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    «Guai a me se non evangelizzo!» (1 Cor 9,16)


    Testimonianza e missionarietà in Paolo

    Roberto Vignolo

    (NPG 2010-02- 52)


    «[9.1] Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? [9.2] Anche se non sono apostolo per altri, almeno per voi lo sono; voi siete nel Signore il sigillo del mio apostolato. [9.3] La mia difesa contro quelli che mi accusano è questa: [9.4] non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere? [9.5] Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? [9.6] Oppure soltanto io e Barnaba non abbiamo il diritto di non lavorare?
    … [9.12] Se altri hanno tale diritto su di voi, noi non l’abbiamo di più? Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non mettere ostacoli al Vangelo di Cristo. [9.13] Non sapete che coloro che celebrano il culto, dal culto traggono il vitto, e coloro che servono all’altare, dall’altare ricevono la loro parte? [9.14] Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo.
    [9.15] Io invece non mi sono avvalso di alcuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché si faccia in tal modo con me; preferirei piuttosto morire. Nessuno mi toglierà questo vanto! [9.16] Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! [9.17] Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. [9.18] Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
    [9.19] Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: [9.20] mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la legge– pur non essendo io sotto la Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. [9.21] Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. [9.22] Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. [9.23] Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io». (1Cor 9,1-6.12-23)

    La magna charta del Vangelo paolino

    Qual è la «filosofia» ispiratrice di Paolo evangelizzatore, che intende il proprio compito apostolico come una vera e propria «necessità» (1 Cor 9,16) impostagli dal Cristo Signore incrociato sulla via di Damasco (9,1-2; 15,8-10; Gal 1,11-24; 2,1-2.7-9; At 9,1-19; 22,3-21; 26,4-23)? Cosa c’è dietro la gelosa rivendicazione del proprio apostolato e del suo «stile» originale, ribadita con magnifica polemica contro i propri detrattori in 1 Cor 9, vera e propria magna charta dell’evangelizzazione paolina, saldata ad una molto personale scelta di autonomia economica rispetto alle chiese fondate, nonostante il diritto garantitogli in quanto apostolo?
    Da quanto capiamo, l’accusa cui Paolo deve ribattere è quella di un suo millantato credito apostolico. Egli – così insinuano i suoi avversari – non sarebbe veramente apostolo alla pari di Kefa (Pietro) e dei Dodici, stante quella sua rinuncia di rifiutare abitualmente qualunque mantenimento da parte delle chiese (unica eccezione in Fil 4,15-20). Una rinuncia che suona sospetta ai Corinti, da buoni greci fanatici di ogni esercizio di libertà, per i quali sarebbe impensabile che chi gode di diritti e di poteri (exousia), in realtà rinuncerebbe ad usarne: se Paolo non si fa mantenere è solo perché non possiede quel diritto, è solo perché non è apostolo come gli altri apostoli! L’ideale dei Corinti è vicino a quello della cultura radicale odierna: libertà è potere far tutto, avere esperienza (gnosis) di tutto. Sospetta quindi ai loro occhi qualunque rinuncia ad una facoltà legittimamente riconosciuta.
    Paolo ribatte con due argomenti: davvero egli è apostolo, avendo pure lui visto il Signore risorto, e un bel frutto del suo ministero è costituito proprio dalla fondazione della stessa comunità di Corinto. I Corinti hanno così una prova immediata dell’autenticità del suo ministero, dal momento che esistono solo quale opera sua nel Signore (1 Cor 9,1-2).
    Ma Paolo deve pur spiegare – essendo apostolo a pieno titolo – perché mai allora non usufruisca di quel diritto/facoltà/libertà (exousia) che spetterebbe a lui (e a Barnaba) di farsi mantenere dalla propria comunità (come pure di farsi accompagnare da una «donna credente»: 9,5-6). Così prima elenca i diritti effettivi che appunto come apostolo legittimamente gli spetterebbero circa il proprio mantenimento, motivando in ragion dell’esperienza comune (v.7), ricorrendo all’Antico Testamento (ai vv. 9-10 cita Dt 25,4); come pure in nome del buon senso (un ministro del culto trae dall’altare il sostentamento: vv. 13-14 ); e infine riferendosi all’autorità di Gesù che ha stabilito che «i ministri del Vangelo vivano del Vangelo»; infatti «l’operaio ha diritto al suo nutrimento»: 1 Cor 9,14; cf Mt 10,10// Lc 10,7).
    Ma Paolo spiazza i propri interlocutori (1 Cor 9,15-18), dichiarando che di tutti questi ben ragionati diritti, egli né si avvale né intende mai farlo (cf 1 Ts 2,5-10; 2 Cor 11,7). Proporre il Vangelo gratuitamente (e quindi mantenendosi lavorando con le proprie mani, piuttosto che a spese della comunità, come pur gli spetterebbe) gli appare infatti più conforme al Vangelo stesso, «per non recare intralcio al Vangelo di Cristo» (9,12.15). La gratuità stessa del ministero è il compenso del suo ministero.
    Su questa scelta paolina di lavorare lui per sostentarsi, giocano molti fattori. Oltre che la consuetudine rabbinica di unire lavoro e studio della Torah, subentrano pure le differenti condizioni sociologiche di chi, come lui, vive in un ambiente cosmopolita e metropolitano pagano, dove egli invece non può certo far conto sulla solidarietà rurale e familistica della Galilea e Giudea di Gesù – ebreo carismatico marginale itinerante senza fissa dimora, né lavoro, né ruolo sociale,[1] che invece poteva sperarci. Egli ha da garantirsi lui la propria sussistenza, senza farsi confondere con i filosofi predicatori itineranti disinvolti nello sfruttare il proprio uditorio. Paolo e Gesù, due scelte diametralmente opposte per la stessa gratuità evangelica.
    Ogni buona comunicazione verbale, tanto più di un evento salvifico, chiede in ogni caso un concreto corrispettivo linguaggio non verbale, un supporto relazionale fisico e perfino socioeconomico tra gli interlocutori, nel caso del Vangelo capace di evidenziare di volta in volta in modo diverso la medesima gratuità. Il primo grande prolungamento della parola come evento è il corpo, la gestione dei suoi affetti, dei suoi bisogni e dei beni di cui dispone. Qui più che mai il medium è il messaggio (Mc Luhan), ovvero l’azione stessa è eloquente, come una parola, «come un testo» (P. Ricoeur), e anche ben più che un testo scritto. Ben lo sapevano i profeti d’Israele, che supportavano volentieri la loro predicazione orale con tanto di corposo linguaggio non verbale tipico delle loro azioni simboliche.
    Ma il linguaggio non verbale di per sé non suona necessariamente subito perspicuo, e si tratta di spiegarlo verbalmente.
    Così Paolo porta il discorso sull’annuncio del Vangelo così come da lui praticato, in una pagina di meditata composizione, il cui vero soggetto è più il Vangelo che non lui stesso. Lo schema concentrico fa risaltare l’efficace dinamismo sottostante.[2]

    A/
    v 19 Infatti, pur essendo io libero da tutti, mi sono asservito a tutti,
    per guadagnarne il maggior numero.

    B/
    v 20 Per i giudei son diventato giudeo per guadagnare i giudei.
    Per quanti sono sotto la legge son diventato uno che è sotto la legge,
    – pur non essendo io sotto la Legge – per guadagnar quanti son sotto la legge.

    v 21 Per quanti sono senza legge son diventato uno senza legge
    – pur non essendo io senza la legge di Dio,
    anzi essendo nella legge di Cristo – per guadagnare quanti son senza legge.

    v 22a Son diventato debole per i deboli, per guadagnare i deboli.

    A’/
    v 22b Mi son fatto tutto a tutti, per salvare a tutti i costi qualcuno.
    v 23 Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro!

    All’inizio e alla fine (A/ v.19 e A’/ vv.22b-23) Paolo sintetizza il suo servizio apostolico in vista della sua destinazione universale («tutto»/«tutti»), offrendo la chiave di tutta la sua evangelizzazione. Al centro (B/ vv.20-22a) invece ecco l’articolazione della sua pastorale evangelizzatrice, distinta per quattro categorie di destinatari: 1/ i Giudei (di razza, fede, cultura giudaica);[3] 2/ «quelli sotto la legge» (i proseliti, i convertiti al giudaismo dal paganesimo: cf At 13,43); 3/«quelli senza legge»: ovviamente i pagani, suoi destinatari privilegiati (cf Gal 1,16;2, 7; Rom 15,17-19); 4/ «i deboli» – cioè i cristiani ancora inconsapevoli della libertà loro conferita dalla fede, di cui ha parlato poco prima (1 Cor 8,7-13; cf Rom 14-15).
    Con questi quattro differenti destinatari Paolo abbraccia in realtà tutte le grandi divisioni del suo tempo, effettivamente riflesse nella variegata comunità di Corinto, dischiudendo un effettivo orizzonte globale. E riconosce nei propri interlocutori di volta in volta dei partners nei cui panni l’apostolo ha come da identificarsi in nome della comunicazione del Vangelo, che esige nei confronti di tutti non solo «flessibilità», ma empatia e simpatia (caritas!) culturalmente elaborate e mediate in nome della comune appartenenza al Vangelo e della stessa differenza. L’identificazione comunque più prudenziale per le prime tre categorie (temperata da un «come se»), par invece davvero netta nel caso dell’ultima, rappresentata dai deboli, con i quali l’identificazione di Paolo suona più diretta (senza il «come se»).
    Per sintetizzare il suo atteggiamento complessivo, Paolo infine ridimensiona più realisticamente le attese soggiacenti a questa sua radicale disponibilità ad ogni interlocutore, non più «guadagnare» intere e distinte categorie di persone, ma più modestamente «salvarne a tutti i costi qualcuno» (v.22b). Ma la vera conclusione arriva solo quando, a sorpresa, Paolo addita l’orizzonte ultimo della comunicazione del Vangelo in vista di una «comunione al Vangelo» (Fil 1,5) tra destinatari e destinatore: «tutto faccio per il Vangelo, per divenirne compartecipe con loro («hina synkoinonos» (v.23).
    Scopo ultimo dell’apostolo evangelizzatore è scoprirsi lui stesso – insieme ai suoi interlocutori – compartecipe dello stesso bene salvifico, lui e loro parimenti coinvolti nel suo fecondo dinamismo di recezione e trasmissione, di apprezzamento e condivisione dei suoi frutti, e di ogni condivisione ulteriore ad esso intrinseca (Fil 1,5). In qualunque sua forma, la comunicazione del Vangelo ha quindi di mira null’altro che la comunione al Vangelo. Non Paolo è il vero protagonista del suo apostolato, bensì il Vangelo dispiegato in tutta la sua ricchezza e articolazione, inclusivo di predicazione (2Cor 2,12; 8,8; Fil 4,3.15), contenuto salvifico cristocentrico (1 Ts 1,10; 1 Cor 15,3-5; Rom 1,3-4), e ricaduta di fede salvifica e testimoniale (1 Ts 1,1ss.; Fil 1,5), mai sganciato quindi dai suoi reali destinatari, che in quanto tali ne costituiscono parte integrante.

    Il modello cristologico come fondamento originario della «comunione al Vangelo»

    Paolo attinge questa sua straordinaria libertà di comunicazione e inculturazione configurandosi nel modo più rigoroso possibile all’evento cristologico, al nucleo più intimo del Vangelo inteso quale il più originario evento di libera autocomunicazione possibile. Lo si vede comparando 1Cor 9,19-23 con altri ben noti testi affini per sintassi, vocabolario, e semantica, e dove significativamente soggetto non è solo l’apostolo (Fil 3), ma il Cristo (Fil 2,5-11; 2 Cor 8,9) e perfino Dio (2 Cor 5,21). L’ evangelizzatore servo di tutti, si configura allo stesso suo Signore Gesù Cristo liberamente autoasservitosi, come si evince da queste pagine parallele:
    Ovunque ricorrono la stessa terminologia, semantica e sintassi, così da poter ravvisare un vero e proprio modello kenotico [4] di autoasservimento salvifico, dove l’evento cristologico (Fil 2,5ss, 2Cor 5,17; 8,9) si articola in tre tappe analoghe a quelle reperibili anche in Paolo evangelizzatore (1Cor 9) e credente (Fil 3).
    In particolare:
    A/ esordisce sempre qualcuno posizionato in originaria pienezza e libertà (in una subordinata);
    B/ il soggetto in questione interpreta questa propria superiore posizione attuando un libero autoasservimento (nella proposizione principale);
    C/ in vista c’è sempre una prospettiva salvifica di ulteriori soggetti (in una proposizione finale).
    È quindi la stessa kenosi di Gesù a fondare l’atteggiamento di Paolo credente e apostolo evangelizzatore «sottoposto alla legge di Cristo» (1 Cor 9,21), anzi: «servo di Cristo» (Rom 1,1; Fil 1,1; Gal 1,10). Dalla kenosi di Gesù, Figlio, servo e Signore, Paolo mutua quella straordinaria libertà di comunicazione nell’assumere di volta in volta la condizione diversa del proprio destinatario (giudeo, pagano, cristiano che sia). Naturalmente in questa configurazione resta pur sempre invalicabile la differenza tra Cristo e l’apostolo, in quanto solo l’evento Cristo realizza una piena autocomunicazione salvifica («perché voi diventaste ricchi della sua povertà»: 2 Cor 8,9; cf 2 Cor 5,21), suscitando la confessione di fede nel suo nome (Fil 2,10-11). Cristo, non l’apostolo è il salvatore. Obiettivo proporzionato di Paolo è di acquisire alcuni alla salvezza – un numero comunque limitato anche rispetto a quanti potrà più direttamente raggiungere – per partecipare con loro alla vita del Vangelo, mediando loro quella comunione al Vangelo (Fil 1,3; 1 Cor 9,23) dal quale egli stesso vien mosso, condividendo con loro l’ossimoro cristologico di una povertà essa stessa capace di arricchire nell’atto di prodursi (2 Cor 8,9).

    Modelli di libertà: comunicazione e inculturazione del Vangelo

    Ma il pregio di 1 Cor 9 non si limita al fatto che l’esistenza apostolica diventa una epifania della kenosi (cioè della libertà) di Gesù. Questa fondazione cristologica del Vangelo globale paolino, in ordine a raggiungere il suo scopo comunicativo viene infatti anche coraggiosamente inculturata, tradotta cioè in un linguaggio quantomeno prossimo alla sensibilità dei Corinti, al tempo stesso intelligibile rispetto ai loro interessi esistenziali, ossessivamente centrati sulla libertà, ma senza attutire la scandalosa novità cristiana.
    Proprio nella questione della libertà Paolo trova il punto di aggancio entro cui incuneare il Vangelo per loro, così che risuoni appetibile eppure critico rispetto al modello troppo restrittivo di libertà da loro coltivato. Infatti per loro – vivaci esponenti di cultura greca ellenistica – libertà è semplicemente indipendenza, ovvero il «poter disporre di sé indipendentemente dagli altri». Oltretutto un’indipendenza meno socializzata e meno politicizzata dei tempi della Grecia classica (dove il modello dell’uomo libero è il cittadino che entro la polis gode di tutti i pieni diritti di partecipazione alla vita politica).
    Avendo ormai gli imperi fatto sparire questa istituzione cittadina, l’età ellenistica si ispira al cosmopolitismo per cui l’uomo libero coincide piuttosto – conforme ad un’idea soprattutto stoica – con il «cittadino del mondo».
    Ma anche sentendosi membro del più grande corpo cosmico, il modello promuove una totale indipendenza e autodeterminazione,[5] che nel rapporto con gli altri (questo almeno il caso dei Corinti) intravvede più facilmente un possibile attentato alla propria libertà, piuttosto che un positivo riferimento. L’uomo libero – cioè il saggio – è colui che – come il re, come Dio stesso – possiede e controlla perfettamente tutto quanto sta in lui,[6] costituendo una figura esattamente contraria di chi si facesse servo di altri (in ogni caso, semplicemente aborrendo la sola idea di servo).
    Paolo interviene a fronte di questo ideale di libertà non in termini di totale antitesi, bensì piuttosto di critica e di integrazione rifondatrice, istituendo con il Vangelo simultaneamente una rottura e una assunzione rispetto alle attese e modelli culturali degli uditori.
    * La rottura – cioè la contrapposizione scandalosa con questo più restrittivo modello greco di libertà – emerge appunto con la prospettiva del farsi schiavo, doulos, una parola e una prospettiva aborrite dall’ideale sapienziale della grecità. Sicché quando Paolo si programma quale «servo di Cristo» (Rom 1,1; Fil 1,1; Gal 1,10), «servo di tutti» (1 Cor 9,19) di certo non trasmette un messaggio appetibile, bensì sommamente urtante e scandaloso per una mentalità greca, completamente sovvertita nella sua certezza più insindacabile per cui la vera libertà non risiede nell’autonomia, bensì nel servizio (ovvero nella carità). Parlando un linguaggio «politicamente scorretto», Paolo non teme di andare esattamente in direzione opposta alla tendenza dei Corinti.
    * Proprio mentre ne rovescia la prospettiva, Paolo trova tuttavia con la cultura greca dei Corinti un punto di aggancio positivo sul loro stesso terreno di libertà intesa come indipendenza e aspirazione alla totalità, sicché la sua evangelizzazione non si propone come rigida contrapposizione, ma piuttosto come critica assunzione della sensibilità culturale dei suoi destinatari. Proprio come i Corinti, lui pure infatti valorizza per un certo aspetto la libertà come indipendenza, poiché in tal senso va infatti l’originale coraggiosa scelta economica di indipendenza (1 Cor 9,15-18), nonché di un energico autodominio del proprio corpo (9,24-27; ma già 6,12: «non mi lascerò dominare da nulla»). Tuttavia Paolo dilata incredibilmente la restrizione di una libertà intesa come pura autonomia, nel momento in cui la piena indipendenza viene da lui assunta nella scandalosa disponibilità del mettersi-a-servizio-di, configurandosi alla ricca povertà di Cristo Figlio, servo, e signore. In quest’ottica, la libertà diventa allora non più un semplice tutto autocentrato «disporre di sé», bensì un «disporre di sé, lasciando disporre di sé» (H. Schlier), mettendosi a servizio di tutti con l’universale predicazione del Vangelo.
    Specialmente sotto il profilo della libertà come «poter fare tutto» Paolo raccoglie quest’istanza culturale dei Corinti riplasmandola in forma cristiana. Già in precedenza, sfruttando la ben nota cifra antropologica (biblica e non) che propone all’umanità un modello regale, lanciava un richiamo certamente critico, ma comunque allettante alle orecchie dei suoi interlocutori, affermando: «l’uomo spirituale giudica tutto, e non è giudicato da nessuno» (1 Cor 2,15; cf 1,5; 2,10) – e ancora, in un magnifico crescendo quasi lirico: «tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio!» (1 Cor 3,21.23); «tutto mi è lecito, ma non tutto giova, né tutto edifica!» (6,12;10,23).
    Come già accennato, nella prospettiva paolina il «tutto», meglio che della conoscenza e del potere, diventa campo di azione precipuo della carità che «tutto copre, tutto crede, tutto spera tutto sopporta» (1 Cor 13,7; cf 16,14). Carisma superiore ad ogni conoscenza, la carità è la «facoltà» più propria e decisiva della libertà, in fondo è lo stesso Cristo Signore che vive in noi mediante il suo Spirito (cf Gal 2,20). Quando allora proclama: «mi sono fatto servo di tutti... mi sono fatto tutto a tutti... Tutto io faccio per il Vangelo ...» (9,19.22.23), egli propone lo scandalo della libertà come servizio in un linguaggio tuttavia capace di far presa su chi – come i Corinti – aspira ad una totale e radicale libertà, bramoso di «potere tutto». Un «tutto» individuabile questa volta non a partire da una soggettività autosufficiente, egocentrica, interessata solo ad accaparrarsi il proprio benessere materiale o spirituale, bensì costruita attraverso le relazioni interpersonali, e quindi prestando la dovuta attenzione alla cultura (cioè alla storia) di ogni possibile interlocutore.
    Il destinatario del Vangelo come contenuto salvifico è per definizione interno al Vangelo stesso, sicché il suo annuncio non potrà mai dimenticarsi di farsene carico in termini di servizio e nell’obiettivo della compartecipazione. Secondo il modello paolino la figura dell’altro (in senso indissolubilmente personale, etnico, e culturale) diventa non più un attentato alla propria libertà, bensì una positiva e costitutiva condizione per attuarla.
    Ecco il «tutto» accessibile a chi appartiene a Cristo, e quindi non aspira più solo a disporre autonomamente di sé, ma a lasciarsi configurare alla «grazia del Signore nostro Gesù Cristo, che, pur essendo ricco, si fece povero per voi, per arricchirvi della sua povertà» (2 Cor 8,9). Questa la «necessità» (1 Cor 9,16) del Vangelo cui Paolo si sente obbligato.

    NOTE

    [1] In merito cf G. Theissen, Sociologia del cristianesimo primitivo, Marietti Torino 1987 (Dabar 5), 74-93.179-206.
    [2] Lo schema A/- B/-A’/, familiare a Paolo prevede una corrispondenza tra il primo e l’ultimo dei tre momenti (A/A’), ottenuta passando per un elemento centrale (B), che consente di riprendere il tema iniziale ad un livello più profondo (traduco qui un po’ diversamente dalla CEI 2008).
    [3] Forte la dichiarazione di farsi «Giudeo con i Giudei» in bocca di chi già lo sarebbe (cf At 16,1-3; 21,17-26). In realtà «giudeo» è espressione corrente sulla bocca dei non ebrei. Per la propria appartenenza a Israele Paolo si qualifica «ebreo» (Fil 3,5).
    [4] Per un’analisi più puntuale rimando al mio recente contributo «La povertà che arricchisce. In merito a 2 Cor 8,9 e dintorni», in: N. Ciola – G. Pulcinelli (a cura di), Nuovo Testamento: teologie in dialogo culturale. Scritti in onore di Romano Penna nel suo 70° compleanno (Supplementi alla Rivista Biblica 50), EDB Bologna 2008, 287-298.
    [5] L’idea di libertà come autonomia, cara soprattutto allo stoicismo, include il distacco dal mondo circostante attraverso la limitazione delle proprie esigenze, e l’affermazione irriducibile della propria volontà (fino al suicidio, forma suprema di libertà). Esalta la liberazione dalla paura e dalla morte, in vista dell’imperturbabilità (Epitteto, Diss. III, XXII 48). Qualcuno geme? «Non esitare a testimoniargli a parole la simpatia, e perfino a gemere con lui. Vigila tuttavia di non gemere interiormente anche tu» (Epitteto, Manuale, 16).
    [6] Il saggio è stimato un re che tutto possiede (Epitteto, Cicerone, Seneca…). Ma la saggezza biblica scuote il capo su tanta pretesa («l’uomo non può avere tutto, poiché il figlio dell’uomo non è immortale!»: Sir 17,25), riservandone l’eminente attribuzione a Dio («Egli è tutto, in tutto, al di sopra di tutto!»: Sir 43,27-33). Stoici ed epicurei si impegnarono ad esorcizzare la morte, esaltando la signoria della libertà come autodeterminazione. Alla luce del Cristo Signore su tutto (1Cor 15,27-28; cf Fil 2,11; 3,8.20) Paolo raccoglie questa sfida in chiave di carità pastorale.


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