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    La Sapienza

    Spunti sintetici su un tema "inattuale"

     

    Emergere dell'istanza sapienziale nella cultura contemporanea

    Giannino Piana

     

    Con sapienza si indica qualcosa di più rispetto a scienza o a conoscenza intellettuale. La sapienza coinvolge esistenzialmente l'uomo in tutti gli aspetti della sua vita, indica un apprendimento della realtà di tipo esperienziale, unisce l'esperienza alla conoscenza.
    La sapienza inoltre rinvia alla dimensione dell'oggi, alle dimensioni del vivere quotidiano, al dare senso alle cose di ogni giorno.
    La tradizione ebraico-cristiana è attraversata da una sorta di dialettica tra profezia e sapienza. Nella storia del popolo di Israele la profezia è maggiormente presente nei momenti in cui sono necessari profondi cambiamenti, la riflessione sapienzale quando la situazione è più tranquilla e occorre restituire senso al vivere di ogni giorno.
    Tra sapienza e profezia c'è circolarità. Una autentica lettura sapienziale della storia implica la capacità di guardare al futuro e quindi la dimensione profetica, così pure la visione profetica deve anche far fronte ai problemi della vita quotidiana e quindi ha bisogno della dimensione sapienziale. L'esperienza cristiana non può prescindere da nessuno dei due momenti.

    Un contesto culturale favorevole alla sapienza
    Mentre gli anni settanta sono caratterizzati da una spiritualità profetica (largo spazio ai testi profetici e all'Esodo, a tutti quei testi che parlano di cambiamento) oggi si assiste al ritorno ad una lettura sapienziale della vita (Qoelet e Giobbe sono maggiormente frequentati). Il clima più favorevole alla sapienza, proprio dell'attuale contesto culturale, dipende da molteplici fattori.
    a. Il privilegio della soggettività. L'attuale centralità del soggetto è forse una forma di reazione nei confronti di quei processi che avevano negato, oggettivato, reificato il soggetto (le scienze umane che tendono a ridurre il soggetto umano ad un fascio di condizionamenti, le ideologie totalizzanti chiedono al soggetto di sacrificarsi in vista dei grandi ideali politico-sociali...). Oggi centrale è la realizzazione soggettiva, con il rischio di chiusura nell'individualismo ma con il vantaggio di riscoprire l'importanza della dimensione più propriamente personale che implica tutto un tessuto di relazioni.
    b. La crisi delle ideologie forti. La crisi delle ideologie forti e dei progetti a lungo termine è dipesa anche dalla loro astrattezza, dalla loro pretesa totalizzante di ingabbiare la realtà, talvolta anche con la violenza. Oggi, per reazione, si abbandonano i sistemi totalizzanti e si coglie la realtà così come si presenta nella quotidianità. Non si è più capaci di progettare in grande e la stessa domanda di senso è in crisi.
    c. Il fenomeno dell'accelerazione del tempo. Il ritmo sempre più accelerato con cui viviamo il tempo ci rende sempre più difficile il fare memoria del passato e il progettarci nel futuro. Più che fare memoria viva del passato ci abbarbichiamo ad una tradizione mummificata. Il futuro è più temuto che atteso. La vita scorre come un succedersi di istanti scollegati tra loro, non c'è trama che apra al futuro.
    La riscoperta della quotidianità, la rivalutazione della vita ordinaria, ha molti risvolti positivi. Solo, ad esempio, vivendo forme di solidarietà nella esperienza immediata della vita quotidiana sarà possibile vivere autenticamente la solidarietà in senso più allargato, non in modo astratto e ideologico. Solo chi fa i conti con il proprio limite diventa consapevole delle proprie possibilità.
    Si riscopre il volto dell'altro nella vita quotidiana: l'altro diviene il punto di partenza di una rinnovata lettura della realtà. Si riscopre l'importanza delle relazioni, in particolare quelle più quotidiane.
    d. La nuova qualità della vita. Il termine "qualità della vita" riassume la svolta operatasi nella nostra cultura e sintetizza le esigenze espresse anche da una serie di movimenti (dai movimenti femministi a quelli ecologici, dai movimenti per la pace a quelli per i diritti umani), nati dalla constatazione del disagio in cui versa la condizione umana per il rapporto instaurato con la natura, per il rapporto tra i sessi, per la difficoltà di esercitare i diritti umani tanto proclamati, per le tragedie provocate dalla distruttiva conflittualità. Per superare i guasti prodotti da un sistema basato prevalentemente sulla quantità occorre un cambiamento qualitativo della vita, occorrono nuove relazioni con la natura, con se stessi, con gli altri, con il tempo, occorrono relazioni non meramente strumentali o funzionali, fondate non sul primato dell'avere o del produrre, ma sul primato dell'essere.
    e. Il pensiero debole. Dal punto di vista filosofico la sistematizzazione più compiuta delle tendenze suindicate (recupero del soggetto, della quotidianità, delle relazioni) è il pensiero debole, che assume la forma di una sorta di nichilismo. Il pensiero debole sostituisce la categoria della dialettica (una storia che evolve in senso progressivo e lineare) con quella della differenza (una visione non lineare e non evolutiva della storia: la differenza radicale consente solo accostamenti non cambiamenti). La categoria della differenza rinvia ad una lettura della storia secondo il mito dell'eterno ritorno, del nulla di nuovo sotto il sole (Qoelet).
    L'accettazione della differenza diventa momento per l'elaborazione di alcuni valori, come l'atteggiamento di rispetto reciproco che è in negativo tolleranza e in positivo pietas, che è possibilità reale, sia pure limitata, di comunicazione nella consapevolezza della condivisione della medesima situazione di precarietà e di limite propria della condizione umana.
    Il pensiero debole respira del clima culturale generale e sistematizza e rielabora un modo diffuso di pensare e di sentire aprogettuale, ripiegato sul quotidiano, meno teso a voler convincere attraverso forme di comunicazione forte.

    Alcuni tratti di una visione sapienziale del vivere
    Quali tratti devono qualificare l'atteggiamento dei cristiani in un contesto di recupero della soggettività, della quotidianità, dei percorsi limitati, dei significati deboli?

    Ridefinire elementi del messaggio cristiano
    Nel contesto della presente cultura è chiamata in causa la figura di Dio. La fede viene vissuta più in termini di debolezza che non di forza.
    Sotto questo profilo è importante il recupero del mistero dell'incarnazione, come mistero dell'inabissamento di Dio nel mondo, di un Dio che si spoglia, e condivide in Gesù Cristo l'esperienza della precarietà e del limite della condizione umana. L'incarnazione è il segno del nascondimento e del silenzio di Dio.
    Proprio l'attuale situazione esistenziale ci fa riscoprire la centralità della teologia della croce, come riscatto del negativo e del non senso, della sofferenza, del fallimento. Il non senso acquista senso grazie alla compagnia che Dio ha fatto all'uomo anche nelle situazioni esistenziali più perdenti.
    La lettura corretta dell'attuale situazione di sapienzialità richiede un più consapevole utilizzo della dimensione simbolica. Il simbolo oltrepassa i limiti della dialettica e della differenza, parte dalla differenza, ma mette insieme il diverso, evocando qualche cosa che sta costantemente oltre. È per una visione dinamica della storia come la dialettica, ma a partire dalla diversità accettata, secondo la categoria della differenza.

    Tratti di una spiritualità sapienziale: pregare e praticare la giustizia
    Come vivere da cristiani dentro una situazione precaria, provvisoria, caratterizzata da progetti deboli? L'atteggiamento di fondo, ispirato alla dimensione sapienziale della vita, che può caratterizzare il modo di essere del credente è il pregare, o meglio, "pregare e fare ciò che è giusto per gli uomini", secondo l'espressione usata da Bonhoeffer per indicare la carta di identità del cristiano.
    1. Essere alla presenza e essere abitati da Dio. Il pregare non deve intendersi come il dire o fare preghiere ma come un atteggiamento esistenziale di essere al mondo proprio del credente, che è consapevole di vivere alla presenza di Dio e di essere abitato da un Dio che è più intimo dell'intimo di me stesso, che è consapevole di un Dio che sta oltre e che sta dentro di me.
    2. Esperienza di Dio nel mondo e del mondo in Dio. Da un altro punto di vista il pregare può essere caratterizzato come esperienza di Dio che è nel mondo, dentro la storia degli uomini, che ha condiviso la loro storia e come esperienza del mondo in Dio, in una prospettiva di apertura della storia verso il mistero, l'assoluto, la trascendenza.
    L'atteggiamento del pregare nella vita di Israele è legato soprattutto all'ascolto (Shemà Israel, ascolta Israele). L'origine del pregare è dall'alto ed implica il fare silenzio per accogliere il messaggio che viene dall'altro.
    La preghiera, nel contesto di alleanza, si presenta simultaneamente come esperienza della presenza e dell'assenza di Dio. Il Dio alleato è il Dio che proibisce di costruire sue immagini. L'assenza rinvia l'uomo alle proprie responsabilità terrestri. Il Dio solidale non è un Dio che si sostituisce all'uomo.
    In Giobbe la preghiera di domanda si purifica. Dio non risponde alla domanda dell'uomo, ma allarga gli enigmi.
    Centrale per i primi cristiani è l'eucaristia. La preghiera è soprattutto convivialità. Il banchetto eucaristico è convivialità celebrata in quanto preceduta da una convivialità vissuta nella comunione fraterna e nella condivisione delle cose e in quanto spinge ad una ulteriore e più intensa convivialità da vivere nel quotidiano. Già i profeti dicevano che il culto ha senso in quanto culto della vita.

    Alcuni connotati del pregare
    a. Superamento degli spazi separati. È il passaggio dal sacro al santo. Gesù rompe l'ordine del sacro in nome di una santità delle cose interna alle cose stesse. La santità viene dalle cose stesse, dalla vita, dalla quotidianità. Non c'è più bisogno del tempio, del luogo sacro, separato, delle persone sacre, al tempo degli "adoratori in spirito e verità". Come superare gli spazi separati, come riuscire a chiedere il pane chiedendo il regno e chiedere il regno chiedendo il pane? Come recuperare dentro la vita quotidiana l'apertura verso qualcosa che la trascende?
    b. L'utilità dell'inutile. Il pregare è nell'ottica della gratuità. È una dimensione del tutto controcorrente in una società in cui conta solo ciò che è utile, ciò che è produttivo. La preghiera è di per sé inutile ed improduttiva, o meglio è utile rispetto alla crescita nell'essere. È l'utilità dell'inutile.
    È anche l'atteggiamento di stupore nei confronti della bellezza del creato, nella sua dimensione di gratuità, oltrepassando un atteggiamento puramente utilitaristico. È la capacità di guardare le cose in profondità, cogliendone l'apertura al mistero e alla trascendenza.
    c. La recettività. Il cristianesimo è religione del ricevere, del lasciarsi fare, del lasciarsi amare, non del dare, del fare, dell'avere. Poiché è Dio che ci viene incontro il problema è di creare dentro di noi le condizioni per accogliere il Dio che viene. La recettività implica una impegnativa ascesi, la coltivazione dell'attitudine al silenzio, al vuoto, alla povertà per poter accogliere. Vertice di questa ascesi è l'economia del dono restituito, che ci purifica di tutte le logiche possessive per poter accogliere l'altro come altro, quindi in modo più ricco. È il sacrificio che Abramo fa di Isacco: nel momento in cui rinuncia, il figlio gli viene restituito, ma in modo nuovo, più pieno.
    d. Attenzione al presente e apertura al futuro. L'escatologia cristiana implica la coltivazione di un impegno responsabile a costruire dentro al presente cammini di liberazione e apertura costante all'imprevedibile, implica di far propria l'espressione dell'Apocalisse: Vieni Signore Gesù, nel momento in cui sono immerso nella edificazione della storia.


    Temi sapienziali nella Bibbia ebraica

    Giuseppe Barbaglio

    La corrente e la letteratura sapienziale presente nella bibbia ebraica non riguarda solo uno o più momenti particolari della storia di Israele, come nel caso della profezia, ma accompagna tutta questa storia. Si ritrova infatti non solo nei testi cosiddetti sapienziali, ma è diffusa ovunque (es. la storia di Giuseppe nella Genesi, alcuni salmi, ecc.).

    La corrente sapienziale all'interno della bibbia ebraica
    Mentre il profeta è l'uomo della parola, l'apocalittico l'uomo della visione e il narratore storico l'uomo della interpretazione teologica, il sapiente è "il riflessivo", è colui che è capace di individuare quali vie percorrere per raggiungere una esistenza "ben riuscita", risultati positivi.
    Mentre il profeta, l'apocalittico e il teologo della storia si collocano dalla parte della rivelazione divina, hanno come destinatari il popolo di Israele e pongono l'attenzione sulle grandi svolte di Israele, il sapiente fa leva sulla ragione e sulla esperienza umana, ha come destinatario ogni uomo, ogni soggetto e pone l'attenzione sull'esistenza a questo mondo di ciascun individuo, sul suo nascere, vivere e morire.

    Il concetto di sapienza
    La sapienza è anzitutto una conoscenza di come vanno le case al mondo, ed è una conoscenza pratica, è l'arte di pilotare la propria esistenza nel mare burrascoso del mondo per giungere alla vita ben riuscita.
    Vi è poi una sapienza popolare e una sapienza colta, presente nelle corti e nelle scuole.
    È rintracciabile una sapienza ottimistica ed una pessimistica che si pone come critica della prima.
    La sapienza, a differenza della profezia, non è peculiare di Israele, ma ha una dimensione internazionale. La si ritrova in Edom, in Egitto, in Mesopotamia.

    La sapienza ottimistica dei Proverbi
    La sapienza del libro dei Proverbi è la sapienza secolare, più laica rispetto a quella del Siracide.
    Il sapiente osserva come vanno le cose a questo mondo, invita a prenderne atto e a regolarsi di conseguenza.
    L'appello a farsi sapiente è fatto da chi scrive, altre volte è attribuito ad un sapiente, come ad esempio a Salomone, il re sapiente per eccellenza, oppure alla sapienza personificata. Nella letteratura sapienziale non ci si imbatte in comandi. Il sapiente consiglia, esorta, sollecita, sprona, vuole persuadere non comandare.
    La motivazione al vivere secondo sapienza è essenzialmente di tipo utilitaristico: c'è un rapporto di causa ed effetto tra sapienza e riuscita nella vita, successo, ricchezza, onore, ecc. È una visione ottimistica, che si fonda sull'idea di un Dio retributore che premia, in questa vita, il giusto, e punisce l'empio, lo stolto.
    Si esaltano i valori dell'amicizia, della laboriosità, della morigeratezza nel bere, del non lasciarsi sedurre dalla adultera o dalla donna straniera.
    Il confronto con l'ottimismo sapienziale dei Proverbi non può che essere dialettico, teso a raccogliere valori e limiti di una visione a volte troppo utilitaristica, privatistica, che confonde la sapienza con l'astuzia, con lo spirito levantino. La nostra cultura è diversa, accentua altri valori ed ha altri limiti.

    Critica del Qoelet alla sapienza ottimistica
    Secondo il Qoelet, tutto è inconsistente, tutto è vuoto, anche la sapienza. Certamente è preferibile l'essere sapienti rispetto all'essere stolti, ma tutto alla fine è parificato dall'essere destinati alla morte: sapiente e stolto, uomo e bestia.
    Il destino di morte che tutti e tutto accomuna non fonda una visione nichilista. All'uomo spetta il compito di accontentarsi di cogliere quel bene limitato che la vita quotidiana offre (il mangiare, il bere, il godere dei beni...).

    Critica di Giobbe alla retribuzione qui e ora
    Giobbe, innocente, ha quel destino che l'ortodossia del tempo, rappresentata dagli amici, riteneva proprio del malvagio.
    Contesta la risposta della sapienza tradizionale che ricercava nel suo comportamento insipiente e malvagio la causa delle disgrazie. Reagisce duramente agli amici, che fanno calcoli con i loro dogmi e non con la realtà che li smentisce. Se la prende con Dio, che chiama in causa in quanto garante del dogma della retribuzione in questa vita.
    Dio chiude la bocca a Giobbe facendo leva sulla propria strapotenza. La domanda di Giobbe non ha risposta. Rimane il perché.
    Il perché rinvia alla domanda su quale Dio. Il Dio retributore e onnipotente che domina tutto? E allora come conciliarlo con le tragedie umane, con Auschwitz? Oppure il Dio del Gesù crocifisso, il Dio di Alexamenos che adora il crocifisso dalla testa d'asino, il Dio della debolezza, dell'impotenza e della dissennatezza della croce?
    Il crocifisso, massimo segno di stupidità e stoltezza per gli uomini è sapienza per Dio, come dice Paolo.


    La sapienza umana nei detti di Gesù

    Rinaldo Fabris

    La modalità più comune di sapere sapienziale è la piccola sentenza ritmica, nella forma del proverbio, espressione non tanto dell'erudizione quanto dell'amore intelligente.
    Gesù si colloca all'interno della tradizione popolare della sapienza. Appare estraneo alla sapienza colta, coltivata a corte o presso il tempio.
    L'immagine di un Gesù profeta apocalittico arrabbiato non corrisponde a quanto i vangeli ci trasmettono. Più veritiera è quella di saggio, sapiente, maestro.

    Gesù "maestro"
    Marco ci presenta Gesù, dopo l'annuncio programmatico del Regno, come un maestro che insegna con autorità (Mc 1,21-22), un'autorità che non gli deriva da titoli di scuola conseguiti. Gesù è un autodidatta, un sapiente carismatico.
    Gesù è un terapeuta itinerante, ex falegname, che suscita lo stupore, la meraviglia e anche la reazione stizzita dei suoi compaesani (Mc 6,2-3).
    Gesù, al pari di ogni altro essere umano (una malintesa fede nella divinità di Gesù ha messo in ombra questo aspetto) compie tutto il percorso di formazione umana. Il suo sapere è legato alla sua esperienza.
    La cultura di Gesù è una cultura popolare, di carattere pratico e induttivo, propria di un artigiano che lavora con le mani. Gesù mostra una grande capacità di leggere in profondità le esperienze umane.
    Luca retroproietta nella vicenda storica delle origini la figura del maestro che insegna con autorità e sapienza (Lc 2,39-40; 46-47).

    Proverbi e sentenze sapienziali
    Si trovano soprattutto nel discorso sul monte di Matteo e in quello più breve ambientato in pianura di Luca.
    armonia tra interno/esterno
    La trasparenza tra interno/esterno costituisce uno dei temi più affascinanti dei vangeli, con l'immagine dell'occhio e della luce o del parlare che viene dalla pienezza del cuore.
    Sulla stessa linea si colloca la critica alla purità rituale, esteriore, in favore di una purità interiore, della qualità delle relazioni con gli altri e con Dio.

    Coerenza e sincerità
    Gesù colpisce per la sua libertà e coerenza.
    Critica i farisei che pretendono di guidare gli altri senza avere una luce interiore (ciechi guide di ciechi); critica chi scopre la pagliuzza nell'occhio del fratello ma non la trave nel proprio. Si tratta di sentenze che fanno riflettere.

    Ascoltare e mettere in pratica
    Gesù invita a costruire la propria vita su un solido fondamento, come una casa costruita sulla roccia, nell'ascoltare e nel mettere in pratica le sue parole.

    Valutazione e uso dei beni
    L'interesse per la salute, per il corpo, per l'uso dei beni è un problema sapienziale che ha a che fare con il senso del vivere.
    Gesù invita a riflettere sull'investimento affettivo: sul cuore che segue il luogo del tesoro e sulla dedizione totale a qualcuno (non si possono servire due padroni).
    Gesù invita non a disprezzare i beni (Mt 6,25.27-28) ma a disporli secondo una corretta gerarchia. I beni più importanti, come la salute o la vita, sono beni gratuiti. Vivendoli secondo questa prospettiva si fa esperienza religiosa, si coglie il senso del vivere: vivere con senso di gratitudine, senza crearsi inutili problemi (ad ogni giorno basta la sua pena).
    enigmi sapienziali
    L'enigma, una sentenza paradossale o oscura, è un invito a riflettere.
    La esperienza religiosa non si identifica con un semplice stato emotivo, ma neppure col ragionamento. La tradizione sapienziale privilegia la capacità di riflettere, fa appello alla ragione, ma immergendola in un clima affettivo.
    La sapienza non è la fredda filosofia o teologia, non è puro stato emotivo, ma è una riflessione partecipe della vita.
    Rispondendo alle critiche rivolte ai suoi discepoli perché non digiunano, Gesù afferma che in tempo di nozze si fa festa, che il vestito nuovo non ha bisogno di toppe, che il vino giovane ha bisogno di otri nuovi. È la chiara affermazione della novità di Gesù: gioia e festa non conciliabili con vecchi modi di pensare e di agire.
    Come i bambini che giocano alla festa di nozze o al funerale così è capricciosa la gente che critica Giovanni perché troppo severo e Gesù perché fa festa.
    Gesù, a chi lo critica perché non si è sposato, dice che ci sono eunuchi per il regno dei cieli. Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è concesso: la sapienza nasce dalla riflessione sulla vita, ma è anche dono di Dio, è lasciarsi illuminare da Dio che parla attraverso la vita.

    Similitudini sapienziali
    L'esperienza religiosa deve essere vista per poter essere riconosciuta, come la lucerna deve essere messa in alto.
    Occorre stare attenti al vecchio rappresentato da Erode e dai farisei (il lievito che corrompe, Mc 8,15).
    L'immagine del cammello e della cruna sono usate per parlare della difficoltà di un ricco ad entrare nel regno dei cieli.

    Detti e similitudini del quarto vangelo
    Anche nel quarto vangelo, disseminate qua e là, si trovano espressioni che mostrano il gusto di Gesù per la sentenza che fa riflettere sul senso del vivere, come quelle sul tempio ricostruito in tre giorni, sullo spirito che è come il vento (il modo libero dell'agire di Dio), sui tempi nuovi in cui addirittura chi semina fa tutt'uno con chi miete, sul chicco che deve morire per portare molto frutto, sul legame affettivo tra pastore e gregge, immagine di quello tra Gesù e i discepoli, sulla partenza e sulla morte premessa per una nuova e più profonda relazione (Gv 16,21-22).
    conclusione
    Gesù riflette sui fatti della vita per cogliere il senso della propria vita e missione, per fare intravedere l'agire di Dio: è un riflettere come un andare dentro le cose per coglierne il senso davanti a Dio.
    Il vangelo, la buona notizia del nuovo rapporto tra Dio e gli uomini, è amore intelligente, è sapienza.


    Riscoprire la sapienza ebraica: Levinas

    Piero Stefani

    Caratteri qualificanti della sapienza ebraica o giudaica
    Mentre per "ebraismo" si intende sia la religione biblica che quella rabbinica e quella attuale, con "giudaismo" si intende soprattutto la religione rabbinica elaborata in epoca postbiblica. Si parlerà soprattutto di sapienza giudaica.
    La sapienza giudaica (la sapienza indica una dimensione che ha a che fare con il mondo umano e pratico) è caratterizzata dall'origine e dal termine. L'origine di questa sapienza è collocata nella rivelazione avvenuta sul monte Sinai, mentre il punto di arrivo è la figura del sapiente. Questa affermazione è illustrata molto bene in un famosissimo testo posto all'inizio della Misnà, chiamato Pirqé 'Avot, cioè capitoli dei Padri, che risale al 250 d.C., che descrive una catena di trasmissione della rivelazione, della parola di Dio che si umanizza: "Mosè ricevette la Torà (la Torà può essere intesa nella sua globalità come l'equivalente della totalità della rivelazione, non tanto come Legge) dal Sinai, la trasmise a Giosuè, Giosuè la trasmise agli anziani, gli anziani la trasmisero ai profeti, i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea. Gli uomini della grande assemblea dicevano tre cose: siate cauti nel giudicare, allevate molti discepoli e fate una siepe attorno alla Torà".
    Sono qui indicate le caratteristiche della sapienza: l'origine, la trasmissione, l'interpretazione, la discussione, la decisione e la messa in pratica.
    Mosè ricevette la rivelazione dal Sinai (non "sul"). Sinai sta per "cieli", cioè Dio (un modo di dire Dio senza nominarlo).
    Mosé ricevette la rivelazione da Dio disceso sul Sinai, da un Dio che rende udibile la propria volontà. L'origine è divina e tutti gli altri anelli della catena sono umani: Mosè, Gosuè, Anziani (cioè i Giudici), Profeti, gli uomini della grande assemblea, cioè i saggi. Anche i profeti sono canali di trasmissione della rivelazione.
    Dopo il punto di partenza unico e globale non ci sono più altre rivelazioni: bisogna solo trasmettere, attuare e applicare quella parola, da parte degli uomini. L'origine divina consente l'umanizzazione della parola, e il termine è il sapiente, che deve interpretare e trasmettere questa parola. Qui sta il significato che il Sinai è oggi. La rivelazione è sempre oggi.
    E vero anche il contrario: quello che dice oggi il sapiente ha lo statuto della rivelazione, era in nuce già nell'origine. È quanto sostiene Lévinas: Se al mondo fossero mancate certe persone certi sensi della Scrittura sarebbero stati per sempre nascosti.
    Questa trasmissione della rivelazione è un processo di umanizzazione, in quanto la parola divina diventa sempre più umana. Sembra un processo di secolarizzazione (niente trascendenza di Dio), impossibile però per il giudaismo, per il quale l'origine divina è sempre presente (il Sinai è oggi).
    La concezione del giudaismo è aprofetica, in quanto non ci sono ulteriori rivelazioni.
    Il punto di arrivo sono gli uomini della grande assemblea, che per il giudaismo sono i prototipi dei rabbini. La grande assemblea, probabilmente mai esistita, era fatta risalire all'epoca di Esdra e Neemia, cioè al periodo successivo al ritorno dall'esilio. Per il giudaismo la rivelazione biblica finisce in quel periodo e tutti i libri che entrano nel canone biblico si finge che siano stati scritti entro quell'epoca.
    Per quanto riguarda i contenuti della rivelazione, nel brano prima letto si fa riferimento alle funzioni proprie dei saggi, i quali facevano i giudici nei tribunali (siate cauti nel giudizio), i maestri nelle scuole (allevate molti discepoli) e determinavano i contenuti dei precetti (fate una siepe attorno alla Torah).

    Lévinas è un rappresentante della sapienza ebraica?
    Lévinas è preoccupato che la voce della bibbia ebraica continui ad essere tuttora ascoltabile. E perché questo avvenga è necessario tradurre in greco la bibbia e dar credito alla tradizionale interpretazione giudaica della bibbia.
    Innanzitutto quindi occorre tradurre in greco la bibbia vale a dire trascrivere la bibbia in categorie filosofiche, in un linguaggio universalizzabile. Ci sono idee che hanno il loro senso originario nel pensiero biblico che devono essere tradotte in un linguaggio universalizzabile, in pensiero.
    Occorre poi prestare attenzione all'esegesi fatta dai rabbini. Lévinas legge le fonti rabbiniche (in particolare il Talmud) in modo filosofico.
    Se una parola ebraica è udibile ancora oggi, lo è perché è passata attraverso l'anello del giudaismo. Solo la tradizione esegetica giudaica tiene aperto un testo, la bibbia, che vive unicamente se interpretato. Lévinas afferma che certi aspetti delle Scritture non si sarebbero mai rivelati se certe persone fossero mancate all'umanità. Noi potremmo dire che se fosse mancato Lévinas sarebbe mancata la possibilità di tradurre in greco certi passi della Scrittura.
    Lévinas non si allontana dall'esegesi biblica sia nell'intendere l'interpretazione del testo non come una semplice riproposizione ma come una sollecitazione perché dal testo emerga ciò che vi è germinalmente, sia nel proporre una umanizzazione del testo, parlando poco di Dio e molto degli uomini. La trascendenza di Dio è un suo ritrarsi per far emergere l'uomo.
    Certo Lévinas non è un rabbino devoto, ma un filosofo.

    Lévinas e l'etica del non uccidere
    Ritiene equivalenti il comando di non uccidere e il comando di amare il prossimo tuo come te stesso.
    La posizione della sapienza rabbinica e quella di Lévinas sono confrontabili, ma con una profonda diversità.
    Afferma Lévinas: "L'Esodo è anche il libro dei dieci comandamenti, tra i quali io considero radicale il non uccidere. Non uccidere non vuol dire affatto non uccidere con un coltello, ma non uccidere in nessuno degli altri modi che esistono per uccidere. Esso significa piuttosto: ama il prossimo tuo".
    Il motivo dell'equivalenza è ritrovato nel modo di rappresentare le tavole della legge nel mondo ebraico. Mentre i cattolici le raffigurano con tre comandamenti sulla prima (i rapporti con Dio) e sette sulla seconda (i rapporti tra gli uomini), gli ebrei con cinque sull'una e cinque sull'altra, mettendo in relazione, seguendo la tradizione, il primo di una tavola, che per gli ebrei è "Io sono il Signore Dio tuo", con il primo della seconda tavola: "Non uccidere".
    Nella tradizione rabbinica si sostiene la corrispondenza in base all'eteronomia del precetto (il precetto non è valido in sé, non si fonda sulla ragione ma in Dio) e in base al teomorfismo (l'uomo è immagine di Dio e pertanto chi uccide l'uomo distrugge l'immagine di Dio).
    Lévinas interpreta il comando dell' ama il prossimo tuo come te stesso come ama il prossimo tuo. È te stesso. Dal punto di vista biblico non c'è alcun appiglio per eliminare il "come".
    La lettura giudaica della bibbia tiene conto di tutte e tre le frasi del versetto: "Non vendicarti e non serbar rancore contro i figli del tuo popolo. Ama (porta amore al) il tuo prossimo: è come te stesso. Io sono il Signore".
    Il verbo amare poi dovrebbe meglio tradursi con portare amore, che indica più che il sentimento l'azione.
    Ora chi è il prossimo? Nel mondo giudaico tradizionale il prossimo è il coebreo, il connazionale, l'appartenente al tuo gruppo. La pariteticità del come te stesso non vale nel caso dell'essere disprezzato e maledetto (l'uomo immagine di Dio).
    Per Buber prossimo è colui che di fatto ti è dato di incontrare e con cui tu instauri un rapporto di effettivo aiuto.
    Per Buber perché sia possibile l'opera di amore del prossimo è necessario prima purificare l'interiorità: solo così ci si può aprire verso il tu. (rapporto io-tu)
    Al contrario per Lévinas il punto di partenza è l'esteriorità. (rapporto tu-io).
    Per Buber il "non uccidere" è una conseguenza dell'amore del prossimo. Se invece il punto di partenza è l'esteriorità, allora il non uccidere diventa il fondamento dell'amore del prossimo.
    È il primato del volto. Chi mi comanda di non uccidere è la debolezza che è fuori, è il debole che può essere ucciso. L'altro, in quanto volto, non è la mia immagine dell'altro (sarebbe sempre un io verso un tu). L'altro è volto nel momento in cui non è riconducibile a me. L'altro, in quanto debolezza, diventa imperativo,mi pone di fronte alla responsabilità che ho nei suoi confronti.
    Il fondamento dell'amore del prossimo non è né Dio, con un suo comando esplicito, né il mio io interiore rivolto verso l'altro, ma l'altro in quanto volto, in quanto uccidibile. È la debolezza dell'altro che comanda la nostra forza.
    Non è Dio che comanda, ma il volto dell'altro. Certamente c'è Dio, ma in quanto non lo si sa.
    Nella tradizione cristiana del giudizio finale in Matteo (qualunque cosa avete fatto a uno di questi l'avete fatto a me) non è un invito a far bene perché la si fa a Gesù, come solitamente si dice. Il giudizio non è sul sapere o sul non sapere, ma sul fare o sul non fare.
    Il non uccidere è assumere la voce imperativa della debolezza, la responsabilità nei confronti dell'altro.
    Per Lévinas c'è un'altra dimensione da tenere in considerazione.
    La relazione con l'altro è insufficiente, perché il tema biblico non riguarda solo l'amore, ma anche la giustizia, e quindi il problema della relazione a tre. Qui il problema cambia, perché la mia responsabilità nei confronti dell'altro non è più infinita, se l'altro diventa oppressore del terzo.
    Pur avendo una visione opposta a quella di Hobbes (nella relazione a due vige l'homo hominis lupus, e per interesse pongo dei limiti alla mia libertà con un'autorità che faccia rispettare le regole che limitano le libertà di ciascuno) anche Lévinas giunge alla conclusione della necessità del limitare non la libertà, ma la responsabilità di ciascuno. Nella collettività non posso fare tutto quello che l'altro mi chiede, perché devo tener conto del terzo. A questo livello non è sempre illegittimo l'uso della violenza. Lo stesso comando del "non uccidere" può diventare nel rapporto a tre un comando che mi chiede di uccidere, se l'altro fa violenza e uccide il terzo. Il terzo diventa l'elemento più debole.
    Questa frase lo dice in modo egregio, mirabile:
    "Il vero problema per noi occidentali non consiste tanto nel rifiutare la violenza sempre e comunque in ogni situazione, quanto nell'interrogarci su una lotta contro la violenza che senza languire nella non resistenza al male possa evitare l'istituzione della violenza a partire da questa stessa lotta". Cioè l'esercizio della giustizia deve diventare fondazione di una ingiustizia permanente, della legittimazione della violenza.
    Questo è un pensiero non violento, che legittima anche una resistenza violenta, in certe situazioni.


    Alle radici di una spiritualità sapienziale

    Armido Rizzi

    In una prima parte sarà presentato un itinerario fenomenologico (dai sapori alla sapienza). In un secondo momento saranno indicate alcune figure della sapienza. Più che di radici si parlerà di ambientazioni, di contestualizzazioni della sapienza.

    Un itinerario fenomenologico: dai sapori alla sapienza
    il sapore
    "Sapienza" come "sapore" viene dal latino sàpere, che corrisponde al nostro "aver sapore". La prima accezione di sàpere è dalla parte dell'oggetto, dei sapori.
    In italiano c'è un verbo che fa da ponte tra oggetto e soggetto ed è "gustare" (oltre al raffinato "assaporare"), che indica sia il sapore (il gusto) che il sentire il sapore.
    Questa facilità a migrare dal soggetto all'oggetto sta ad indicare una forma di conoscenza in cui soggetto e oggetto sono profondamente uniti, una forma di conoscenza diversa da quella più comunemente intesa, quella cioè del soggetto "di fronte" all'oggetto. La prima riguarda il dato originario, il campo sorgivo del conoscere, rispetto al quale la seconda (quella che si rifà al senso del vedere) è un momento successivo.
    Il gustare, l'avere buon gusto, riguarda non solo i sapori, ma tutto ciò che è bello e buono, come le tinte, i suoni, ecc.. Il gusto, nella sua accezione più generale, è il senso più soggettivo (non si può gustare a distanza, mentre si può vedere e sentire) ed è il meno strumentale, il cui valore è fine a se stesso.
    Mentre la maggior parte dei sensi ha un valore strumentale, il gusto ha sempre una dimensione fruitiva, ha il massimo di carattere fruitivo. Ecco perché il gusto indica quella forma di conoscenza in cui il cuore delle cose e il cuore del soggetto sono più vicini.

    Il gusto del bello (la connaturalità estetica)
    Il "buongustaio" non è semplicemente "chi gusta", ma chi sa valutare i gusti, chi sa riconoscere come buone, belle, valide le cose che lo sono davvero.
    Si tratta qui di un sapere veritativo, in grado di dare dei giudizi di valore, non solo di fatto.
    Tutto il mondo dell'estetica rientra in questo sapere veritativo. Quando dico di un qualche cosa che "è bello", intendo dire che è come deve essere, che è conforme ad un canone ideale, al tipo ideale di quella cosa. Chi ha buon gusto va oltre la superficie delle cose, per coglierne la forma, l'essenza.
    Se è vero che qui abbiamo a che fare con giudizi di valore che presumono di dire ciò che è bello, buono, ecc., è anche vero che questi giudizi sono indimostrabili. Non esiste la dimostrazione scientifica del bello, del buono, del valido. Possiamo solo affidarci alla capacità di mettersi in sintonia tra soggetto e oggetto, alla quale uno può essere maggiormente predisposto e che comunque deve coltivare.
    Questa disposizione di base e la successiva acclimatazione sono la connaturalità.

    La sapienza
    Oltre alla connaturalità estetica (che riguarda gli oggetti da contemplare) esiste anche una connaturalità operativa (che riguarda il saper fare), che, come la precedente, necessita sia di predisposizioni naturali che di apprendimento.
    La sapienza è la convergenza di queste due connaturalità, è l'intelligenza insieme contemplativa e operativa, è la capacità di vedere che cosa è giusto fare.
    È la prudentia dei latini, che indica non solo ciò che è bene evitare, ma che cosa è giusto fare.
    "Giusto" è qui inteso non in senso strumentale, né nel senso estetico (la misura giusta), ma come il giusto della giustizia, che riguarda l'azione vista dal di dentro. È il giusto come canone dell'agire umano, che qualifica il soggetto umano come persona. La persona è vista come giusta o non giusta a seconda di ciò che fa. È la dimensione più profonda della persona ed è l'istanza ultima.
    Non è la qualità dell'altro (di bellezza, di intelligenza, di giustizia) a definire l'esigenza dell'agire giusto, che mi definisce come persona giusta. Proprio il cogliere che devo comportarmi giustamente con l'altro mi fa percepire il suo valore incommensurabile, il suo carattere "sacro", il mio essere sempre in una posizione di debito.
    È questo sapere indimostrabile ad indicare ciò che è la sapienza: il cogliere, al di dentro dell'esigenza di agire giustamente, il valore dell'altro in quanto colui nei confronti del quale devo agire giustamente indipendentemente da quello che ha o è.

    Alcune figure della sapienza

    Il cosmo umano
    Il cosmo umano è quell'ordine globale, all'interno del quale i singoli tipi di azione e di comportamento si qualificano come giusti, proprio in quanto parti del tutto ordinato.
    Se la sapienza è l'intelligenza che coglie ciò che è giusto, in questa figura lo coglie come parte di un "cosmo ordinato".
    • Nelle religioni naturalistiche il cosmo umano è visto come inserito nel cosmo naturale. Le leggi del cosmo diventano le leggi della condotta umana.
    • Nell'ebraismo classico il cosmo umano è visto come comunità con cui Dio fa alleanza, a cui Dio dà la legge. Non è più il cosmo naturale, sdivinizzato, fonte di valore per l'agire umano.
    • Nel pensiero cristiano convergeranno la visione ebraica della comunità a cui Dio dà la legge e la riflessione della filosofia greca secondo cui la legge umana tende ad essere inserita nella legge cosmica. Le leggi della comunità umana acquistano un carattere ambiguo di "leggi naturali".
    Le tre sottofigure esposte si muovono all'interno del "principio-tradizione". La sapienza, come modo giusto di guardare il mondo, è trasmessa di generazione in generazione ed è fatta risalire agli dei a Dio, come nell'ebraismo. La trasmissione, e l'origine divina, legittima ciò che viene trasmesso.
    La modernità rompe con questo sapere sapienziale tramandato. "Sàpere aude!" Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza (Kant).
    La fonte di legittimazione non è più la tradizione, ma la ragione adulta o il futuro, l'utopia. L'ideale del mondo giusto di domani diventa fonte di legittimazione di ciò che è giusto fare nel presente (es.: il marxismo).
    Ma oggi anche il "principio-ragione" è entrato in crisi e si cerca di recuperare un sapere sapienziale
    • o rifacendosi alle tradizioni del passato (fondamentalismi);
    • o creando tradizioni nuove (New Age);
    • o affermando una "nuova laicità", la consapevolezza cioè che esiste, diffusa in tutta l'umanità in quanto dotata di coscienza etica, una sapienza, che può essere terreno comune tra uomini religiosi e non religiosi e che può favorire la nascita dell'uomo planetario (Balducci), consapevole insieme della propria universalità ("io sono soltanto un uomo") e della propria parzialità (appartenenza ad una precisa tradizione e fede).

    La sapienza celeste
    È una figura che fa parte della tradizione cristiana cattolica. La costruzione di un mondo buono e giusto, la sapienza del cosmo umano, è vista come piattaforma per muoversi sin da ora in direzione della patria celeste (la sapienza celeste). Questa visione è rintracciabile nella teologia monastica.
    cogliere i "segni dei tempi"
    I segni dei tempi, il "kairòs", sono, in una prima accezione, i segni di un certo periodo storico, che bisogna cogliere per poter intervenire. Il profeta ha questo fiuto di saper cogliere dove sta andando la storia per potervi operare. I segni dei tempi sono qui visti nel loro risvolto culturale e storico.
    Il fiuto dei processi storico-culturali, unito alla luce o fede a cui uno aderisce, è una forma di sapienza come capacità di leggere i segni dei tempi, che possiamo chiamare profezia.

    La sapienza del tempo escatologico come sapienza dell'istante
    Il "kairòs" è qui visto non in relazione ai fatti storici, ma all'istante, all'oggi continuo.
    Con Gesù sono giunti i tempi ultimi, perché tutto il tempo, in ogni suo istante, è tempo di decisione come se fosse l'ultima. Ogni istante è un "kairòs" come senso che Dio ci dona e che ci sollecita ad una risposta. Ogni istante è una occasione irripetibile di diventare un po' noi stessi, un'occasione quindi non semplicemente in base ai nostri interessi o gusti.
    Nella parabola del fattore disonesto e scaltro (Lc 16,1-9), Gesù ci invita ad avere l'intelligenza (la scaltrezza) di capire che si è nel tempo escatologico, nel tempo che va sfruttato per diventare ciò che dobbiamo essere, non in base ai nostri progetti, opzioni o desideri, ma in base al progetto che Dio ha inscritto dentro di noi e per noi.
    Il progetto che Dio ha su di noi è ultimativamente la disposizione ad amare, a farci amici i poveri diavoli che ci ospiteranno "nelle dimore eterne".
    L'ultima parola della sapienza evangelica è la sapienza dell'amore.

    (Verbania Pallanza, fine 1996-inzi 1997)


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