello scientifico – la crisi di una visione ottimistica della scienza e della tecnologia, che venivano considerate (secondo la prospettiva dello scientismo e del tecnicismo) una sorta di religione capace di offrire grazie ai propri dogmi garanzie assolute. A farne le spese è oggi in particolare la medicina, i cui enormi progressi vengono messi a dura prova dall’impotenza dimostrata nei confronti di un virus invisibile che dilaga in maniera incontrollata e inarrestabile, mietendo un gran numero di vittime.
    Ma (forse) il fattore, che ha una risonanza più diffusa a livello popolare, è quello della cultura di massa – il terzo – dove l’irrompere della morte sconvolge l’immaginario collettivo, abitato dal fiorire di stereotipi che inneggiavano all’eterna giovinezza e proponevano stili di vita adolescenziali (ai quali era d’obbligo per molti adeguarsi) improntati alla ricerca di ciò che rende (apparentemente) possibile vivere in una sorta di eterno presente anche in stagioni avanzate dell’esistenza. Di fronte a una forma di estraneazione dalla realtà, oggi accentuata dalla presenza pervasiva del digitale che sostituisce il reale con il virtuale, e al proporsi dell’ossessione per la cura del corpo, che si vuole sempre bello e prestante – si pensi soltanto al boom del culturismo e della medicina estetica – il confronto con la prossimità della morte assume connotati tragici e destabilizzanti.

    La morte dentro la vita

    Non sono solo queste le ragioni che rendono particolarmente drammatici questi giorni, nei quali la paura della morte si fa sentire in modo nuovo e insospettato. A segnare la presa di distanza dalla morte vi è stata in realtà – ed è un fattore di non secondaria importanza – anche la progressiva separazione dell’uomo dalla natura, il passaggio cioè da un sistema naturale – quello della civiltà contadina in cui il contatto con la terra era quotidiano e si sviluppava fin dai primi anni dell’infanzia – a un sistema sempre più artificiale (o «culturale »), che comporta la perdita del rapporto con i cicli di vita e di morte i quali segnano l’evoluzione delle stagioni e della vita subumana.
    Ma i fenomeni illustrati denunciano, anche al di là di queste ultime ragioni, l’atteggiamento arrogante e di sfida che aveva fino a ieri il sopravvento nella cultura dominante e che impediva di accogliere con realismo la presenza della morte dentro la vita quotidiana. A venire del tutto occultata era la consapevolezza che vita e morte non sono realtà separate (né separabili), ma strettamente intrecciate come due facce della stessa medaglia: mentre infatti la morte costituisce l’evento terminale della vita, il morire è un processo che ha inizio con l’inizio stesso del vivere e che si sviluppa poi ininterrottamente lungo tutto il percorso dell’esistenza.
    La percezione di questo incontrovertibile dato restituisce alla vita il suo senso vero, il suo essere vita a termine; consente, in altre parole, all’uomo di fare i conti con una concezione limitata del tempo, integrando nella propria coscienza il tempo reale, e dunque assumendo positivamente le potenzialità di cui dispone per sfruttarle nel miglior modo possibile. Emerge così la constatazione che limite e possibilità sono grandezze tutt’altro che contrapposte; che l’esercizio effettivo delle proprie possibilità è strettamente dipendente dalla consapevolezza dei propri limiti e dalla capacità di tenerli in seria considerazione modulando a partire da essi il proprio agire.

    Tra scacco e possibilità

    La morte è dunque la spia che segnala la precarietà e la caducità dell’esistenza. La paura che da essa nasce non è certo infondata. Se è vero infatti che a suscitare il panico incontrollato e irrazionale è, nella situazione odierna, la rimozione che di essa si è fatta per i motivi ricordati, non è meno vero che essa è destinata di per sé a provocare un profondo turbamento dell’animo umano. L’evento della morte mette infatti in scacco quell’istinto di sopravvivenza che rappresenta il cardine fondativo di tutte le pulsioni che supportano la dinamica del desiderio, il quale sospinge e guida le scelte dell’uomo. Lo sconvolgimento è poi anche determinato dalla sottrazione violenta al mondo dei sentimenti e degli affetti costruiti nel tempo attraverso la tessitura di legami profondi che sono divenuti parte di noi, nonché dal distacco forzato dall’ambiente nel quale si è vissuto e che costituisce un vero habitat da cui trae respiro e vigore lo spirito. La morte acquisisce in tal modo la cifra del nonsenso, dell’assurdo; di ciò che annienta ogni idealità e ogni progetto; essa inocula, in definitiva, la percezione che la vita è un «essere-per-il-nulla» (M. Heidegger) e l’uomo una «passione inutile» (J. P. Sartre).
    Il nichilismo sembra assumere qui piena plausibilità. Ma la realtà – ogni realtà mondana – presenta connotati ambivalenti: negativo e positivo sono due poli costitutivi della sua identità. Anche la morte non fa eccezione a questa regola. Se, da un lato, essa è scacco, e come tale non può che generare turbamento, inquietudine e angoscia – il carattere tragico della morte non può essere sottovalutato e tanto meno negato –; dall’altro, essa è anche possibilità di un compimento che conferisce alla vita, la cui parabola è – come si è ripetutamente rilevato – limitata, un senso complessivo anche se contingente. La vita a disposizione di ciascuno ha un ciclo segnato dal destino o per chi crede dalla Provvidenza, al quale l’uomo deve sottostare, assumendosi responsabilmente l’impegno a mettere a frutto i propri talenti per il bene di sé e degli altri. La tensione morale diviene così garanzia della fecondità del proprio esistere, e lo scacco è riscattato dalla percezione di un senso di pienezza che conferisce valore al tempo vissuto.

    Nel segno della speranza cristiana

    Per il cristiano vi sono poi significative ragioni per guardare alla morte sotto una particolare angolazione. Egli non è certo sottratto al dramma che contrassegna, al riguardo, l’esperienza di ogni uomo. Anche il Figlio di Dio non è stato risparmiato dall’angoscia della morte e ha cercato di respingerla, invocando il soccorso del Padre: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice» (Mt 26, 39). E, nel momento supremo del trapasso, ha attraversato l’esperienza del vuoto e dell’assurdo, persino del silenzio di Dio. Il grido che accompagna quel momento: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato» (Mt 27, 46), è la testimonianza della prova suprema alla quale neppure Gesù è stato sottratto, dimostrando, anche attraverso a questo, la sua piena condivisione della condizione umana.
    Ma, al di là del dramma al quale nessuno può sfuggire, il mistero pasquale, che ha nella risurrezione il momento culminante, immette un fascio di luce sulla realtà della morte. La risurrezione di Cristo ci ricorda infatti che l’umanità, cui è stata partecipata nel Figlio la figliolanza divina, non può che godere dello stesso destino. La morte non è più dunque l’ultimo traguardo: essa segna l’ingresso in una vita di eterna beatitudine. La speranza cristiana, che fiorisce ai piedi della croce, ha qui il suo definitivo suggello. E la fede ci dice che questo cammino è iniziato fin da quaggiù, perché – come l’apostolo Giovanni non manca con insistenza di annunciare – quella vita promessa ci è già stata partecipata, con l’impegno che la facciamo crescere in noi e negli altri, fino al suo definitivo compimento nella pienezza del regno del Signore.

    (Rocca n. 1/2021)


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