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    «L’epoca delle

    passioni tristi»

    di Miguel Benasayag e Ghérard Schmit

    Una recensione

    Ivo Seghedoni

    Affrontare la sfida della tristezza

    In questo libro si riflette sul fatto che i centri di consulenza psichiatrica e medico-psicopedagogica si trovano di fronte ad un nuovo tipo di richiesta rispetto a quella classica di tipo psicopatologico. La richiesta, alla quale non sono stati preparati, é: come affrontare la tristezza che attraversa la società attuale? Gli psicologi e psicoterapeuti, «tecnici della sofferenza» [1] sono divenuti un po’ alla volta «l’imbuto in cui si riversa la tristezza diffusa che caratterizza la società contemporanea» e si vedono impreparati ad affrontare la sfida, non solo per la sua ampiezza ma soprattutto per il suo contenuto (pp. 8-9). Le persone che si rivolgono a loro li mettono a confronto con la cupezza e l’angoscia del quotidiano, come se fossero l’ultima diga. Si presentano con sofferenze psicologiche, ma ciò non significa che l’origine del problema sia psicologico.
    Avvisando il lettore di non voler essere «né ottimisti né pessimisti» ma dei pensatori critici, gli autori si chiedono «come resistere in questo mondo di bruti», dove le passioni tristi - l’impotenza e il fatalismo - non mancano di un certo fascino.
    La nostra epoca, crollato il mito dell’onnipotenza, rischia di farsi trascinare «in un discorso sulla sicurezza che giustifica la barbarie e l’egoismo e che invita a rompere tutti i legami, un discorso che assomiglia come una goccia d’acqua al discorso sullo “spazio vitale” tenuto nella Germania indebitata e disperata degli anni trenta».
    Quando una società in crisi, per proteggersi e sopravvivere, aderisce massicciamente e in modo irriflesso ad un discorso di tipo paranoico é la barbarie che bussa alla porta (pp. 127-128).

    Autorità in calo, aggressività in aumento

    Il libro afferma che «la nostra epoca sarebbe passata dal mito dell’onnipotenza dell’uomo costruttore della storia ad un altro mito simmetrico e speculare, quello della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo» (p. 23).
    La rottura dello storicismo teleologico e la perdita della speranza in una sorta di messianismo scientifico, hanno originato una diffidenza estrema nei confronti del futuro, proporzionale all'immensa fiducia che si nutriva nel XIX secolo. E se Freud ne Il disagio della civiltà poteva affermare che «in mancanza della felicità gli uomini si accontentano di evitare l’infelicità», oggi sembra che perfino evitare l’infelicità sia un compito troppo arduo. Viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinoza chiamava le «passioni tristi», cioè l’impotenza e la disgregazione. La fine dell’ideale positivista ha gettato gli uomini nell’incertezza e la crisi si manifesta in una miriade di violenze quotidiane che in gergo si chiamano gli «attacchi contro i legami». Niente da stupirci, allora, se vediamo i giovani colpiti da una sorta di autismo informatico, tuffati in videogiochi dove diventano vincitori di battaglie virtuali contro il nulla, dalla soggettività estraniata dal mondo circostante e dalla scienza che offre tecniche per risolvere problemi ma lascia nell’ignoranza e oscurità.
    L’eclissi o forse il tracollo del principio di autorità apre la strada a varie forme di autoritarismo, perché in una società dove i meccanismi di autorità si sono indeboliti non s’inaugura un’epoca di libertà, ma un periodo di arbitrarietà. Nella relazione genitore-figlio percepita come simmetrica, l’adulto, incapace ormai di contenere le pulsioni e l’ansietà del giovane, si propone come «adulto-venditore», che utilizza prima la via della seduzione per legittimarsi, poi quella della coercizione. L’autorità, di per sé, si basa sul principio di un bene condiviso, trasmesso da colui che per la sua «anteriorità» può farsi garante di una tradizione e assumersi la responsabilità di dare un ordine all’evoluzione, senza bloccarne il cambiamento. Invece, nell’atmosfera esistenziale che si vive, gli adulti appaiono sempre più disorientati e incapaci di offrire un futuro di promesse; gli adolescenti, dal canto loro, percepiscono di essere sotto minaccia e reagiscono tentando di scappare per sottrarsi al disastro.
    Ma rimanere adolescenti non si può. Secondo gli autori, non è più possibile oggi parlare di adolescenza prolungata, perché ognuno si trova nell’impossibilità di vivere la propria adolescenza dal momento che la società non è più in grado di offrire il contesto protettivo e strutturante che essa esige. Per lo svilupparsi dell’esplorazione tipica di questo periodo si richiede un certo contesto ed un certo quadro di riferimento che non c’è più. Gli operatori sul territorio devono affrontare situazioni tragiche, o a volte comiche, che dipendono dalla mancanza di un contesto familiare strutturante che porta l’adolescente, come si dice in gergo, a «farsi il suo Edipo con la polizia», spostando la scena nella città o nel quartiere, giacché non trova nell’ambito familiare un quadro sufficientemente stabile (pp. 36-37).

    Dal futuro promessa al futuro minaccia

    Senza rendersene conto la nostra società ha prodotto un’ideologia della crisi. La credenza fondamentale dell’occidente era la promessa di un futuro messianico, una specie di redenzione laica. Ora si è passati dal «futuro-promessa» al «futurominaccia ».
    Le istituzioni educative agiscono come se non ci fosse alcuna crisi, cercando di superare le difficoltà con un po’ di buona volontà e servendosi di «ideali patchwork».Tra questi, il passaggio dal desiderio alla minaccia.
    Dimenticando che la motivazione fondamentale all’apprendimento è il desiderio di imparare e comprendere, educatori ed istituzioni propongono la via dell’utilitarismo: anziché invitare al desiderio invitano all’apprendimento sotto minaccia. Si è dimenticato l’insegnamento di Freud sull’importanza del passaggio dalla «libido narcisistica» alla «libido oggettuale», cioè attivare quella «pulsione epistemofilica» che rende capace il bambino di dedicare parte della sua libido agli oggetti del mondo da apprendere, comprendere ed abitare. Genitori, professori ed educatori si propongono, invece, di formare i giovani in modo che siano armati contro un futuro che si prospetta duro. L’idea di un futuro minaccioso domina la mente degli educatori che, di conseguenza, si comportano come chi deve aiutare a combattere per superare il pericolo ed uscire vittorioso. «Così la nostra società diviene sempre più dura: ogni sapere deve essere utile, ogni insegnamento deve servire a qualcosa. Con la vittoria del neoliberismo, infatti, l’economicismo è diventato, nel mondo odierno, una specie di seconda natura. L’economia è.» (p. 44).
    Non ci si può concedere il lusso di imparare cose che non servono né scegliere un mestiere perché piace: si è creata di colpo una tacita gerarchia dei mestieri, per cui la scelta di certe professioni dipende da un fallimento del percorso scolastico e la percezione di gran parte della società è che un infermiere è uno che non era in grado di fare il medico.
    Pensare appare un lusso pericoloso. Non c’è il tempo né la calma per riflettere e programmare. Le minacce sono parte dell’orizzonte normale, o perlomeno normalizzato, della nostra quotidianità. Se vogliamo cavarcela, non c’è che da rincorrere le emergenze che continuamente si ripresentano all’apparire di una minaccia dopo l’altra. In tal modo, però, si attiva –anche a livello sociale- la rimozione, che fa fronte alla nuova minaccia mettendo da parte la catastrofe precedente. Per evitare la depressione causata dall’accelerazione del tempo e delle minacce, occorre una politica di rimozione permanente, come se le vicende che ci minacciano non fossero affar nostro. Ma il «rimosso» e il «ritorno del rimosso» sono due momenti dello stesso movimento. «Il ritorno della tristezza sociale quasi fosse un contenuto rimosso, si trasforma quindi in questa nuova sofferenza che bussa oggi alla nostra porta» (p. 52). Ecco perché sarebbe necessaria una clinica della tristezza o una clinica del legame. Infatti «il divenire del mondo e della vita, a partire dalla sua esteriorità assoluta, tesse la trama interiore delle nostre vite e del nostro inconscio. Per tale motivo immaginare dei bambini o degli adolescenti astratti che sviluppano i loro conflitti psicologici indipendentemente da qualsiasi influenza esterna, immaginare cioè degli esseri umani “impermeabili” che si preoccupano dei loro piccoli segreti e non del divenire della vita, significa pensare in termini poco razionali, ma soprattutto non farsi carico fino in fondo del compito che ci siamo assunti» (p. 51).
    E quello che è caratteristico è che la minaccia non è il rischio di uno sbandamento, come potrebbe avvenire nel caso di una guerra nucleare. Piuttosto, la minaccia odierna consiste nel fatto che la nostra civiltà procede bene, che si sviluppa secondo la sua essenza. Nessuno minaccia nessuno. È la civiltà stessa che incappa in una serie di porte chiuse, di aporie, e rende ciascuno vittima di ciò che produce con le sue stesse mani.

    Educare a desiderare

    L’educazione fondata sul desiderio si oppone allo stile di una società che, per la perdita di ideali e la tristezza che la connota, educa in funzione della minaccia, insegnando a temere il mondo, ad uscire dai pericoli incombenti.
    Abbiamo dimenticato l’avvertimento di Freud. Il suo saggio Al di là del principio del piacere spiegava che chi adotta un comportamento per lui nefasto non lo fa per ignoranza del pericolo, ma al contrario, attraverso questa negatività del comportamento prova un godimento che non ha nulla a che vedere con il piacere, che si pone appunto «al di là del principio del piacere». In altre parole, non ci si danneggia per ignoranza e dunque non ci si salva per informazione. Ecco perché il messaggio educativo che pone la minaccia in primo piano può provocare paradossalmente un aumento delle vittime, come nel caso di avvertimenti riguardanti la velocità, i pericoli del fumo, il collegamento tra morte e piacere sessuale.
    All’epoca del mito del progresso si credeva che nessuno si sarebbe consegnato al pericolo con cognizione di causa. Si riteneva che l’informazione avrebbe consentito di accedere gradualmente a quel «regno dei lumi» al quale aspirava Kant.
    Per noi, questo sogno si è infranto e se educhiamo ricorrendo alla minaccia, sollecitiamo la pulsione di morte. Però educhiamo così e lo facciamo perché non riteniamo che quella attuale sia un’epoca propizia al desiderio e alla voglia di vita.
    «Ma è una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro. La nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati. Come dice Guy Debord in La società dello spettacolo, se le persone non trovano quel che desiderano, si accontentano di desiderare quello che trovano» (p. 63). È per questo che la grande sfida educativa è quella di promuovere spazi e forme di socializzazione animati dal desiderio, pratiche concrete che riescano ad avere la meglio sugli appetiti individualistici e sulle minacce che ne derivano. Ricordando il filosofo cinese Tchouang Tse, che spiegava che «tutti conoscono l’utilità dell’utile, ma pochi quella dell’inutile», gli autori indicano la via di «sviluppare la profonda ed ontologica inutilità della vita, della creazione e dell’amore», per aprire nuovi legami di pensiero e di vita (p. 64).

    La gabbia di essere normali

    Un altro modo della società triste di esorcizzare la paura sociale è quello della classificazione. Incasellare le persone anziché capirle. Al prossimo non chiediamo più «che cosa c’è in te?» ma «dove posso catalogarti?». Una volta che ti ho catalogato, agisco su di te con le prescrizioni conformi alla tua categoria.
    Un esempio di questa tendenza è il passaggio da una medicina della diagnosi ad una medicina della classificazione, propria del modello nordamericano. Il paziente deve rientrare nella gabbia classificatoria di un modello epistemologico, con l’obiettivo di ridurlo a merce priva d’interiorità e di rispondere in modo quasi automatico al suo sintomo con la terapia farmacologica corrispondente. Ciò non diminuisce la paura sociale, ma anzi la rafforza attraverso le misure di prescrizione disciplinare (limitazioni, repressioni, controlli...). Se, infatti, qualcuno non è conforme alla categoria di pertinenza, deve allarmarsi e fare tutti gli esami del caso per rientrare a pieno titolo nella sua categoria. Alla lettura della persona in termini di molteplicità si sostituisce l’«etichetta», cioè quella classificazione che imprigiona ogni soggetto nella «consolante» dicitura: «nulla da segnalare».
    Il «miracolo» dell’etichetta consiste nel fatto di dare l’impressione che l’essenza dell’altro sia visibile, esponendolo ad una sorta di «nudità forzata» e di condannarlo così ad un destino predeterminato (non «ho» nulla di particolare da segnalare, quindi «sono» a posto, quindi «rimango» tranquillo). Questa ideologia scientista che conduce all’etichettatura sociale, impedisce ai cosiddetti «normali» di godere di quell’ampliamento del mondo tipico della sensibilità concettuale, artistica, umana dei cosiddetti «portatori di deficit» (ho qualcosa di particolare, quindi rielaboro, quindi agisco).
    Dalla classificazione bisogna ritornare alla molteplicità. Occorre inventare una «clinica della molteplicità» che non muova dalla classificazione per determinare delle impotenze, ma miri a scoprire le potenzialità che ciascuno possiede. La preoccupazione principale di questi centri specializzati non sarà quella di eliminare al più presto il sintomo, ma di comprenderne il senso all’interno della molteplicità della persona, muovendo quindi dal principio esistenzialista enunciato da Sartre: «L’esistenza precede l’essenza» (p. 83). Sotto il profilo pedagogico gli autori ritengono che «il riconoscimento della molteplicità della persona (...) non dovrebbe riguardare solo le persone che hanno problemi, ma anche quelle che si considerano “normali”, affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di “normale”, per poter assumere ed abitare le molteplici dimensioni della fragilità. Nelle nostre società della durezza e delle passioni tristi ci interroghiamo sullo scarto di quelli che vengono definiti “deboli”, mentre dovremmo, ci pare, interrogarci un po’ di più su ciò che viene riconosciuto come “trionfo” e successo» (pp. 84-85).

    Verso una clinica del legame

    Un’ultima questione, fondamentale se si vuole costruire una clinica in grado di aiutare davvero i giovani senza tradirli, è quella dei limiti che la società impone all’individuo.
    Servendosi delle categorie di Francoise Héritier, gli autori affermano che la nostra società tende a rendere pensabile (cioè accettabile a livello sociale) tutto ciò che è possibile (compreso quindi la brutalità, la violenza...). La determinazione del pensabile e del non-pensabile una volta era regolata dai divieti messi dal sacro o dal principio di realtà (due esempi di questi divieti fondanti comuni a tutte le culture: l’antropofagia e l’incesto). Invece, nella logica del possibile, i divieti saltano e devono saltare.
    I messaggi scientisti che parlano ai giovani dell’abolizione di tutti i divieti e limiti sono più attivi di quanto possiamo pensare. Le pratiche pedagogiche e terapeutiche diventano, allora, chiaramente controcorrente, proprio perché cercano di stabilire dei divieti e di risvegliare i giovani dal sogno di onnipotenza. «Purtroppo in questo mondo dove “tutto è possibile”, non si tratta di evitare la trasgressione, anzi la trasgressione è la regola. Si deve semplicemente evitare di farsi prendere: il corrotto impunito è il nuovo eroe di questi tempi senza fede né legge» (p. 98). La sola cosa sacra è la merce. E niente e nessuno deve frenare lo sviluppo economico.
    Meno che mai l’educazione ! Sono due le opzioni che rimangono ai terapeuti: lavorare nella direzione del legame sociale, famigliare e come forma di vita, nella convinzione che la terapia miri alla formazione e riformazione dei legami, oppure accettare come orizzonte inevitabile il regno del «tutto è possibile» e le conseguenze di morte che ne derivano.
    Per formulare un approccio terapeutico che gli autori chiamano «clinica del legame» o «clinica della situazione», è necessario richiamarsi a quanto diceva Aristotele che riteneva che schiavo è colui che non ha limiti né legami, che non ha un suo posto e quindi può essere utilizzato dappertutto e in diversi modi. L’uomo libero, invece, è colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri, come San Paolo che afferma di essere incatenato alla sua libertà.
    Gli autori prendono le distanze da quelle pratiche psicoterapeutiche orientate a far raggiungere ai pazienti un certo grado di autonomia, cioè a rendere le persone più libere per poter dominare il proprio ambiente, le relazioni, il corpo, gli altri… Propongono una clinica orientata a conciliare la persona con il proprio destino e con la dimensione della fragilità insita nella condizione umana.
    Assumere il proprio destino anziché vincerlo ed entrare nella fragilità (che non è né forza, né debolezza, ma rappresenta la complessa e contraddittoria molteplicità da assumere nel suo insieme) «significa vivere in un rapporto di interdipendenza, in una rete di legami con gli altri. Legami che non devono essere visti come fallimenti o successi, ma come possibilità di una vita condivisa» (p. 105).
    Gli autori distinguono tra «individuo», inteso come essere separato dagli altri che stabilisce contatti in quanto e se consente alle relazioni e «persona», intesa come essere intessuto di molteplicità e che accetta il fatto di non conoscere i propri limiti.
    Loro fanno la proposta di un’educazione e terapia della «persona», che non la riduce ad un insieme di sintomi da classificare ed eliminare con un farmaco, ma le risveglia passioni gioiose che consentono di vivere legami non utilitaristici con gli altri e fondati sulle affinità elettive. «Una clinica della situazione o del legame si fonda (...) su questo “non-sapere”, riguardo all’altro (...). Riconoscere di ignorare ciò di cui il corpo è capace significa ammettere che il sapere, quello accademico e professionale, è necessario, ma non è mai sufficiente. Significa che l’etichetta e la diagnosi non devono schiacciare la molteplicità che rende ciascuno di noi una persona a tutto tondo» (p. 116).


    NOTA

    * M. BENASAYAG – G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004, pp. 129 (titolo originale francese: Les passions tristes. Suffrance psychique et crise sociale, La Décuoverte, Paris, 2003). Indice del libro: Breve dichiarazione di intenti, 1. La crisi nella crisi, 2. Crisi dell’autorità, 3. Dal desiderio alla minaccia, 4. Minaccia ed emergenza, 5. I limiti della minaccia, 6. Etica ed etichetta, 7. La questione del limite, 8. Verso una clinica del legame, 9. La «direzione della cura», Conclusione: come resistere a questo mondo di bruti? Miguel Benasayag è filosofo e psicoanalista francese di origine argentina e Gérard Schmit è professore di Psichiatria infantile e dell’adolescenza all’Università di Reims.

    (Tredimensioni 2/2005, 323-331)


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