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    Eucaristia


    Grammatica e sentieri di sinodalità nella PG /9

    Gianluca Zurra

    (NPG 2023-06-62)


     

    Esiste un legame fondamentale e tradizionale tra Eucaristia e sinodalità: la prima è la sorgente della seconda, è ciò che configura sinodalmente la Chiesa. Quando il sinodo inizia con la celebrazione eucaristica, non si tratta di un’aggiunta introduttiva posticcia, ma dell’esperienza rituale di Gesù che sta al cuore della sinodalità. Nell’Eucaristia, infatti, la comunità cristiana si raccoglie e si ferma attorno al suo Signore nella forma di un’assemblea radunata, dunque di una fraternità reale e visibile: l’incontro culminante con Gesù, che sceglie di essere riconosciuto allo spezzare del pane, accade nell’impensata prossimità con i fratelli e le sorelle, e mai senza di essa.
    Per questo l’agire sinodale della Chiesa non è riducibile ad una organizzazione esteriore, neppure a procedure più o meno efficaci, per quanto importanti, ma è fin dall’inizio un’esperienza spirituale: se nell’Eucaristia diventiamo il Corpo di Cristo nella storia umana, così la sinodalità vissuta come ricerca di una consonanza nello Spirito tra soggetti diversi diviene “ripresentazione” di Cristo oggi: “dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.
    Tramite l’Eucaristia e passando in essa la Chiesa si forgia in prospettiva sinodale, poiché il primato di Gesù e dell’annuncio del Regno assumono come condizione e come figura la relazione dialogica tra tutti i soggetti ecclesiali.
    Questo stretto legame tra Eucaristia e sinodalità può essere compreso soltanto alla luce del rinnovamento liturgico del Concilio, che ci ha rieducati a riscoprire la celebrazione eucaristica non come azione intimistica, né come devozione privata, ma come gesto comunitario che fa esistere la Chiesa Popolo di Dio nella forma del Corpo di Cristo. È il rito come pasto condiviso che ci chiede di non disgiungere mai il legame con Gesù dalla prossimità con gli altri, facendo così della sinodalità la condizione concreta e spirituale dell’incontro con il Signore e della sua presenza reale tra gli uomini.

    L’Eucaristia come pasto

    Il pasto è la forma rituale tramite cui la Chiesa, nell’Eucaristia, fa memoria di Gesù Risorto, riconoscendolo come il Vivente e il Veniente verso di noi in ogni tempo. Come ci attestano gli Atti degli Apostoli, ben presto le prime comunità cristiane si radunano il primo giorno dopo il sabato per spezzare il pane in memoria del Signore in ambienti domestici. La scelta dei luoghi non è casuale: manifesta come la Chiesa si sia lasciata disegnare in profondità dai tratti e dallo stile di Gesù, riconoscendo il legame con Lui dentro le esperienze più comuni della vita. La casa, e non più il tempio, diventa lo spazio per l’ascolto degli apostoli, per la preghiera, per il pasto comune e per la fraternità.
    In effetti, Gesù ha voluto consegnarsi a noi tramite un pasto condiviso, gesto attorno al quale riassume tutto il senso del suo vivere e del suo morire. Egli si rivela Maestro nella sua ineguagliabile capacità di assumere questa esperienza umana fondamentale in modo unico. Non rinuncia a sedersi a tavola, anzi: molto spesso, nei racconti evangelici, viene sorpreso come ospite a casa di qualcuno. Non ha paura di ricordare al padrone di casa che stare davvero a tavola significa rinunciare ai primi posti, proprio perché ci si ritrova attorno ad un unico tavolo[1]. Con delicatezza, ma anche con forza, restituisce al pasto la sua qualità ospitale: per Gesù non ha senso un prendere cibo che non apra alla condivisione con gli ultimi e all’ospitalità reciproca, di cui diventa emblema la donna del profumo, unica commensale ad accogliere il Maestro sprecando senza remore il nardo in abbondanza[2].
    L’ultimo gesto di Gesù, a sua futura memoria, è una cena, durante la quale si ringrazia, si condivide e si chiede, con tutto il dramma conseguente, che la comunione tra i commensali possa resistere anche alla dispersione provocata dalla morte. Questa volta è lui a farsi cibo per tutti, donando il suo corpo come pane che sostenta per sempre. Non solo, ma da Risorto si fa cuoco, cucinando sulla riva pani e pesci sulla brace ardente, a favore dei discepoli smarriti e affamati[3].
    D’altronde aveva già manifestato la sua affabilità col cibo raccontando molto tempo prima la parabola del padre misericordioso[4], dipingendo il figlio minore nell’atto di sentire la misericordia del padre attraverso il banchetto preparato per il suo ritorno. Il figlio maggiore, invece, anoressico e inappetente per l’invidia, non riuscirà a sedersi alla tavola della riconciliazione.

    Il Vangelo della tavola

    Agli occhi di Gesù, dunque, prendere cibo non è una pura e semplice operazione biologica di nutrimento, ma è un vero e proprio spazio di rivelazione. È un’esperienza di fiducia incondizionata, perché in quel momento ci rendiamo conto, sulla nostra pelle e sulla bocca, che ciò che ci sostenta arriva da fuori, da altri. Nessuno di noi si limita a nutrirsi, ma si siede a tavola, cura le portate, anche quelle più semplici. Quando condividiamo il pasto siamo al cospetto della fragilità dei commensali e manifestiamo la nostra, senza maschere e senza tentativi di occultamento.
    Quante cose, in effetti, passano tra noi proprio tramite questo gesto elementare che ci accomuna e rivela sempre tanto di noi! L’anoressia rifiuta il pasto come respingimento dell’affidamento agli altri; viceversa, abbuffarsi e buttarsi a capofitto sul cibo è il segno uguale e contrario della disposizione a voler prendere e tenere tutto per sé. Il cibo, dunque, non è mai una cosa anonima e meccanica davanti allo sguardo umano: suscita invece una relazione, educa alla libertà, ci rivela in modo corporeo che l’origine di noi non siamo noi e che la parola “fiducia” e la risonanza fondatrice di ogni cosa.
    Il Vangelo è la lieta notizia che ci insegna a fare del pasto un’esperienza di vera umanità. Quando alla domenica ci ritroviamo a celebrare l’Eucaristia, Pasqua del Signore, succede che il pane di Gesù ci libera tanto dall’inappetenza solitaria, quanto dalla voracità violenta, facendo spazio agli altri e generando ogni volta da capo il tempo della condivisione, già scritta sul nostro corpo ogni volta che con fiducia apriamo la bocca, prendiamo cibo sedendoci a tavola e, nello stesso momento, allarghiamo occhi e mani per riconoscere, in tutta la loro dignità, i commensali che stanno mangiando con noi.
    Ecco perché la sinodalità è già scritta fin dall’inizio nell’Eucaristia e l’Eucaristia, nella globalità della sua celebrazione, è sorgente della sinodalità: la Chiesa non può avere altra forma, se è vero che non esiste pasto senza comunione e che la comunione di tavola è sempre il miracolo difficile e sempre nuovo della fraternità. Senza Capo, che è Gesù, il Corpo non esisterebbe, ma è pur vero che senza Corpo sinodale, plurale, il Capo stesso non potrebbe rendersi presente tra noi, nelle sue membra, in modo reale.

    Eucaristia e Chiesa sinodale: con-vocazione, con-divisione, con-vivenza

    Riconsegnando al rito la sua dinamicità, oltre la sua fissità a cui lo abbiamo costretto, è possibile cogliere il rapporto interiore tra Eucaristia e Chiesa sinodale tramite tre “movimenti” rituali: la con-vocazione, che richiama l’ingresso iniziale, la con-divisione, attivata dalla processione di comunione insieme alla frazione del pane, e la con-vivenza, rilanciata dall’uscita conclusiva.
    Entrare nello spazio liturgico domenicale non è soltanto un “arriviamo” scomposto, un movimento esteriore per raggiungere un luogo: ci sentiamo con-vocati, cioè chiamati insieme, non da soli. L’accoglienza sul sagrato, il canto iniziale, il saluto liturgico manifestano la riconoscenza per storie diverse che si raccolgono attorno al Pane e alla Parola. In quel momento non siamo monadi solitarie, ma vite in relazione, accolte per quello che sono nella loro concretezza e ciascuno di noi trova il proprio posto in comunione con gli altri. È l’esperienza liturgica della Chiesa come assemblea fraterna, che chiede subito perdono per non essere mai all’altezza del suo compito, ma pure fiduciosa nella benedizione del Signore che le viene incontro, per sostenerla, accompagnarla e rinnovarla. Il movimento di con-vocazione manifesta così il fondamento teologico della sinodalità: ci raduniamo perché mossi da un annuncio lieto e imprevisto, che risveglia e mette in cammino.
    La processione di comunione, poi, non può essere ridotta ad uno spostamento strumentale per “prendere l’ostia”, ma nell’avvicinarci lentamente al pasto eucaristico maturiamo la consapevolezza di partecipare tutti ad un unico pane e ad un unico calice: sperimentiamo la con-divisione in presa diretta. Colui che si è fatto pane spezzato perché tutti possano vivere si rende presente tramite il gesto dell’unità nella diversità realmente attuata. Il movimento di con-divisione manifesta così la forma fraterna della sinodalità: ci ospitiamo gli uni gli altri perché nessuno manchi alla festa del pasto eucaristico e perché la diversità non sia motivo di allontanamento, ma di ricchezza profetica per le comunità stesse.
    E infine, il movimento di uscita dallo spazio liturgico verso il sagrato e la strada non è riducibile ad un “rompete le righe”, ma genera il desiderio di una con-vivenza, di una ordinarietà della testimonianza che passa prima di tutto dall’aiuto reciproco, dal vivere insieme la passione per la costruzione di mondi giusti e di città abitabili. Questa dinamica di con-vivenza manifesta così il tratto missionario della sinodalità: arriviamo all’Eucaristia come singoli e dovremmo uscirne ogni volta come Popolo di Dio, trasformati nel Corpo stesso del Signore che si fa pane e vino perché ciascuno si senta con-vocato e non in solitudine, si riconosca parte di una con-divisione di vita e non un’isola e senta lo slancio per osare con fiducia un con-vivere insieme nella quotidianità.
    Quante cose passano tra noi tramite il pasto condiviso e la comunione di tavola! Il Risorto stesso rimane tra noi proprio così, ri-formando nell’Eucaristia la sua Chiesa in prospettiva sinodale, perché ne possa ridiventare ogni volta il Corpo ospitale nella storia umana.
    Riscoprire il fondamento eucaristico della sinodalità è così una occasione preziosa per restituire alla ritualità il suo linguaggio affettivo e dinamico, ben più vicino alla realtà giovanile di quanto si pensi. Anche questo compito, che non ha certo bisogno di astrusi artifici comunicativi, ma di restituire al rito stesso la sua profonda rilevanza umana, rappresenta un lavoro squisitamente sinodale assai urgente.

     

    NOTE

    [1] Cfr. Lc 14, 7-14.
    [2] Cfr. Mc 14, 3-9.
    [3] Cfr. Gv 21, 1-14.
    [4] Cfr. Lc 15, 11-32.


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