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    Educare dopo Verona


     

    Carlo Nanni

    (NPG 2007-03-22)


    Il convenire come comunità ecclesiale nazionale non è nuovo per la Chiesa italiana. Esso è scaturito dalla volontà di attuare come comunità credente le grandi intenzioni e le grandi affermazioni del Concilio Vaticano II, rapportandole alle vicende del paese.
    Dopo il grande evento del Giubileo del duemila, si prospettò per il primo decennio del terzo millennio cristiano l’intenzione ecclesiale di «Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia» (2001). Essa si collegava strettamente al «principio speranza» provocato dall’evento del giubileo del 2000 e dalla enciclica di Giovanni Paolo II, «Novo millennio ineunte».
    Il Convegno di Verona, invitando la comunità ecclesiale e ciascuno dei suoi membri ad essere «Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo», mostra un maggiore centramento dal Vangelo a Gesù, dal comunicare al testimoniare. E certamente tutto è trascinato dalla volontà di corrispondere ecclesialmente al «mondo», con ciò che le è di possibile e di più tipico: la speranza che viene da Gesù Risorto, «novità capace di rispondere alle attese e alle speranza più profonde degli uomini d’oggi».
    Come san Pietro negli Atti, alla porta «Bella» del tempio (At. 3,6) si prova, come discepoli, di dire al mondo: «Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo…

    Tra «Gaudium et Spes» e «Lumen Gentium»

    In tal senso si potrebbe dire che ci si è voluti collocare nel livello dello spirituale e nella linea della Chiesa della «Gaudium et Spes».
    Il convegno di Verona, infatti, ha certamente sentito profondamente l’esigenza di approfondire il senso e il ruolo dei cristiani della Chiesa italiana nella realtà storica in cui si ha da vivere e operare. Come si dice in termini teologico-ecclesiali, si tratta di approfondire quel saper abitare nella propria patria, aperti al mondo e insieme come «non del mondo»; partecipando alla vita di tutti ed essendo nel sociale «anima del corpo» (come scriveva l’antico anonimo estensore della «Lettera a Diogneto»): non per forza propria ma in quanto «testimoni del Cristo risorto, speranza del mondo».
    Invero, nei fatti, nella «moltitudine» ecclesiale convenuta a Verona (si è parlato di quasi tremila persone), forse ancora troppo ecclesiastica e adulta, si è sperimentato piuttosto la complessa coniugazione e la doppia faccia che la comunità ecclesiale italiana mostra di avere sempre sottesa: quella «ad intra», cioè rivolta all’interno della comunità e della vita ecclesiale, e quella «ad extra», cioè rivolta alla vita e alla cultura sociale che la comunità cristiana viene a condividere.
    In tal senso, non è stato difficile scorgere soggiacente a tutta l’impresa del Convegno, soprattutto a livello di gerarchia e di presbiterio, per un verso, una precisa preoccupazione dell’urgenza dell’evangelizzazione, e per altro verso, la consapevolezza di doversi confrontare con una cultura pubblica che, dimentica delle radici cristiane, viene a perdere – in sede culturale e di costume, nei fatti ancor prima che nelle affermazioni dichiarate – ogni radice e quindi ogni riferimento trascendente.
    Ma forse in tal modo è apparso il volto della chiesa-cittadella, da rafforzare e da rendere efficiente, come «Lumen gentium», più che il volto della chiesa, esperta di umanità che vive – come il suo Signore – nel servizio all’uomo, la sua «prima via», condividendo le gioie e le speranze del mondo di cui essa stessa partecipa e che tuttavia rilegge alla luce dello Spirito come «segni dei tempi» di quella salvezza, a cui anela l’uomo di ogni tempo ma soprattutto l’uomo d’oggi.

    Nei mutati scenari sociali e culturali in Italia, in Europa e nel mondo

    In effetti, a ben vedere, Il convegno di Verona può essere definito come il primo Convegno ecclesiale dell’epoca della globalizzazione, delle nuove tecnologie informatiche e telematiche, della società italiana attraversata da un forte tasso di multicultura, reale e virtuale, e di una condivisone mondiale nella società della conoscenza e della comunicazione. Ma è anche il convegno in cui si respira pesantemente il clima della frammentazione, della soggettivizzazione e della dispersione relativistica e scettica, del consumismo individualistico, dell’efficientismo funzionalistico e alienante. È anche il convegno di una vita individuale e comunitaria in cui diventa sempre più difficile essere fedeli ad un orizzonte di fede, vivendo dentro e abitando la storia dell’uomo. Disorientamento, incertezza, stanchezza, smarrimento e persino disperazione sono i sentimenti presenti nella esistenza quotidiana.
    In tal senso la parola «speranza» diventa la parola chiave che può suscitare reazioni positive e far diventare possibile una partecipazione, responsabile e competente, da parte di tutti e ciascuno, nella costruzione della città dell’uomo, di luoghi solidali, di aperture all’altro, di attenzione e cura per l’uomo e per il bene comune.

    Sul terreno della vita e dei mondi vitali

    E tuttavia resta vero che non si è badato tanto alle istituzioni ma alla vita. Non si è avuto in prima battuta lo sguardo ai luoghi ecclesiali e civili (casa, famiglia, parrocchia, società civile e politica…) o ai diversi settori tradizionali della pastorale (predicazione, liturgia, catechesi, carità, ambiente, professioni…), ma si è voluto portare il discorso alla sua radicale modulazione antropologica.
    I cinque ambiti di approfondimento (vita affettiva; lavoro e festa; fragilità umana; tradizione; cittadinanza) a loro modo pongono al centro la struttura antropologica di base, quella del quotidiano e dei mondi vitali di tutti e ognuno, nelle sue dinamiche profonde, individuali, di gruppo, comunitarie, private e pubbliche.
    È a questo livello che si è voluto «annunciare», testimoniandola, la «sicura speranza» della possibilità della salvezza della vicenda e della storia umana: per ognuno, per tutti i popoli, per l’umanità intera.
    E in tal senso si è trattato di «iniziare» e aiutare le comunità cristiane a riacquistare la capacità reale di riflettere sulle tematiche del vissuto umano e delle istituzioni in modo costruttivo, così da superare gli atteggiamenti di rimozione o di contrapposizione.
    In tal senso una certa vena pedagogica, nella tradizione della Chiesa «mater et magistra», è risultata sottesa all’intero convegno: avendo per «destinatari» la stessa comunità ecclesiale

    L’esigenza dell’educazione

    Ma una sincera e profonda esigenza educativa è venuta fuori in maniera chiara e precisa. A Verona, l’educazione – magari al di là delle intenzioni esplicite degli stessi organizzatori – è risultato il tema trasversale principale.
    L’educazione delle generazioni in età evolutiva – forse meno quella permanente e comunitaria – è stata indicata esplicitamente da molti partecipanti come una vera e propria emergenza. Lo si è affermato in tutti gli ambiti di approfondimento: da quello relativo alla sfera affettiva e relazionale, a quello del lavoro del tempo libero, a quello delle fragilità e della tradizione, a quello della cittadinanza e della convivenza civile.
    Si è insistito sulla formazione delle coscienze al fine di «risvegliare il coraggio delle decisioni definitive»; sull’importanza di educare l’intelligenza, la libertà e la capacità di amare; ma anche sulla formazione scolastica e professionale e sull’educazione alla partecipazione e al dialogo: quasi arrivando ad una sorta di «progetto formativo permanente» di rigenerazione dell’essere, dell’agire e del linguaggio credente, giovanile e adulto.
    Come ha sottolineato papa Benedetto XVI nel suo discorso all’assemblea, la mattina del 19 ottobre,
    «perché l’esperienza della fede e dell’amore cristiano sia accolta e vissuta e si trasmetta da una generazione all’altra, una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quella della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della grazia. Solo in questo modo si potrà contrastare efficacemente quel rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali».
    E ha continuato, precisando anche la qualità intrinseca di tale azione educativa:
    «Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà. Da questa sollecitudine per la persona umana e la sua formazione vengono i nostri ‘no’ a forme deboli e deviate di amore e alle contraffazioni della libertà, come anche alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile. In verità, questi ‘no’ sono piuttosto dei ‘sì’ all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stato creato da Dio».

    Ma cosa sta succedendo ai nostri ragazzi?

    I primi a risentire nel bene e nel male gli effetti della globalizzazione sulla vita profonda sono i bambini, i ragazzi, i giovani
    Essi partecipano delle opportunità che vengono dalle innovazioni tecnologiche e dal mercato internazionale e mondiale. Il sistema di comunicazione sociale mondializzato permette a tutti, ma a i giovani in primo luogo, l’accesso ad un vastissimo volume di informazioni; e dà loro la possibilità di una comunicazione in tempi ravvicinati con persone e realtà vicine e lontane, quasi abolendo le distanze fisiche temporali e spaziali.
    Più che il cambiamento (come è stato ed è per la generazione adulta o anziana), la generazione nata dopo gli anni ’80 ha avuto e ha a che fare con l’innovazione e la sua forte accelerazione.
    L’ultima generazione sembra mostrare più delle altre l’esposizione alla fragilità e alla debolezza delle relazioni e delle capacità di vita personale libera e responsabile. La quotidianità ci offre in questi ultimi tempi un triste rosario di violenze e di abusi di adolescenti e giovani verso altri adolescenti e giovani, magari più piccoli, disabili, piccole donne.
    Sembra quasi che gli autori di queste azioni non abbiano la percezione del danno che provocano; che ignorino la sofferenza delle loro vittime; che si possa giocare impunemente a spese altrui; o che si possa avere un godimento facile e irresponsabile, quasi «dovuto», e sentirsi gloriosi di essere visti dall’anonimo, ma morbosamente interessato, pubblico telematico.
    In un «forum» d’internet, ho raccolto questo turbato interrogativo: «Ma cosa sta succedendo a questi ragazzi? Cosa imparano nelle loro famiglie?».
    Certo, fa più rumore un albero che cade che una foresta di alberi che cresce.
    Rispetto a coloro che vengono alla ribalta della cronaca che fa «audience» per la sua eccezionalità, ci sono innumerevoli ragazzi e adolescenti, ragazzi e ragazze che vivono e crescono nella ricerca di una vita umanamente degna, pur nelle difficoltà delle età, della vita, delle relazioni, del contesto familiare o sociale. Tutti conosciamo famiglie, scuole, parrocchie, centri giovanili che fanno da supporto significativo e permettono una crescita serena e promozionale.
    Molto probabilmente questi giovani abusanti sono loro stessi «disabili nell’anima», attraversati e pieni di solitudini e di vuoti che cercano di colmare alienandosi nella «fusione» gruppale, facendo azioni «eccezionali», sortendo dal reale e viaggiando nel virtuale, ubriacandosi di violenza, «sballando» nell’alcool, drogandosi nel ballo scatenato nel buio della notte «ancora giovane», guidando pazzamente macchine o motorini sul far dell’alba, magari tornando a casa, o mostrando di «essere qualcuno»… «esibendosi» come le star!

    Tra presenza, calore e autorevolezza: personale e comunitaria

    In ogni caso un’«educazione sentimentale» sembra assolutamente necessaria.
    Ma forse ancora prima è necessario ritessere le fila, ristabilire la relazione educativa, facendosi «presente», «approssimandosi», cioè andando verso (e non solo in senso geografico) e facendosi «prossimo» (e non solo in senso fisico), condividendo, testimoniando e promuovendo gli interessi culturali, le esigenze espressive e comunicative, le preoccupazioni comuni di ogni ragazzo/a offrendo loro la possibilità di una integralità di vita umanamente e civilmente degna.
    La relazione educativa, con tatto e prudenza, ha da muoversi nel non facile ma essenziale equilibrio dinamico di dar fiducia, calore e protezione, e di indicare, valori, orientare, stabilire insieme piste di vita, modi di agire, regole, norme per la convivenza tra persone e a livello istituzionale.
    Ma prima ancora di «accoglienza» c’è da guadagnarsi la fiducia nel lungo e faticoso vivere insieme, essere presenti, rifare la prima mossa o saper e coraggiosamente rilanciare.
    Oggi più che in passato si tratta di non schivare la relazione e le difficoltà del «gap» intergenerazionale: ragazzi e adulti, tutti abbiamo bisogno di sentirci in relazione (che non vuol dire alienarsi nell’altro, ma anzi sentirsi partners e soggetti che liberamente e generosamente si aprono al dialogo e alla reciprocità comunicativa, nella differenza). Meglio il contrasto e la non comprensione che il distacco, l’isolamento, l’assenza. È importante saper dire dei «no che aiutano a crescere» (come dice la Phillips), ma anche dei «sì» che incoraggiano, mostrano e accolgono il contributo di cui sono capaci i bambini, gli adolescenti, veri protagonisti della vicenda esistenziale di ognuno e di tutti. Quando occorra, c’è da saper uscire da se stessi o magari essere capaci di sofferenza e di resistenza (oggi si dice «resilienza»!), superando l’illusorietà che tutto e sempre possa essere indolore. Peraltro si tratta di non sostituirsi alla fatica di crescere, ma fare appello e ricorso alla richiesta di aiuto e di collaborazione, facendo crescere nella responsabilità e grazie alla compartecipazione familiare, scolastica, sociale, parrocchiale, ecclesiale (magari faticosa, costosa, ma bella e grande); oltretutto è un segno di fidarsi e di dar fiducia agli altri e a noi stessi, ma anche di aver coscienza che occorre «dare tempo al tempo» (anche se non è facile resistere all’ansia e alla voglia insana del volere «tutto insieme e subito» a cui spinge la logica consumistica di cui siamo impregnati fin alle midolla).
    Come si dice ne Il piccolo principe, i legami e il cuore aiutano a capire cose altrimenti incomprensibili. La sottolineatura della testimonianza evidenzia che la prima via dell’educazione è quella che passa attraverso il «buon clima», familiare, scolastico, comunitario; attraverso quella che da sempre si dice «testimonianza personale» o tradizionalmente il «buon esempio». Vivendo bene, come individui, come coppia, come comunità, si educa: quasi «respirando» e facendo respirare «vita buona»; con una vita e un comportamento coraggioso, pur nelle difficoltà e nell’incertezza, giocando sul positivo, sul preventivo, sul preparato, ispirando fiducia, sicurezza, apertura: cose che costituiscono la piattaforma di ogni intervento educativo. Prendendosi spazi e tempi per la riflessione, l’ascolto, la convivenza, il dialogo – a costo di scelte alternative anche di tipo economico – si possono esplicitare problemi, trovare motivi, rendere condivisibili linee di senso e valori degni di essere vissuti pur nel pluralismo e nella «incertezza» del tempo presente e del futuro. Darsi (e mostrare con tutto se stessi) «ragioni di vita», dire con la vita (prima ancora che con le parole) che «si è qui per uno scopo» (come dice Manzoni nei Promessi sposi a proposito del cardinal Federico Borromeo), che è importante «costruire qualcosa umanamente degno», «fare un po’ di bene», «lasciare il mondo un po’ meglio di come l’abbiamo trovato» (come diceva Baden Powell, il fondatore degli scout): sono modi di essere e stili di vita di alto valore educativo.
    Lo stile educativo per eccellenza può essere formulato nel «voler bene, volere il bene e volerlo bene, facendolo bene».

    La «partita pedagogica»

    Negli ambienti educativi si parla spesso di «centralità del ragazzo» con le migliori intenzioni di questo mondo. Ma c’è il rischio di farlo diventare l’»oggetto» delle «cure educative» di noi adulti, ossessivamente preoccupati di non far mancare a lui niente che non sia in ordine al suo «successo educativo»! Al centro c’è piuttosto «la crescita e la valorizzazione della persona». L’educazione non è tanto azione degli educatori «sugli» e «per» gli educandi, è funzione della relazione educativa «tra» educatori e educandi, in vista della personalizzazione «competente» degli alunni e della buona qualità della vita propria, altrui e comune. Gli educandi non sono né oggetti, né utenti, né destinatari, ma soggetti attivi e protagonisti responsabili, per quanto e nelle forme che loro sono date, fin dai primi passi della loro vita.
    La relazione educativa non si chiude in una relazione dualistica e intimistica di io-tu, pur essendo fondamentale tale aspetto; e non si chiude neppure nel gruppo classe «auto-gasato» o nel gruppo laboratoriale elettivo «in fusione»; la relazione educativa ha le dimensioni e l’ampiezza della vita nella sua globalità e nelle sue articolazioni, modalità e tempi, procedure e stili.
    L’educazione, per dirla in termini sportivi, assomiglia a una «partita pedagogica», che trova nella comunità educativa non solo l’ambiente e lo strumento, il «campo», ma anche il soggetto di referenza ultimo e il fulcro promotore primo, le diverse «squadre», in cui i diversi soggetti individuali e sociali, ognuno per quanto loro compete, interagiscono e agiscono «insieme» (come squadra, come giocatori con diversi ruoli, come arbitri, come segnalinee, come tifosi, ecc.) per il conseguimento dei fini individuali, sociali, istituzionali.
    Nel gioco di squadra agli educatori e animatori compete attivare azioni di stimolazione e promozione, di far fare pratica di libertà e di valori, di sostenere e accompagnare affettivamente, di orientare responsabilmente, di far interagire proficuamente tutte le componenti e i soggetti della comunità educativa in collegamento con le altre agenzie educative del territorio.

    Le molteplici e nuove potenzialità educative dell’oratorio di oggi

    «Illuminare la mente per irrobustire il cuore»: è stata da sempre la convinzione radicata che ha spinto tanti santi educatori e educatrici, soprattutto dall’età moderna in poi, a gettarsi nel non facile campo dell’istruzione e della scuola.
    Qui vorrei solo sottolineare le molteplici e nuove potenzialità educative che può avere l’oratorio di oggi, opportunamente ripensato, riprogettato e attuato, aprendolo al territorio e facendolo vivere con i polmoni, non sempre sani, delle nostre città.
    Esso può costituzionalmente porsi come ponte tra luoghi (cioè istituzioni protette e intenzionalmente finalizzate) e non luoghi (cioè spazi di convivenza libera e non troppo regolata), tra chiesa e società civile, tra istituzione e aggregazione spontanea, tra casa e piazza, tra scuola e territorio, tra lavoro/studio e ricreazione, tra formale e informale, oggi: l’oratorio è di nuovo riproposto da molti come il rimedio al degrado cittadino urbano o troppo controllato vicinato di paese. Qualcuno invoca «uno dieci mille oratori» come rimedio al bullismo, alla microcriminalità, alla noia e allo sballo giovanile.
    Infatti l’oratorio può accogliere e venire incontro non soltanto a giovani che hanno interessi formativi dichiarati o a gruppi di impegno o all’associazionismo religioso, ma anche ai tanti ragazzi «comuni», poveri, senza etichetta, senza troppe appartenenze e senza altra patente se non quella della collocazione nella «generazione invisibile» e nella «generazione senza» (come solitamente viene letta la condizione giovanile attuale); e che magari all’oratorio vengono solo per giocare o stare tranquillamente senza troppi impegni precisi, per uscire di casa e non stare in strada.
    Nell’oratorio, oltre una pastorale associativa e formalmente organizzata, si può fare una pastorale «soffice», che con mezzi poveri, con il gioco, la festa, il clima familiare, la serenità e la «pulizia» del luogo (che saranno pertanto da garantire, tutelare, ricercare, curare) fa emergere quasi «per simbiosi» i valori e il senso evangelico, magari auroralmente contenuti in ogni esperienza di vita che i giovani fanno, senza richiedere troppa implicazione (se non minimamente ed essenzialmente o indirettamente) in attività ecclesiali proprie e solo della Chiesa, come la catechesi, la liturgia, la predicazione al popolo, l’azione caritativa, ma piuttosto vivendo insieme, permettendo o offrendo attività «secolari» umane come sono il gioco, il canto, il turismo, lo sport.
    Ciò senza perdere la sensibilità missionaria, quella che faceva dire a don Bosco «Io voglio essere il parroco dei giovani che non hanno parrocchia, io voglio essere il maestro di quei giovani che non hanno scuola».
    Come si dice negli ambienti salesiani, all’oratorio si può evangelizzare educando, dando importanza alle esperienze di vita giovanili fondamentali (acquisizione di cultura, amicizia, inserimento sociale), aiutando o invogliando a cogliere in esse e a dar loro consistenza umana ed evangelica, integralità personale e sociale, respiro comunitario e senso di solidarietà civile, promuovendo la compartecipazione, il protagonismo e l’apporto delle diverse condizioni giovanili personali, presenti nell’oratorio e dintorni.

    Ripensare educativamente il «progetto culturale» cristianamente orientato

    Ma oggi più che ieri, in un contesto che ha fatto parlare dell’esigenza di una «nuova evangelizzazione» e che – nel confronto/dialogo interculturale e interreligioso in cui veniamo quotidianamente a trovarci a tutti i livelli e età dell’esistenza individuale e comunitaria – richiede di prender coscienza e testimoniare la «differenza cristiana», la scelta educativa esige – a mio parere – che come educatori, genitori, insegnanti, formatori, si faccia più preciso riferimento ad una ispirazione cristiana non solo a parole o ideologicamente.
    In questo senso c’è da ripensare educativamente il «progetto culturale» cristianamente orientato, rilanciato nel Convegno ecclesiale di Palermo del 1995.
    Come si è detto nel documento preparatorio, la testimonianza cristiana «non comporta la proposta di qualche specifico impegno ecclesiale o di una tecnica di spiritualità, ma la formazione e l’aiuto di vivere la famiglia, la professione, il servizio, le relazioni sociali, il tempo libero, la crescita culturale, l’attenzione al disagio come luoghi in cui è possibile fare l’esperienza dell’incontro con il Risorto e della sua presenza trasformante in mezzo a noi» (n. 9)

    … tra condivisione…

    Certamente la tradizione cristiana – seguendo il suo Signore, che «è venuto per servire» e che «ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la condizione umana» – anzitutto invita a realizzare la «conversione», volgendosi verso la vicenda umana; incarnandosi e solidarizzando con essa.
    Anche educando, occorre avere come orizzonte ultimo la «cura dell’uomo per il ragazzo e la ragazza vivente:
    * dando centralità effettiva, e non solo proclamata, alla persona umana, concreta, singola o gruppo comunitario o collettivo («con il nome e con il cognome» non in astratto);
    * rivendicandone la suprema dignità, ma anche praticando la concreta tutela, difesa e promozione dei diritti umani (tra cui quelli dell’occupazione e di un lavoro umanamente degno per tutti e per giovani in particolare);
    * ponendo «politicamente» la richiesta di condizioni di vita civili e democratiche per tutti e ognuno, per i gruppi e per le comunità;
    * così come la richiesta di cultura e di formazione, di alfabetizzazione, di educazione e di coscientizzazione e partecipazione socio-politica…
    In questa linea ci sarà da educare al servizio (e non solo di mettersi al servizio dei giovani), di suscitare «vocazioni» che si mettano a servizio della promozione umana, di fare proposte di vita anche decisamente alternative in nome di uno sviluppo sostenibile e di un futuro a misura d’uomo.

    … critica…

    Ciò non toglie il coraggio della critica, nei confronti di modi occidental/moderni legati troppo al possesso e all’avere prima e più che all’essere; all’operare e all’agire prima e più che all’essere; o, ancora, nei confronti di certi sbilanciamenti e tabù della modernità occidentale:
    * lo sbilanciamento sull’io (che riduce l’altro ad oggetto e non riesce a vederne l’alterità soggettiva, il volto di una irriducibile interiorità, proprietà e soggettività);
    * lo sbilanciamento sulle cose mercificate da possedere e consumare (per cui diventa preponderante e ossessivo il «carpe diem» e non si riesce a vivere umanamente quello che si sta facendo e vivendo, come vuole l’antico detto «age quod agis»);
    * il tabù del dolore, della sofferenza, della morte, dell’handicap, dello svantaggio economico (fors’anche collegato a una visione del mondo e della vita del tutto chiusa nella «curva dei giorni»), che si cercano di evitare in tutti i modi (invece che affrontarli e vivere almeno dignitosamente in senso di libertà e di umanità, se non in senso religioso di significazione escatologica di una umanità più «alta»);
    * la riduzione della relazione alle sue forme intersoggettive, empiriche e pubbliche, che impediscono di sollevarsi al noi, all’istituzionale, ma anche di arrivare all’interiorità e alla consistenza «ontologica» soggettiva;
    * l’enfasi su un’autorealizzazione che rischia di «infognarsi» nelle secche del benessere individualistico ed egoistico (singolare e plurale, delle persone e dei popoli) o di fomentare il giovanilismo ad oltranza degli adulti (che non permette di vivere il bello di ogni età della vita personale e non fa offrire ai giovani modelli significativi di vita adulta) o, peggio, di far cadere nel narcisismo più duro e tremendo (da alcuni paventato come la vera malattia del secolo XXI);
    * la riduzione del tempo a «cronos», che spinge a un ossessivo «carpe diem» e che diventa consumisticamente divorante (e quindi escludente un modo di considerarlo «kairos», vale a dire opportunità favorevole di realizzazioni di vita per tutti e ognuno);
    * una razionalità esclusivamente tecnologica e scientistica, che tarpa le molte forme conoscitive umane e esclude qualsiasi cammino conoscitivo e vitale di sintesi tra mente e cuore, tra ragione e fede.

    … e profezia…

    Il movimento di incarnazione e di critica si dilata in quello della profezia.
    Il mistero cristiano dell’incarnazione, la rivelazione dell’amore misericordioso di Dio, il rinnovamento umano nello Spirito (per cui si compie la santificazione del mondo e in cui ci è dato di chiamare padre Dio e dire nostro signore Gesù), aiutano a «volare alto», lasciando intravedere:
    * la centralità (non solo religiosa ed etica, ma anche culturale e pedagogica) del «vangelo della vita», del mistero della creazione, della alleanza e della figliolanza tra ogni umanità e Dio;
    * la vita nello Spirito e quindi la possibilità di dialogare, comunicare, far comunità e comunione, oltre ogni alterità, differenza, separatezza, solitudine, emarginazione;
    * la riconciliazione tra umano e divino, tra tempo ed eternità, per cui per essere «grande» di fronte a Dio non c’è più bisogno di essere maschio, adulto, sano, ricco, bianco, civilizzato, appartenente al popolo eletto; ma si è amati fin dal seno materno, si è primi pur essendo ultimi, non c’è più schiavo o libero, uomo o donna, giudeo o greco, perché tutti ci si è abbeverati allo stesso Spirito; e quindi tutti capaci di positivo apporto alla costruzione del corpo sociale (per cui non ci sono più cittadini di serie A e di serie B, ma tutti «concittadini» attivamente capaci di edificare un’umanità all’altezza del Cristo risorto, come insinua san Paolo nella Lettera agli Efesini, cap. 4, vv. 1-13);
    * la profezia de «il di più di Dio», rispetto a pensieri troppo umani, sia riguardo ai modi di parlare e immaginare Dio stesso («i miei pensieri distano dai vostri pensieri come il cielo dista dalla terra»), ma sia anche riguardo alla fedeltà e alla giustizia di Dio, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, che fa splendere il sole sui buoni e sui cattivi, che non spegne il lucignolo fumigante, non spezza la canna incrinata, che non vuole la morte del peccatore ma vuole che si converta e viva, che va incontro al figlio prodigo e ricerca la pecorella smarrita...
    In questo orizzonte si intravede la possibilità di una cultura e di una formazione che permette di aprire le porte alle speranze umane (come diceva il papa Giovanni Paolo II), perché si fa balenare la possibilità del senso di ogni impegno per quei cieli nuovi e terra nuova in cui risplenda definitivamente giustizia e verità; e si assicura la possibilità della piena comunione con il Dio-comunione.

    … nel dialogo interculturale…

    A sua volta, la «cattolicità» e l’universalità cristiana, permette di vincere chiusure religiose «fondamentalistiche» e rende consci dell’incarnazione (o come teologicamente si dice, della «inculturazione») della fede nelle culture e nei vissuti storici, soggettivi, sociali, politici, economici. In tal senso, si comprende come oggi, in un contesto di multiculturalità e multireligiosità, l’apertura dialogale interculturale è necessaria e arricchente per tutti. Indubbiamente senza perdita di identità in un generico e nocivo «volemose bene». Per questo occorrerà muoversi:
    * nella ricerca della condivisione di quelli che potremmo dire i «valori condivisi» espressi ad esempio nella dichiarazione dei diritti umani;
    * nella convergenza operativa per la effettiva realizzazione concretamente e storicamente possibile di tali ideali-diritti (cfr. il concetto di «sviluppo storicamente sostenibile);
    * ma pure nella legittimità della differenziazione delle motivazioni e delle giustificazioni fondative sia della condivisione ideale sia della convergenza operativa;
    * nel dialogo, confronto, dibattito per la ricerca della verità e del bene, che tutti ci superano, così come per la ricerca dell’oltre, dell’ulteriore e del meglio (pur con senso del limite e nella chiara coscienza che non tutto insieme e subito è dialogabile); ma pure con il coraggio del «laetare, bene facere e lasciar cantar le passere» della fattiva tradizione educativo-spirituale cristiana, di cui don Bosco, propositore del detto, fu certamente chiara espressione.

    Conclusione: formarsi a una vita che profuma di Vangelo

    In tal senso la fede cristiana diventa il cuore di una profonda spiritualità dell’educare, che permette di realizzare – in termini di testimonianza personale e comunitaria – un educare «integrale».
    Da questo punto di vista, oggi più che in passato viene ad essere importante un’intelligenza spirituale creativa; e soprattutto realizzare «una vita che profuma di Vangelo», radicandosi nell’essenziale, in Cristo, in Dio (come ha evidenziato a Verona nella sua relazione Paola Bignardi, già presidente dell’Azione Cattolica).
    La tradizione educativa cristiana e la recente pedagogia cristiana hanno da sempre ricordato e ricordano – nella linea del mistero dell’incarnazione e della carità che l’anima – che Gesù è da riconoscere e da contemplare nel volto del ragazzo e della ragazza, del giovane e della giovane, specialmente quello o quella «più piccolo», «più piccola»: educando fattivamente, nella sicurezza della sua parola, che afferma: «L’avete fatto a me»; e: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo».


    T e r z a
    p a g i n A


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